La mano sporca – Mark Strand

Foto di Timothy Greenfield

 

La mia mano è sporca.
Devo amputarla.
Lavarla non ha senso.
L’acqua è putrida.
Il sapone è pessimo.
Non fa schiuma.
La mano è sporca.
Da anni è sporca.

La tenevo di solito
lontano dagli occhi,
nelle tasche dei calzoni.
Nessuno sospettava nulla.

La gente mi si avvicinava,
voleva darmi la mano.
Io mi rifiutavo
e la mano nascosta,
come un lumacone buio,
mi lasciava il segno
sulla coscia.
E poi mi resi conto
che usarla o non usarla
era lo stesso.
Il disgusto era lo stesso.

Ah! Quante notti
nelle profondità della casa
ho lavato quella mano,
l’ho strofinata, lustrata,
ho sognato che diventasse
diamante o cristallo
o soltanto, alla fine,
una mano bianca, normale,
la mano pulita di un uomo,
che si può stringere,
o baciare, o tenere
in uno dei momenti
in cui due persone si confessano
senza dire una parola…
con l’unico risultato
che la mano incurabile,
letargica, crostacea,
continua a schiudere dita sporche.
E lo sporco era ripugnante.
Non era fango o fuliggine
né il lerciume spesso
di una vecchia crosta
né il sudore
della camicia di un lavoratore.
Era uno sporco dolente
fatto di malattia
e angoscia umana.
Non era nero;
il nero è puro.
Era opaco,
uno sporco grigiastro e opaco.

È impossibile
vivere con questa
mano nauseabonda che giace
sulla tavola.
Svelto! Mozzala!
Falla a pezzi
e buttala
a mare.
Con il tempo, con la speranza
e i suoi complicati ingranaggi,
un’altra mano arriverà,
pura, trasparente come vetro,
e mi si attaccherà al polso.

Mark Strand

(Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan)

da “Motivi per muoversi”, 1968, in “Mark Strand, Tutte le poesie”, Mondadori, 2019

∗∗∗

The dirty hand

My hand is dirty.
I must cut it off.
To wash it is pointless.
The water is putrid.
The soap is bad.
It won’t lather.
The hand is dirty.
It’s been dirty for years.

I used to keep it
out of sight,
in my pants pocket.
No one suspected a thing.

People came up to me,
wanting to shake hands.
I would refuse
and the hidden hand,
like a dark slug,
would leave its imprint
on my thigh.
And then I realized
it was the same
if I used it or not.
Disgust was the same.

Ah! How many nights
in the depths of the house
I washed that hand,
scrubbed it, polished it,
dreamed it would turn
to diamond or crystal
or even, at last,
into a plain white hand,
the clean hand of a man,
that you could shake,
or kiss, or hold
in one of those moments
when two people confess
without saying a word . . .
Only to have
the incurable hand,
lethargic and crablike,
open its dirty fingers.
And the dirt was vile.
It was not mud or soot
or the caked filth
of an old scab
or the sweat
of a laborer’s shirt.
It was a sad dirt
made of sickness
and human anguish.
It was not black;
black is pure.
It was dull,
a dull grayish dirt.

It is impossible
to live with this
gross hand that lies
on the table.
Quick! Cut it off!
Chop it to pieces
and throw it
into the ocean.
With time, with hope
and its intricate workings
another hand will come,
pure, transparent as glass,
and fasten itself to my arm.

Mark Strand

da “Reasons for Moving”, 1968, in “Collected Poems”, New York, Alfred A. Knopf/ Random House, 2014

«Nella mia tristezza entravano masnade» – Angelo Maria Ripellino

Oskar Schlemmer

 

39.

Nella mia tristezza entravano masnade
di pierrots, di pagliacci, di stracci sgargianti,
ma soprattutto ragazze dal muso di topo,
argentee donnine di pasta lunare,
gentiluzze con occhi come bragia di fuoco,
desiderabili, desiderabili.
«Fedeltà» è una parola che trasciniamo a fatica,
bruciata come il legno di una chitarra zigana:
senza la mia unica donna mi mancava la vita,
ma le altre, tuffolotte, premevano con sguardi succhiosi
e con popolline mature, bramose di darsi buon tempo.
Ecco Violante tra i capelli di rame di un fràssino
in un caffè di Kufstein, ma frenetiche turbe
di claudicanti vecchiacce sbucate da tane di tassi,
con ricciolini e cappelli a cloche, Dio ci salvi,
dimenando un nodoso Alpenstock, mi garrivano:
«Stop, torna subito dalla tua unica! ». E le Alpi
azzurre ripetevano: «Fedeltà! », come corvi.
E se Aquilia Zborowska dai guanti glacés fino al gomito
e dal collo lungo lunghissimo mi accarezzava le mani,
chiamandomi: «Dolce mia fiamma», «Idol mio»,
di colpo la gaglioffesca fanfara di pece dei corvi:
«Non si può. Non si deve.
Dove vai? Dove corri?
Parlane prima con Modigliani».
Dicono che la vita sia breve
e che il poeta sia un impostore,
ma è bello che mille occhi di donne
come semi di mele scintillino
dai margini verdi della città del tuo cuore.

Angelo Maria Ripellino

da “Das letze Varieté”, in “Lo splendido violino verde”, Einaudi, Torino, 1976

Cose nascoste – Costantino Kavafis

Konstantinos Kavafis, 1900

 

Dalle cose che feci o dissi
non cerchino d’indovinare chi fui.
C’era un impedimento a trasformare
il mio modo di vivere e di agire.
C’era un impedimento, e mi fermava
molte volte che stavo per parlare.
Dalle mie azioni meno appariscenti
e dai miei scritti più velati –
da questo solo mi conosceranno.
Anche se forse non varrà la pena
che faccian tanti sforzi per capirmi.
Più avanti – in una società perfetta –
apparirà di certo qualcun altro
che mi somigli e agisca da uomo libero.

Costantino Kavafis

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Costantino Kavafis, Poesie scelte”, Crocetti Editore, 2020

∗∗∗

Κρυμμένα

Ἀπ’ ὅσα ἔϰαμα ϰι ἀπ’ ὅσα εἶπα
νά μή ζητήσουνε νά βροῦν ποιός ἤμουν.
Ἐμπόδιο στέϰονταν ϰαί μεταμόρφωνε
τές πράξεις ϰαί τόν τρόπο τῆς ζωῆς μου.
Ἐμπόδιο στέϰονταν ϰαί σταματοῦσε με
πολλές φορές πού πήγαινα νά πῶ.
Οἱ πιό ἀπαρατήρητές μου πράξεις
ϰαί τά γραψίματά μου τά πιό σϰεπασμένα —
ἀπό ἐϰεῖ μονάχα θά μέ νιώσουν.
Ἀλλά ἴσως δέν ἀξίζει νά ϰαταβληθεῖ
τόση φροντίς ϰαί τόσος ϰόπος νά μέ μάθουν.
Κατόπι — στήν τελειοτέρα ϰοινωνία —
ϰανένας ἄλλος ϰαμωμένος σάν ἐμένα
βέβαια θά φανεῖ ϰ’ ἐλεύθερα θά ϰάμει.

Κωνσταντίνος Καβάφης

[1908]

da “Κρυμμένα ποιήματα 1877?-1923”, [Poesie segrete 1877?-1923], a cura di I. P. Savvidis, Ikaros, Atene, 1993

Luna – Mark Strand

 

Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, la luna sempre, appare

tra due nuvole, spostandosi così piano che parrà
siano trascorse ore prima che tu giunga alla pagina seguente

dove la luna, ora più luminosa, fa scendere un sentiero
per condurti via da ciò che hai conosciuto

entro i luoghi in cui quello che ti eri augurato si avvera,
la sua sillaba solitaria come una frase sospesa

sull’orlo del significato, in attesa che tu ne dica il nome
una volta ancora mentre alzi gli occhi dalla pagina

e chiudi il libro, sentendo ancora com’era
soffermarsi in quella luce, quell’improvviso paradiso di suono.

Mark Strand

(Traduzione di Damiano Abeni)

da “Uomo e cammello”, “Lo Specchio” Mondadori, 2007

***

Moon

Open the book of evening to the page
where the moon, always the moon, appears

between two clouds, moving so slowly that hours
will seem to have passed before you reach the next page

where the moon, now brighter, lowers a path
to lead you away from what you have known

into those places where what you had wished for happens,
its lone syllable like a sentence poised

at the edge of sense, waiting for you to say its name
once more as you lift your eyes from the page

and close the book, still feeling what it was like
to dwell in that light, that sudden paradise of sound.

Mark Strand

da “Man and Camel”, Knopf Doubleday Publishing Group, 2008

Autostrada della Cisa – Vittorio Sereni

Foto di Gerard Laurenceau

 

Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).

Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio dal ciglio di un dirupo,
spegne un giorno già spento, e addio.

Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.

Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochtitlán.

Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.

Ancora non lo sai
– sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?

Vittorio Sereni

da “Stella variabile”, Garzanti, 1981