
Yves Bonnefoy
I
Quelle mani che si avvinghiavano a lei di notte,
Le sentiva innumerevoli, non cercava
Di dar loro un volto. Le occorreva
Non sapere, desiderando non essere.
Anima e corpo, per stringere le vostre dita, unire le vostre labbra,
Davvero occorre l’approvazione degli occhi?
Penano i nostri occhi, che il linguaggio obbliga
A sventare senza posa troppi inganni!
Psiche aveva amato che il non vedere
Fosse come il fuoco quando avvolge
L’albero di qui degli altri mondi della folgore.
Eros, lui desiderava tenere tutto quel volto
Tra le mani, non l’abbandonava
Che con vivo rammarico ai capricci del giorno.
II
E per tutto il giorno Psiche è cieca? No,
Ha rimboccato su di sé il lenzuolo della luce.
È estate, tutto è immobile sotto il cielo,
Anche il fiume nel suo letto in disordine.
Lei avanza, nel suo corpo, e sola. Ma ecco
Che un estraneo invoca, nel suo sangue,
È come se lo spirito si desiderasse altro
Da sé, un embrione in seno alla morte.
Felice il mondo in cui la notte trabocca
Nel giorno, e gronda sotto la luce.
Avanzare in quest’acqua, fino alle ginocchia,
È volgersi verso un altro sole,
E il fondo del mare è rosso, poi si nuota
E tutto si perde di ciò che si è stati.
III
E Psiche s’intorpidisce, quando viene sera, ama
Che batta nel suo corpo il cuore di un altro,
Vuole non essere altro che questa camera buia
Dei bambini della notte, sonno e morte.
È come quando tocchiamo uno specchio
E dita vengono incontro alle nostre,
Psiche crede che una mano afferri la sua,
Per condurla verso più di ciò che è.
Verso più? Sono scalini che digradano,
E il corpo si stanca, le mani si aggrappano
A una greve lampada, le ginocchia si piegano.
Psiche, perché vuoi, con la tua spalla nuda,
Spingere la porta in cui giace il tuo avvenire?
Tu entri, tu senti quei quieti respiri.
IV
E lei ha acceso, con mani tremanti,
Questa fiammella? Più svelto di lei
Si è lanciato nell’immagine, questa pace,
Qualcosa di nero, con un grido.
Amore dorme? No, i suoi occhi sono aperti,
Ma sono solo orbite vuote,
Due buchi, insanguinati. È cieco?
Peggio, i suoi occhi sono stati strappati.
Grande moto di questo gran corpo che ridesta
Qualche goccia d’olio, che lo brucia.
Tu errerai, tra i rovi del mondo.
Si rialza, parla, che dice?
La attira svestita contro il suo cuore,
Ascolta i suoi gran singulti che nulla placa.
Yves Bonnefoy
(Traduzione di Fabio Scotto)
da “L’ora presente”, “Lo Specchio” Mondadori, 2015
***
Soient Amour et Psyché
I
Ces mains qui se prenaient à elle dans la nuit,
Elle les ressentait sans nombre, ne cherchait
À leur donner figure. Il lui fallait
Ne pas savoir, désirant ne pas être.
Âme et corps, pour nouer vos doigts, unir vos lèvres,
Faut-il vraiment l’approbation des yeux?
Peinent nos yeux, qu’oblige le langage
À déjouer sans répit trop de leurres!
Psyché avait aimé que ne pas voir,
Ce soit comme le feu quand il enveloppe
L’arbre d’ici des autres mondes de la foudre.
Éros, lui, désirait garder tout ce visage
Entre ses mains, il ne l’abandonnait
Qu’à grand regret aux caprices du jour.
II
Et tout le jour Psyché est-elle aveugle, non,
Elle a tiré sur soi le drap de la lumière.
C’est l’été, tout est immobile sous le ciel,
Même le fleuve en son lit en désordre.
Elle va, dans son corps, et seule. Mais voici
Qu’un étranger réclame, dans son sang,
C’est comme si l’esprit se désirait autre
Que soi, un embryon dans le sein de la mort.
Heureux le monde où déborde la nuit
Dans le jour, et ruisselle sous la lumière.
Avancer dans cette eau, jusqu’aux genoux,
C’est se tourner vers un autre soleil,
Et le fond de la mer est rouge, puis on nage
Et tout se perd de ce qu’on a été.
III
Et Psyché s’engourdit, le soir venant, elle aime
Que batte dans son corps le cœur d’un autre,
Elle veut n’être plus que cette chambre sombre
Des enfants de la nuit, sommeil et mort.
C’est comme quand on touche à un miroir
Et que des doigts y viennent vers les nôtres,
Psyché croit qu’une main y prend la sienne,
Pour la guider vers plus que ce qui est.
Vers plus? Ce sont des marches qui descendent,
Et le corps se fatigue, les mains se crispent
Sur une lourde lampe, les genoux plient.
Psyché, pourquoi veux-tu, de ton épaule nue,
Pousser la porte où gît ton avenir?
Tu entres, tu entends ces souffles paisibles.
IV
Et a-t-elle allumé, à mains tremblantes,
Cette petite flamme? Plus vite qu’elle
S’est jeté dans l’image, cette paix,
Quelque chose de noir, avec un cri.
Amour dort-il, non, ses yeux sont ouverts,
Mais ce ne sont que des orbites vides,
Deux trous, avec du sang. Est-il aveugle?
Pire, ses yeux ont été arrachés.
Grand mouvement de ce grand corps qu’éveillent
Quelques gouttes de l’huile, qui le brûlent.
Tu erreras, dans les ronces du monde.
Il se redresse, il parle, que dit-il?
Il attire la dévêtue contre son cœur,
Il écoute ses grands sanglots que rien n’apaise.
Yves Bonnefoy
da “L’heure présente”, Mercure de France, 2011
Raturer outre e Soient Amour et Psyché sono apparse una prima volta nel 2009 presso le Éditions Galilée con il titolo Raturer outre, accompagnate dalla seguente nota preliminare:
Se io non avessi adottato questa scelta prosodica, quattordici versi distribuiti in due quartine e due terzine, queste poesie non sarebbero esistite, il che forse non sarebbe molto grave, ma non avrei mai saputo ciò che qualcuno in me aveva da dirmi.
Le parole, le parole in quanto tali, autorizzate da questo primato della forma a ciò che possiedono per la propria realtà sonora, hanno stabilito fra loro rapporti per me insospettati. Il bisogno di evitare in questo luogo ristretto la ripetizione, se non meditata, del minimo vocabolo, ha cancellato in esso immagini, pensieri sotto i quali altri sono affiorati. La costrizione sarà stata un trivello, che fora dei livelli di difesa, dando accesso a ricordi rimasti sigillati, quando non anche repressi.
È quanto chiamo «cancellare oltre». La forma, che può mettersi, retoricamente, e a questo punto passiva, al servizio di ciò che si crede di sapere e si desidera dire, propone anche, poeticamente, di decostruire queste idee, scoprendo, dal di sotto, altri strati. Un «trobar», sulle corde del linguaggio.
Y.B.
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