Sonetto [III] – Mahmūd Darwīsh

Foto di Susan De Witt

 

Amo della notte il preludio quando venite insieme,
mano nella mano, e mi avvolgete lente,
strofa dopo strofa, mi portate lassù sulle vostre ali. Amiche mie restate, non affrettatevi
e dormite contro i miei fianchi come le ali di una rondine stanca.

Calda è la vostra seta. Il flauto dovrà rallentare
per levigare un sonetto quando mi troverete segreto e bello
come un senso sul punto di spogliarsi. Non riuscendo ad arrivare
né a indugiare davanti alle parole, mi sceglie come soglia.

Amo della poesia la spontaneità della prosa e l’immagine velata,
senza una luna per l’eloquenza: quando cammini scalza,
la rima abbandona l’amplesso delle parole
e si spezza la cadenza al culmine della prova.

Un poco di notte accanto a te basta per farmi uscire dalla mia Babilonia
verso la mia essenza, la mia fine. Nessun giardino in me
e tu, tu sei tutta. E da te trabocca il me libero e buono.

Mahmūd Darwīsh

(Traduzione di Chirine Haidar)

da “Il letto della straniera”, Epoché, 2009

Sonetto [V] – Mahmūd Darwīsh

Foto di Noel Oszaid

 

Ti sfioro come il violino i sobborghi lontani.
Lentamente il fiume rivendica ciò che gli spetta di pioggerella
e piano piano si avvicina un domani che passa attraverso il poema.
Porto la terra lontana ed essa mi porta sulle vie del viaggio.

Sulla cavalla delle tue inclinazioni la mia anima tesse
un cielo naturale con le tue ombre, filo dopo filo.
Sono nato dai tuoi atti sulla terra, nato dalle mie ferite
quando accendono i fiori di melograno nei tuoi giardini chiusi.

Dal gelsomino scorre il sangue bianco della notte. Il tuo profumo
è la mia debolezza e il tuo segreto mi perseguita come il morso di un serpente. I tuoi capelli,
tenda di vento dai colori autunnali. Cammino con le parole
fino alle ultime parole dette dal beduino a due coppie di colombe.

Ti tocco come il violino la seta del tempo remoto.
E intorno a me, a te, cresce l’erba di un luogo antico
e nuovo.

Mahmūd Darwīsh

(Traduzione di Chirine Haidar)

da “Il letto della straniera”, Epoché, 2009

La tua notte è di lillà – Mahmūd Darwīsh

Monia Merlo, dalla serie Crisalide, 2015

 

La notte si accomoda dove sei tu. La tua notte
è di lillà. Ogni tanto un segno scappa
dai raggi delle tue fossette, infrange la coppa di vino
e accende la luce delle stelle. La tua notte è la tua ombra,
una terra leggendaria per l’uguaglianza tra
 i nostri sogni. Io non sono il viaggiatore né il residente
della tua notte lillà, sono colui che un giorno fu me.
Ogni volta che la notte si dissipa in te, intuisco
il vacillare del cuore: non se ne soddisfa l’essere, né l’anima.
E nei nostri corpi un cielo abbraccia una terra. E sei tutta
la tua notte… Una notte che risplende come l’inchiostro dei pianeti. Una notte,
a detta della notte, che striscia nel mio corpo indolente
come la sonnolenza delle volpi. Una notte che trasuda un mistero luminoso sulla mia lingua. E più si precisa,
più temo il domani nel pugno della mano.
Una notte che scruta se stessa,
sicura e rassicurata dalla propria infinitezza,
appena sfiorata dal suo specchio e dai canti degli antichi pastori
per l’estate di imperatori malati d’amore.
Una notte che ha mosso i primi passi nella poesia
preislamica, sui capricci di Imru’ al-Qays e degli altri,
e ha allargato ai sognatori il cammino del latte
verso una luna affamata ai confini delle parole…

Mahmūd Darwīsh

(Traduzione di Chirine Haidar)

da “Il letto della straniera”, Epoché, 2009

«Chiedi all’orizzonte, adorno del fiorire delle stelle» – Ibn Zamrak

Foto di Liudmila Wilchevskaya

 

Chiedi all’orizzonte, adorno del fiorire delle stelle:
in lui confido, perché tu sappia chi sono.
Alla brezza ho affidato il fardello
con cui attraversa il tempo raminga la speranza.
Chiunque obbedisce con gli occhi alle leggi d’amore
sa che è norma infrangere il veto imposto dal censore,
evitare la strada percorsa da chi sempre dispensa consigli.
Solamente all’amore e alla sua tirannia sottopongo il mio cuore,
e lo sguardo imperioso d’amore riconosco sovrano.
Poiché amore cos’è se non sguardo che accende passione
e che ammala di un male di cui male è rimedio?
Quanti giorni passati a inseguire gazzelle,
acquisendo esperienza di unioni amorose: a che pro,
se poi un giorno da solo rimasi col solo che amavo,
e dal dardo lucente dell’occhio fui trapassato.
Sorrise, ed io gli occhi già ciechi di pianto mi vidi rubati.
Mi fece pensare quel labbro che al riso muoveva
a una fonte, che certo la sete più ardente saprebbe placare,
ma rinuncia imponeva l’amore che casto avevo giurato.
Eppure una notte in cui nel mio letto dormì il plenilunio,
mentre l’occhio del cielo stellato non altri che me era fisso a guardare,
dalle perle d’una luna che ride succhiai linfa più dolce del vino,
sì, baciai quella rosa che la perla incastona.
O freschezza di labbro che a baci disseta:
trascorsi la notte irrorando col pianto la rosa del volto,
fino a quando il narciso degli occhi non fu
dello stesso biancore dell’alba.

Ibn Zamrak

(Traduzione di Leonardo Capezzone)

da “Poesia dell’Islam”, Sellerio Editore, Palermo, 2004

Andalusia, 1333 – 1393. Segretario e ministro dei sovrani di Granada, fu molto apprezzato a corte anche come poeta. I suoi versi decorano, nella migliore tradizione del connubio fra calligrafia, poesia e architettura della Spagna arabo –  islamica, alcune pareti nei giardini dell’Alhambra.