Epilogo – Louise Glück

Foto di Marcello Comitini

 

Leggendo quello che ho appena scritto, adesso credo
d’essermi fermata precipitosamente, così che la mia storia sembra essere stata
leggermente distorta, terminando, come accadde, non bruscamente
ma in una specie di nebbia artificiale come quella
diffusa sui palchi per consentire difficili cambi di scena.

Perché mi sono fermata? Un qualche istinto
ha percepito una forma, l’artista in me
che è intervenuta per fermare il flusso, per così dire?

Una forma. O il destino, come dicono i poeti,
intuìto in quelle poche ore lontane –

Devo averlo pensato una volta.
Eppure il termine non mi piace
mi sembra una stampella, una fase,
l’adolescenza della mente, forse –

Tuttavia, era un termine che ho usato io stessa,
spesso per spiegare i miei fallimenti.
Fato, destino, i cui disegni e avvertimenti
ora mi sembrano semplicemente
simmetrie locali, metonimiche
palline in un’immensa confusione –

Il caos, era quello che ho visto.
Il mio pennello si è bloccato: non riuscivo a dipingerlo.

Oscurità, silenzio: quella era la sensazione.

Come lo chiamavamo allora?
Una “crisi di visione” corrispondente, credevo,
all’albero che hanno affrontato i miei genitori,

ma mentre loro sono stati costretti
a penetrare nell’ostacolo,
io mi sono ritirata o sono fuggita –

La nebbia copriva il palco (la mia vita).
I personaggi andavano e venivano, i costumi venivano cambiati,
la mia mano pennello si mosse da un lato all’altro
lontano dalla tela,
da un lato all’altro, come un tergicristallo.

Sicuramente questo era il deserto, la notte oscura.
(In realtà, una strada affollata di Londra,
i turisti che sventolavano le loro mappe colorate.)

Si dice una parola: Io.
Fuori da questi argini
le grandi forme –

Ho tratto un respiro profondo. E mi è venuto in mente
che la persona che ha tratto quel respiro
non era la persona della mia storia, la sua mano infantile
brandiva con sicurezza il pastello –

Quella persona ero io? Una bambina ma anche
un esploratrice per la quale il sentiero è improvvisamente sgombro e
la vegetazione le si apre innanzi –

E oltre, non più schermata alla vista, lei esaltava
la solitudine forse sperimentata da Kant
sulla strada per i ponti –
(Condividiamo un compleanno.)

Fuori, le strade in festa
erano imbrigliate, alla fine di gennaio, da luci natalizie stremate.
Una donna si è appoggiata alla spalla del suo amante
cantando Jacques Brel nel suo debole soprano –

Bravo! la porta è chiusa.
Ora niente fugge, niente entra –

Non mi ero mossa. Ho sentito il deserto
allungarsi in avanti, allungarsi (ora sembra)
da tutte le parti, spostandosi mentre parlo,

così che ero costantemente
faccia a faccia con il vuoto, quello
figliastro del sublime,

che, si scopre,
è stato sia il mio soggetto che il mio mezzo.

Cosa avrebbe detto il mio gemello, se i miei pensieri
lo avessero raggiunto?

Forse avrebbe detto
che nel mio caso non c’era nessun ostacolo (tanto per dire qualcosa)
dopo di che sarei stata
deferita alla religione, il cimitero dove
le domande di fede trovano risposta.

La nebbia si era diradata. Le tele vuote
sono state girate con la faccia verso il muro.

Il piccolo gatto è morto (così diceva la canzone).

Devo risorgere dalla morte, chiede lo spirito.
E il sole dice di sì.
E il deserto risponde
la tua voce è sabbia sparsa nel vento.

Louise Glück

(TRADUZIONE DI MARCELLO COMITINI)
ALTRE POESIE DI LOUISE GLÜCK TRADOTTE DA MARCELLO COMITINI

∗∗∗

Afterword

Reading what I have just written, I now believe
I stopped precipitously, so that my story seems to have been
slightly distorted, ending, as it did, not abruptly
but in a kind of artificial mist of the sort
sprayed onto stages to allow for difficult set changes.

Why did I stop? Did some instinct
discern a shape, the artist in me
intervening to stop traffic, as it were?

A shape. Or fate, as the poets say,
intuited in those few long-ago hours—

I must have thought so once.
And yet I dislike the term
which seems to me a crutch, a phase,
the adolescence of the mind, perhaps—

Still, it was a term I used myself,
frequently to explain my failures.
Fate, destiny, whose designs and warnings
now seem to me simply
local symmetries, metonymic
baubles within immense confusion—

Chaos was what I saw.
My brush froze—I could not paint it.

Darkness, silence: that was the feeling.

What did we call it then?
A “crisis of vision” corresponding, I believed,
to the tree that confronted my parents,

but whereas they were forced
forward into the obstacle,
I retreated or fled—

Mist covered the stage (my life).
Characters came and went, costumes were changed,
my brush hand moved side to side
far from the canvas,
side to side, like a windshield wiper.

Surely this was the desert, the dark night.
(In reality, a crowded street in London,
the tourists waving their colored maps.)

One speaks a word: I.
Out of this stream
the great forms—

I took a deep breath. And it came to me
the person who drew that breath
was not the person in my story, his childish hand
confidently wielding the crayon—

Had I been that person? A child but also
an explorer to whom the path is suddenly clear, for whom
the vegetation parts—

And beyond, no longer screened from view, that exalted
solitude Kant perhaps experienced
on his way to the bridges—
(We share a birthday.)

Outside, the festive streets
were strung, in late January, with exhausted Christmas lights.
A woman leaned against her lover’s shoulder
singing Jacques Brel in her thin soprano—

Bravo! the door is shut.
Now nothing escapes, nothing enters—

I hadn’t moved. I felt the desert
stretching ahead, stretching (it now seems)
on all sides, shifting as I speak,

so that I was constantly
face-to-face with blankness, that
stepchild of the sublime,

which, it turns out,
has been both my subject and my medium.

What would my twin have said, had my thoughts
reached him?

Perhaps he would have said
in my case there was no obstacle (for the sake of argument)
after which I would have been
referred to religion, the cemetery where
questions of faith are answered.

The mist had cleared. The empty canvases
were turned inward against the wall.

The little cat is dead (so the song went).

Shall I be raised from death, the spirit asks.
And the sun says yes.
And the desert answers
your voice is sand scattered in wind.

Louise Glück

da “Faithful and Virtuous Night”, Farrar, Straus and Giroux, 2014

Una semplice nebbia… – Franco Fortini

Foto di Michael Kenna

 

Una semplice nebbia si è chiusa
su alberi e torri e si altera l’ora
in un poco di bruno e rosa
che la sfera del sole fora.

Giovani ansie, pietà per voi
che ai sassi dei giardini la mattina
vi umiliate. Pietà per il filo di gioia
che non basta. Per la nota che vi affina.

Egli vorrebbe d’impeto volare
nel passo del pensieroso, nella gola della vergine,
nella disperazione che a tutto acconsentì.
Ma distingue invece le foglie chiare

già placcate in pozze e lastre.

Franco Fortini

da “Composita solvantur”, Einaudi, Torino, 1994

Mattino – Blaga Dimitrova

Ingrid Bergman e Humphrey Bogart in “Casablanca”, di Michael Curtiz, 1942

 

Era necessario un addio, perché capissi,
che non c’è un addio per noi.

Per sempre porterò in me quest’alba
come segno di bruciatura.
Alzàti sul far del giorno,
partimmo verso l’aeroporto grigio
ed eravamo contenti, perché era così lontano.

La mia ultima parola fu un sorriso.

E sopra di noi sorgeva con l’addio
l’incontro vero e l’amore.

Blaga Dimitrova

1961, Praga

(Traduzione di Valeria Salvini)

da “Segnali (Poesie scelte 1937-1999)”, Fondazione Piazzolla, Roma, 2000

∗∗∗

УТРО

Нужна бе раздяла, за да разбера,
че за нас раздяла няма.

Все ще нося този изгрев
като рана от изгаряне.
Станали преди деня,
тръгнахме към сивото летище
и се радвахме, че е така далече.

И прощалната ми дума бе усмивка.

А над нас изгряваше с раздяла
истинската среща и любов.

Блага Димитрова

1961, Прага

da “Svetat v sepa. Stihotvorenija”, (Il mondo in pugno. Poesie), Sofia, 1962

La Linea Maginot – Izet Sarajlić

Foto di Alfred Eisenstaedt

 

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,
fra te e me ci sarà sempre l’Ombra delle Disgrazie Passate,
il Cielo dei Caduti ci sarà,
e le mie poesie piú amorose scritte per te ti faranno ricordare la polvere da sparo,
la polvere da sparo, le trincee, il fronte affumicato.

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,
fra te e me,
fra ogni nostro aprile e noi,
fra ogni nostro novembre e noi,
l’Ombra delle Disgrazie Passate, il Cielo dei Caduti, la Linea Maginot,
e mai, davvero mai riusciremo tu e io a occuparci soltanto delle tende nuove
necessarie a far cinguettare il nostro appartamentino,
necessarie per sottrarci alla vista di tutti quando beviamo
i dolci vini del nostro amore,
per non farci vedere da nessuno quando torniamo dalle nostre
inutili fughe stanchi,
per non far scoprire a nessuno le tacite ragioni per cui viviamo.

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,
fra te e me, fra noi, fra tutti noi,
per dirci quanto siano insignificanti le tende nuove nel nostro appartamento
quanto sarebbe comicamente irrilevante anche chi potesse vederci quando ci amiamo,
qualcuno che potesse lamentarsi di noi quando ci amiamo.

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot,
l’Ombra delle Disgrazie Passate, il Cielo dei Caduti, la Linea Maginot.
I treni ci porteranno nelle nostalgiche primavere dei nostri aprili novembrini
perché il nostro tetro carico urbano di pensieri
si arricchisca di verde cosí necessario per vivere,
cosí necessario per amare,
cosí necessario per andarsene umanamente,
ma sappi:
noi non riusciremo mai a raccogliere le margherite solo come margherite,
perché fra i fiori e noi, fra te e me,
ci sarà sempre la Linea Maginot.

Fra te e me ci sarà sempre la Linea Maginot.
Fra te e me,
fra ogni nostro desiderio e noi,
fra ogni nostra partenza e noi,
fra ogni nostro ricordo e noi
ci saranno sempre
l’Ombra delle Disgrazie Passate, il Cielo dei Caduti, la Linea Maginot.

Izet Sarajlić

1955.

(Traduzione di Silvio Ferrari)

da “Chi ha fatto il turno di notte”, Einaudi, Torino, 2012

∗∗∗

Linija Mažino

Između tebe i mene stajaće uvijek Linija Mažino,
između tebe i mene stajaće uvijek Sjen Minulih Stradanja,
Nebo Palih stajaće,
i moje najljubavnije pjesme pisane tebi podsjećaće te na barut,
na barut, na rovove, na zadimljeni front.

Između tebe i mene stajaće uvijek Linija Mažino,
između tebe i mene,
između svakog našeg aprila i nas,
između svakog našeg novembra i nas,
Sjen Minulih stradanja, Nebo Palih, Linija Mažino,
i nikad, nikad nećemo moći, ti i ja
da mislimo prosto o novim zavjesama
potrebnim da bi se naš mali stan rascvrkutao,
potrebnim da nas niko ne bi mogao vidjeti kad pijemo pitoma vina naše ljubavi,
da nas niko ne bi mogao vidjeti kad se vraćamo s naših uzaludnih bjekstava umorni,
da niko ne bi vidio naše tihe razloge zašto živimo.

Između tebe i mene stajaće uvijek Linija Mažino,
između tebe i mene, između nas, između sviju nas,
da nam govori kako su tako beznačajne nove zavjese u našem stanu
kako je tako smiješno nevažan neko ko bi nas mogao vidjeti kad volimo,
neko ko bi se mogao sažaliti na nas kad volimo.

Između tebe i mene stajaće uvijek Linija Mažino,
Sjen Minulih Stradanja, Nebo Palih, Linija Mažino.
Vozovi će nas odnositi u nostalgična proljeća naših novembrivih aprila
da bi se naš sumorni gradski teret misli
oplodio zelenilom tako potrebnim da se živi,
tako potrebnim da se voli,
tako potrebnim da se ljudski odlazi,
ali znaj:
mi nikad nećemo moći margarete brati prosto kao margarete,
jer između njih i nas, između tebe i mene
stajaće uvijek Linija Mažino.

Između tebe i mene stajaće uvijek Linija Mažino.
Između tebe i mene,
između svake naše želje i nas,
između svakog našeg odlaska i nas,
između svakog našeg sjećanja i nas
stajaće uvijek
Sjen Minulih Stradanja, Nebo Palih, Linija Mažino.

Izet Sarajlić

1955.

da “Knjiga oproštaja”, Rabić, Sarajevo, 1998

L’origine – Costantino Kavafis

Anouk Aimée e Jean-Louis Trintignant, Un Homme et une femme, Claude Lelouch, 1966

 

Ormai la loro voluttà vietata
è consumata. S’alzano, si vestono
frettolosi e non parlano.
Sgusciano via furtivi, separati. Camminano
per via con una vaga inquietudine, quasi
sospettino che in loro un non so che tradisca
su che sorta di letto giacquero poco fa.

Ma dell’artista come s’arricchisce la vita!
Domani, doman l’altro, o fra anni, saranno
scritti i versi gagliardi ch’ebbero qui l’origine.

Costantino Kavafis

(Traduzione di Maria Filippo Pontani)

da “Poesie”, “Lo Specchio” Mondadori, 1961

∗∗∗

Η αρχή των

Ή έκπλήρωσις τής έκνομής των ηδονής
έγινεν. Άπ’ τύ στρώμα σηκωθήκαν,
καί βιαστικά ντύνονται χωρίς νά μιλούν.
Βγαίνουνε χωριστά, κρυφά άπ’ το σπίτι· καί καθώς
βαδίζουνε κάπως άνήσυχα στον δρόμο, μοιάζει
σάν νά υποψιάζονται πού κάτι επάνω των προδίδει
σέ τί είδους κλίνην έπεσαν πρύ ολίγου.

Πλήν του τεχνίτου πώς έκέρδισε ή ζωή.
Αύριο, μεθαύριο, ή μετά χρόνια θά γραφούν
οί στίχ’ οί δυνατοί πού εδώ ήταν ή αρχή των.

Κωνσταντίνος Καβάφης

da “Από τα, Ποιήματα 1897-1933”, Ίκαρος, 1984