L’ora presente – Yves Bonnefoy

Gérard Rondeau, Yves Bonnefoy, Paris, 2001

 

I

Guarda!
Un lampo invade il cielo, stasera ancora,
Prende la terra nelle sue mani, ma esita,
Quasi s’immobilizza. Si è creduto

Una frase, una firma, no, vacilla,
Lo vediamo che cade, illuminante,
Nelle braccia l’uno dell’altra,
Sonno e morte.

Il lampo, un’illusione,
Anche il lampo.

Un’illusione, la forma
Che si dispiega, un sogno
Che abbraccia la forma, e cadrà
Con essa, spezzata,
Spossessata di se stessa, a quei confini,
Laggiù, della nostra notte di qui,
L’ora presente.

Guarda, vedi.

Guarda, teologo,
Non credi che Dio
Si sia stancato d’essere?

Tu immagini
Che egli non possa finire, essendo infinito,
Con sé
Ma tu sai che nessun sacrificio, ai suoi altari,
Neanche il sacrificio di suo figlio,
Più ridesta il suo desiderio.

Si volta
Verso colei che dormiva accanto a lui,
L’anima del mondo,
Sfiorerà il suo braccio, la sua anca nuda,
Non la risveglierà.

Scenderà
Nei suoi giardini, di terrazza in terrazza,
Fermandosi, talvolta,
Come quelle bestie
Che d’un tratto s’immobilizzano
Per un rumore, un’ombra,

Non ascolterà
Lo stormire del cielo. Né tanto meno
Il grido della disperazione. Neppure
L’urlo della bestia sgozzata,
Neppure
Le note incerte dello zufolo
Di un pastore attardato sotto l’ultimo faggio.

Si sono evaporati
Il bue e l’asinello
E quest’agnello che non è che stupore.
Le costellazioni, ci dicevano,
Avrebbero scintillato su questa paglia.

E vedi, qui, è Venere
China su Adone morente. E quest’altra immagine,
È Niobe, all tears. Io vedo Giuditta
Rialzarsi, sanguinante. Vedo, nella pioggia dorata,
Danae, le sue chiome sparse. Amica mia, è vedere
Quando il pittore non ha avuto tra le mani
Che corpi i cui occhi si chiudono? Io vi tocco,
Spalle nude, riflessi nella penombra,
Foste l’oro che spargeva un dio?

E tu ti chiami Ofelia,
Scoppi a ridere. Il tuo vestito s’apre,
L’acqua nera ti penetra, delle correnti
Ti trascinano via. Tu ti chini su di lui,
Il principe pazzo, scostando i suoi capelli
Incollati al sudore della sua febbre, tu tocchi
Le sue tempie con le labbra. L’acqua rapida
Copre le sue poche parole, disperde le tue,
O tradita,
Ti chiami Desdemona?
Willows, willows…

E ti chiama J. G. F.,
Sei «la sua Elettra lontana»,
Ascolta bene:
La malattia e la morte fanno cenere
Di tutto il fuoco che per noi sfavillò.

E tu ti chiami…? Nessun nome
Per te, di ogni tempo
E di ogni paese, che cadi,
Mani legate dietro la schiena, nuca infranta,
Voce schernita, la bocca
Già colma di terra. Nessun nome,
Nessuna resurrezione neanche per te.
E nemmeno parole, nemmeno le nostre,
Poiché le parole s’impennano
Davanti a ciò che colui che cerca di dire
Non saprebbe provare, non può rivivere.

E cos’è questo, sul sentiero?
È caduto da uno degli alberi, lo raccolgo,
La materia è lucente, ho il mio coltello,
Apro il riccio,
Tento di scalfire il legno del frutto
Ma la lama scivola. Quel che è
Per sempre si rifiuta. Devo gettare
Il frutto impenetrato con il riccio?

Greve
Sotto le sue miniature di cielo nero,
La pagina nel libro. Si vuol sollevarne
Non fosse che un angolo, vedere al di là
Nello spazio delle altre pagine. Ma il fascio
Di queste altre fa massa. Sembra incollato
Da un’acqua da fine del mondo. Della torba
Per nient’altro che un ultimo fuoco? Dobbiamo credere
Che il segno che prese al fianco delle cose
Come un lampo, e vi scintillò,
Non sarà stato che mani giunte invano,
Sogni, fervore di nient’altro che sogni,
Mummia agghindata per nulla, sotto il suo manto di pietra?

Cala la notte. Nelle stanze
I corpi sono nudi. Talvolta un movimento
Per nulla, incompiuto,
Coglie un dormiente che il suo sogno tormenta.
Toccherò questa spalla, quest’altra,
Farò in modo che degli occhi s’aprano, s’allarghino,
Che dei corpi resuscitino, come si è creduto
Che fosse, una volta? Gridare,
Torna, Claude, torna, Enzo, dal luogo dei morti?
Io grido dei nomi, nessuno si risveglia.

E così confuse le nostre parole
Le une alle altre! Esse non si separano.
Dormono
Nelle braccia l’una dell’altra? Nulla sembra
Battere in questa arteria che sfioro
Nell’incavo della loro spalla. Io penso al giorno
In cui, nello stupore
Del cielo e della terra che s’avvicinavano
L’uno all’altra, che si confondevano,
Che divenivano l’orizzonte poi il sentiero,
Legno contro legno strofinati si fece la fiamma.

E talvolta uno di noi trasale, si rivolta
Sul cuscino, riprende
I suoi occhi alla sua chimera. Ma lo specchio
Che dormiva accanto a lui non si risveglia.
Esso riflette il cipresso, le stelle,
Il bel viso della giovane donna addormentata
Sul calore del suo braccio ripiegato,
No, se lo stacco dalla paratia
E l’avvicino alle cose del giorno che spunta,
Quel che stringo è un pezzo di carbone,
Nei suoi riflessi non s’agita che notte.

II

Ho raccolto il frutto, lo apro.
Nella parola
La deriva rapida della nube.

Illusione,
Il focolare che ardeva chiaro la sera, te ne ricordi,
Nella casa che abbiamo amato.
Quel legname,
Quelle palline di carta stropicciata, quell’attizzatoio,
Quella fiamma improvvisa, quasi un lampo,
Un sogno, come noi?

E ricordati
Del cane avvelenato! Graffiava con le sue grida
Il cielo, la terra. Amica mia,
Ancora ieri
Noi andavamo fino a quelle sbarre, laggiù,
Attraverso quelle buche in cui acqua brilla nell’erba.

Ieri, noi passavamo
Accanto al fienile vuoto. Una civetta
Spiccava il volo da sotto il tetto. Io grido il suo nome,
Ma nulla s’agita su questo muro che la luna rischiara.
Nessun occhio di bestia spaventata.

Illusione il mandorlo, tutti i suoi fiori
Come fuochi tra altre stelle.
Sogno, fumo,
Quel cielo delle notti d’allora, di tanti grappoli?
L’agnello? Nient’altro che per sempre
Il coltello e il sangue. La nostra forra,
Nient’altro che lo scroscio di un’acqua che a volte cresce
Poi quasi cessa.

Nessuno
Nello scroscio del torrente. Nessuno
Nella luce. L’uomo
Laggiù, dal cervello d’oro,
Che esita sul marciapiede, le dita sanguinanti
Irrigidite su raschiature dello spirito,
Che offriva, quale mazzo? Io voglio quei fiori,
Liberarli della carta che li copre,
Questa pagina arrossata, perché scorgo,
Nel dono che faceva, già morente,
Gli abissi del cielo e della terra,
Le immagini che formano le nubi
E delle corolle, l’uomo, la donna,
Il cui colore mi pare rimasto vivo,
Ma tutto ciò è nel cunicolo,
Ha gettato l’offerta rifiutata,
Non raccoglierò che qualcosa di appassito,
D’insensato, un odore acre, scialbo?
Rose, rose? Non esistono
Che rose strappate, nessuna rosa in sé,
Nessuna corolla che sostenga il mondo.

III

Eppure, io posso dire

Le parole civetta o arenaria o cielo
O la parola speranza,
Ed ecco che, alzando gli occhi, io vedo questi alberi
Che sulla strada un sole serale infiamma.
È un fuoco di grande dolcezza, le sue chiare braci
Hanno tramutato il fogliame in luce,
E qui c’è il prato, laggiù delle cime,
E le loro mani si congiungono, i loro corpi si cercano
Con questa evidenza, silenziosa,
Che si deve proprio chiamare bellezza.
Io guardo questi alberi per un’ora intera,
È qualcosa di visibile, appena, poiché
La visibilità diviene oro puro
Quando invece attorno cala la notte.
Io ascolto una parola, cerco di vedere ciò che indica,

E mi sembra, incontenibilmente,
Che questa cosa si ricolori, che degli occhi
Si riaprano, stupiti,
Nel sogno di pietra dello spirito.
Le parole sono portatrici di qualcosa di più di noi,
Ne sanno più di noi, esse cercano
Sul bordo di un’acqua del fondo del nostro sonno,
Nera quanto rapida, respinta,
Il guado d’una luce? E questa luce
Ha senso, su una via del tutto diversa,
Certamente, dalla speranza solo di ieri?
Io ascolto una parola, l’avvicino a un’altra,
Quel dormiente e quella dormiente si risvegliano
In un po’ di sole, le loro mani si toccano,
Non c’è lì che desiderio,
Lo stesso sogno che cambia volto?
Il lampo che squarcia invano il cielo di qui?

Ma veritiera è la pittura di paesaggio,
Veritiero il fiore
Della ginestra, nel deserto,
Veritiera la voce che l’ha nominato
Nelle nostre parole sterminatrici, su tristi chine.
E guarda, sul sentiero,
Quei due che s’allontanano.
D’un tratto si fermano,
Si voltano l’uno verso l’altra. S’affrontano,
S’insultano, si dilanieranno, per angoscia
D’essere l’illusione che sanno di essere?
Ma no, sembrano guardare il cielo della sera,
Dove un sole bambino appare, la sua testa immensa
Già alta sul vecchio orizzonte.

Ed è vero che gli alberi che ho visto
Farsi incandescenza continuano,
Poco lontani da loro, a essere questo raggio
Venuto chissà da dove, che si cancella
Solo se affina, col suo ultimo istante,
I chicchi di un oro che si direbbe senza materia.

Guardatemi,
Dice quel che sale in essi dal fondo del linguaggio,
Dimenticate chi siete perché io sia,
Fate di me quel che cerco d’essere,
Rinunciate al vostro sogno per il mio,
Amatemi, datemi forma, volto
Con le vostre mani d’ombra e luce. Il cielo della sera
È, forse, una rosa. Rosa che verrà
Con i vostri lavori d’orticoltori nelle nubi,
Rosa d’alberi, di fiumi, di sentieri,
Di letti disfatti, di mani semplici, che cercano
Altre mani, alla cieca. Rosa delle parole
Che uno dice a un’altra, soltanto per
Il fremito del palmo, delle dita.
Il cielo cambia. La rosa senza perché,
Siete voi, nei giardini del suo colore.
Guardate, ascoltate! La minima parola
Ha nella sua profondità una musica,
Il fonema è corolla, la voce è l’essere
Che può fiorire, anche in ciò che non è.

E tardi, avendo pietà
Delle immagini. Vedete che Danae
S’alza in piedi sul suo letto, pur sapendo
Che illusorio è il dio. E che Ofelia
Porta nei suoi occhi il cielo, la terra,
Come una certezza, benché anneghi
Il loro doppio fuoco nella sua totale notte.
Davanti a noi, amici miei, è sera
O una sorta d’alba, informe? Comunque
Un sole, nel profondo di questi rossi muchi.

Tu guardi il cielo
Dalla finestra aperta, figlio
Di questo secolo impoverito. Il mondo,
Questi tetti di lamiera grigia, questi fumi,
Questa pagina insozzata, strappata? No, le tue parole
Rifiutano di cancellarsi dall’universo,
Di questo nulla vogliono fare colline,
Valli, sentieri. Forse che sono solo pietra
E nevi queste montagne, no, in cima
A una, non troppo alta,
S’allarga un prato. E molto tranquillo
Ti sembra, scorto da qui,
Il passaggio dell’ombra sullo smeraldo
Della sua erba infinita. Più giù il fiume
Che raccoglie, che illumina. Saprai
Sperare che questa evidenza abbia un qualche senso,
Che essa si rinvigorisca nella tua parola,
Che sia il magnete che strappi
Lo spirito alla disperazione, penserai
Che non c’è essere che in immagine ma che qui sta
Misteriosa sufficienza, per quanto
Questo nulla acconsenta alla luce
Indifferente, increata, con gesti
Dei suoi bordi, dei movimenti, del riso
Nel profondo della sua voce tragica che s’avvicina
Ad altre di queste ombre? Forse no.
Il cielo d’un tratto annerisce, cala la folgore.

Ma tu ti volti
Verso la tua stanza affittata in questa periferia,
È piccola, ma i suoi muri sono quasi bianchi,
E tu vi hai posto, in questo primo giorno,
La Diana e le sue compagne, di Vermeer,
Una semplice fotografia ma d’uno scambio
Di così grande dolcezza, a mani così pure
Che queste poche figure si staccano
Dal grigio e dal nero del colore assente
Non come il sole ma meglio e di più.
Un sogno, è menzogna. Ma sognare, no.
Che i tuoi sogni divengano
Due combattenti, l’uno mascherato, ma talvolta
Ricco del suo volto scoperto.

Tu guardi vivere la sera. Il cielo, la terra
Nudi, distesi sul loro letto comune.
E lui, nient’altro che nubi,
Si china su di lei, prende tra le mani
La sua faccia rispettata.
Dio? No, meglio di questo. La voce
Che va, ansimante, incontro a un’altra
E ridente desidera il suo desiderio,
Ansiosa di dare più che di prendere.
Non penserai, stasera ancora,
Che possano diventare uno stesso respiro,
La materia, lo spirito? Che dal loro abbraccio
Placato, allentato,
Ricada del colore, dell’oro,
Qualche coccio di vetro, chiazzato di fango,
Ma che brilli, nell’erba?

E la morte, come al solito? E non esser stati
Che un’immagine ognuno per l’altra, attizzando
Un focolare, soltanto nelle nostre memorie, sì, lo accetto,
Ma ricordati
Dei prati dell’infanzia: dei tuoi passi
Per sdraiarti a fissare il cielo
Così greve, di tanti segni, ma che si faceva
Immensamente in te questa benevolenza,
I lampi del calore delle notti d’estate.
Ora presente, non rinunciare,
Riprendi i tuoi vocaboli dalle mani erranti della folgore,
Ascoltali fare del nulla parola,
Osa
Perfino nella fiducia che nulla prova,

Legaci di non morire disperati.

Yves Bonnefoy

(Traduzione di Fabio Scotto)

da “L’ora presente”, “Lo Specchio” Mondadori, 2015

∗∗∗

L’heure présente

I

Regarde!
Un éclair envahit le ciel, ce soir encore,
Il prend la terre dans ses mains, mais il hésite,
Presque il s’immobilise. S’est-il cru

Une phrase, une signature, non, il chancelle,
Nous le voyons qui tombe, illuminant,
Dans les bras l’un de l’autre,
Sommeil et mort.

L’éclair, une illusion,
Même l’éclair.

Une illusion, la forme
Qui se déploie, un rêve
Qui enlace la forme, et va tomber
Avec elle, brisée,
Dépossédée de soi, à ces confins,
Là-bas, de notre nuit d’ici,
L’heure présente.

Regarde, vois.

Regarde, théologien,
Ne crois-tu pas que Dieu
Se soit lassé d’être?

Tu imagines
Qu’il ne peut en finir, étant infini,
Avec soi
Mais tu sais qu’aucun sacrifice, à ses autels,
Ni même le sacrifice de son fils,
N’éveille plus son désir.

Se tourne-t-il
Vers celle qui dormait auprès de lui,
L’âme du monde,
Touchera-t-il son bras, sa hanche nue,
Il ne la réveillera pas.

Descendra-t-il
Dans ses jardins, de terrasse en terrasse,
S’arrêtant, quelquefois,
Comme ces bêtes
Qui s’immobilisent d’un coup
Pour un bruit, une ombre,

Il n’écoutera pas
Le bruissement du ciel. Ni davantage
Le cri du désespoir. Pas même
Le hurlement de la bête égorgée,
Pas même
Les notes hésitantes du pipeau
D’un berger attardé sous le dernier hêtre.

Se sont évaporés
Le bœuf et l’âne
Et cet agneau qui n’est qu’étonnement.
Les constellations, nous disait-on,
Auraient étincelé dans cette paille.

Et vois, là, c’est Vénus
Penchée sur Adonis mourant. Et cette autre image,
C’est Niobé, all tears. Je vois Judith
Se redresser, sanglante. Je vois, dans la pluie d’or,
Danaé, ses cheveux épars. Mon amie, est-ce voir
Quand le peintre n’a eu entre ses mains
Que des corps dont les yeux se ferment? Je vous touche,
Épaules nues, reflets dans la pénombre,
Fûtes-vous l’or que répandait un dieu?

Et te nommes-tu Ophélie,
Tu éclates de rire. Ta robe s’ouvre,
L’eau noire te pénètre, des courants
T’emportent. Tu te penches sur lui,
Le prince fou, écartant ses cheveux
Que colle la sueur de sa fièvre, tu touches
Ses tempes de tes lèvres. L’eau rapide
Couvre ses quelques mots, disperse les tiens,
Ô trahie,
Te nommes-tu Desdémone?
Willows, willows…

Et te nomme-t-il J. G. F.,
Es-tu «son Électre lointaine»,
Écoute bien:
La maladie et la mort font des cendres
De tout le feu qui pour nous flamboya.

Et te nommes-tu…? Pas de nom
Pour toi, de tous les temps
Et de tous les pays, qui tombes,
Mains liées dans le dos, nuque brisée,
Voix bafouée, la bouche
Déjà pleine de terre. Pas de nom,
Pas de résurrection pour toi non plus.
Et pas même de mots, pas même les nôtres,
Puisque les mots se cabrent
Devant ce que celui qui cherche à dire
Ne saurait éprouver, ne peut revivre.

Et qu’est-ce que cela, sur le chemin?
C’est tombé d’un des arbres, je ramasse,
La matière est luisante, j’ai mon couteau,
Je déchire la bogue,
Je tente d’entamer le bois du fruit
Mais la lame dérape. Ce qui est
À jamais se refuse. Dois-je jeter
L’amande impénétrée avec la bogue?

Lourde
Sous ses enluminures de ciel noir,
La page dans le livre. On veut en soulever
Ne serait-ce qu’un angle, voir au-delà
Dans l’espace des autres pages. Mais la liasse
De ces autres fait masse. Elle semble collée
Par une eau de la fin du monde. De la tourbe
Pour rien qu’un dernier feu? Devons-nous croire
Que le signe qui prit au flanc des choses
Comme un éclair, et y étincela,
N’aura été que mains jointes en vain,
Rêves, enfièvrement de rien que des rêves,
Momie parée pour rien, sous sa chape de pierre?

Il fait nuit. Dans les chambres
Les corps sont nus. Parfois un mouvement
Pour rien, inachevé,
Prend un dormeur que tourmente son rêve.
Vais-je toucher cette épaule, cette autre,
Solliciter que des yeux s’ouvrent, s’élargissent,
Que des corps ressuscitent, comme on a cru
Que ce fut, une fois? Crier,
Reviens, Claude, reviens, Enzo, d’entre les morts?
Je crie des noms, personne ne se réveille.

Et si mêlés nos mots
Les uns aux autres! Ils ne se séparent pas.
Dorment-ils
Dans les bras l’un de l’autre? Rien ne semble
Battre dans cette artère que je touche
Au creux de leur épaule. Je pense au jour
Où, dans l’étonnement
Du ciel et de la terre s’approchant
L’un de l’autre, se confondant,
Devenant l’horizon puis le chemin,
Bois contre bois frotté se fit la flamme.

Et parfois l’un de nous tressaille, se retourne
Sur sa couche, il reprend
Ses yeux à sa chimère. Mais le miroir
Qui dormait près de lui ne s’éveille pas.
Reflète-t-il le cyprès, les étoiles,
Le beau visage de la jeune femme endormie
Sur la chaleur de son bras replié,
Non, si je le détache de la cloison
Et l’approche des choses du jour qui point,
Ce que je tiens, c’est un morceau de houille,
Les reflets n’y remuent que de la nuit.

II

J’ai ramassé le fruit, j’ouvre l’amande.
Dans la parole
La dérive rapide de la nuée.

Illusion,
L’âtre qui brûlait clair le soir, te souviens-tu,
Dans la maison que nous avons aimée.
Ce petit bois,
Ces boules du papier froissé, ce pique-feu,
Cette flamme soudaine, presque un éclair,
Un rêve, comme nous?

Et souviens-toi
Du chien empoisonné! Il griffait de ses cris
Le ciel, la terre. Mon amie,
Hier encore
Nous allions jusqu’à ces barrières, là-bas,
Par ces creux où de l’eau brille dans l’herbe.

Hier, nous passions
Près de la grange vide. Une chevêche
S’envolait de dessous le toit. Je crie son nom,
Mais rien ne bouge sur ce mur que lune éclaire.
Pas d’yeux de bête effrayée.

Illusion l’amandier, toutes ses fleurs
Comme des feux parmi d’autres étoiles.
Rêve, fumée,
Ce ciel des nuits d’alors, de tant de grappes?
L’agneau? Rien qu’à jamais
Le couteau et le sang. Notre ravin,
Rien que le bruit d’une eau qui croît parfois
Puis presque cesse.

Personne
Dans le bruit du torrent. Personne
Dans la lumière. L’homme
Là-bas, à la cervelle d’or,
Qui titube sur le trottoir, ses doigts sanglants
Crispés sur des raclures de l’esprit,
Qu’offrait-il, quel bouquet? Je veux ces fleurs,
Les dégager du papier qui les couvre,
Cette page rougie, car j’aperçois,
Dans le don qu’il faisait, déjà mourant,
Les abîmes du ciel et de la terre,
Les images que forment les nuées
Et des corolles, l’homme, la femme,
Dont la couleur me semble restée vive,
Mais tout cela, c’est dans le caniveau,
Il a jeté l’offrande refusée,
Ne vais-je ramasser que du flétri,
De l’insensé, une odeur âcre, fade?
Roses, roses? N’existent
Que roses déchirées, pas de rose en soi,
Pas de corolle à soutenir un monde.

III

Et pourtant, je puis dire
Le mot chevêche ou le mot safre ou le mot ciel
Ou le mot espérance,
Et voici que, levant les yeux, je vois ces arbres
Qu’embrase sur la route un soleil du soir.
C’est un feu de grande douceur, ses braises claires
Ont transmuté le feuillage en lumière,
Et ici, c’est le pré, là-bas des cimes,
Et leurs mains se rejoignent, leurs corps se cherchent
Avec cette évidence, silencieuse,
Qu’il faut bien que l’on nomme de la beauté.
Je regarde ces arbres tout une heure,
Est-ce là du visible, à peine, puisque
La visibilité se fait or pur
Alors pourtant qu’alentour la nuit tombe.
J’écoute un mot, je cherche à voir ce qu’il désigne,
Et il me semble, irrépressiblement,
Que cette chose se recolore, que des yeux
Se rouvrent, étonnés,
Dans le rêve de pierre de l’esprit.
Les mots sont-ils porteurs de plus que nous,
En savent-ils plus que nous, cherchent-ils
Au bord d’une eau du fond de notre sommeil,
Noire autant que rapide, refusée,
Le gué d’une lumière? Et celle-ci
A-t-elle sens, sur une voie tout autre,
Certes, que l’espérance d’hier encore?
J’écoute un mot, le rapproche d’un autre,
Ce dormeur et cette dormeuse se réveillent
Dans un peu de soleil, leurs mains se touchent,
Est-ce que ce n’est là que du désir,
Le même rêve à changer de visage?
L’éclair qui troue en vain le ciel d’ici?

Mais véridique est la peinture de paysage,
Véridique la fleur
Du genêt, au désert,
Véridique la voix qui l’a nommée
Dans nos mots exterminateurs, sur des pentes tristes.
Et vois, sur le chemin,
Ces deux-là qui s’éloignent.
Ils s’arrêtent, soudain,
Se tournent l’un vers l’autre. S’affrontent-ils,
S’insultent-ils, vont-ils s’entre-déchirer, par angoisse
D’être l’illusion qu’ils se savent être?
Mais non, ils semblent regarder le ciel du soir,
Où un soleil enfant paraît, sa tête immense
Haute déjà sur le vieil horizon.

Et c’est vrai que les arbres que j’ai vu
Se faire incandescence continuent
Guère loin d’eux, à être ce rayon
D’on ne sait d’où venu, qui ne s’efface
Qu’en affinant, de son dernier instant,
Les grains d’un or qu’on dirait sans matière.

Regardez-moi,
Dit ce qui monte en eux du fond du langage,
Oubliez qui vous êtes pour que je sois,
Faites de moi ce que je cherche à être,
Renoncez votre rêve pour le mien,
Aimez-moi, donnez-moi forme, visage
De vos mains d’ombre et de lumière. Le ciel du soir
Est, peut-être, une rose. Rose à venir
Par vos travaux d’horticulteurs dans les nuées,
Rose d’arbres, de fleuves, de chemins,
De lits défaits, de mains simples, cherchant
D’autres mains, à l’aveugle. Rose des mots
Qu’une dit à une autre, par rien encore
Que le frémissement de la paume, des doigts.
Le ciel change. La rose sans pourquoi,
C’est vous, dans les jardins de sa couleur.
Regardez, écoutez! Le moindre mot
A dans sa profondeur une musique,
Le phonème est corolle, la voix, c’est l’être
Qui peut fleurir, dans même ce qui n’est pas.

Et tard, ayant pitié
Des images. Voyez que Danaé
Se dresse sur sa couche, même sachant
Qu’illusoire est le dieu. Et qu’Ophélie
Emporte dans ses yeux le ciel, la terre,
Comme une certitude, bien que se noie
Leur double feu dans sa totale nuit.
Devant nous, mes amis, est-ce le soir
Ou une sorte d’aube, informe? Du soleil
Tout de même, au profond de ces glaires rouges.

Tu regardes le ciel
Par la fenêtre ouverte, enfant
De ce siècle appauvri. Le monde,
Ces toits de tôle grise, ces fumées,
Cette page souillée, déchirée? Non, tes mots
Refusent de s’effacer de l’univers,
De ce néant ils veulent faire des collines,
Des vallées, des chemins. N’est-ce que pierre
Et neiges ces montagnes, non, au sommet
De l’une, pas trop haute,
S’évase une prairie. Et de grande paix
Te semble, vu d’ici,
Le passage de l’ombre sur l’émeraude
De son herbe sans fin. Plus bas le fleuve
Rassemblant, éclairant. Vas-tu savoir
Espérer que cette évidence a quelque sens,
Qu’elle s’affermira dans ta parole,
Qu’elle sera l’aimant qui reprendra
L’esprit au désespoir, vas-tu penser
Qu’il n’est de l’être qu’en image mais que c’est là
Suffisance mystérieuse, pour autant
Que ce néant consente à la lumière
Indifférente, incréée, par des gestes
De ses contours, des mouvements, du rire
Au profond de sa voix tragique se portant
Vers d’autres de ces ombres? Peut-être non.
Le ciel noircit d’un coup, la foudre tombe.

Mais tu te tournes
Vers ta chambre louée dans cette banlieue,
Elle est petite, mais ses murs sont presque blancs,
Et tu y as placé, en ce premier jour,
La Diane et ses compagnes, de Vermeer,
Une simple photographie mais d’un échange
De si grande douceur, à mains si pures
Que ces quelques figures se détachent
Du gris et noir de la couleur absente
Comme non le soleil mais mieux et plus.
Un rêve, c’est mensonge. Mais rêver, non.
Que se fassent tes rêves
Deux combattants, l’un masqué, mais parfois
Riche de son visage découvert.
Tu regardes vivre le soir. Le ciel, la terre
Nus, allongés sur leur couche commune.
Et lui, rien que nuées,
Il se penche sur elle, prend dans ses mains
Sa face respectée.
Dieu? Non, mieux que cela. La voix
Qui se porte, essoufflée, au-devant d’une autre
Et riante désire son désir,
Anxieuse de donner plus que de prendre.
Ne vas-tu pas penser, ce soir encore,
Que puissent devenir un même souffle,
La matière, l’esprit? Que de leur étreinte
Apaisée, desserrée,
De la couleur, de l’or retomberait,
Quelque débris de verre, taché de boue,
Mais à briller, dans l’herbe?

Et la mort, comme d’habitude? Et n’avoir été
Qu’une image chacun pour l’autre, tisonnant
Un âtre, dans rien que nos mémoires, oui, je veux bien,
Mais souviens-toi
Des prairies de l’enfance: de tes pas
Pour t’allonger à regarder le ciel
Si lourd, de tant de signes, mais se faisant
Immensément en toi cette bienveillance,
Les éclairs de chaleur des nuits d’été.
Heure présente, ne renonce pas,
Reprends tes mots des mains errantes de la foudre,
Écoute-les faire du rien parole,
Risque-toi
Dans même la confiance que rien ne prouve,

Lègue-nous de ne pas mourir désespérés.

Yves Bonnefoy

da “L’heure présente”, Mercure de France, 2011

As tears go by, Ofelia – Roberto Mussapi

Cristina Robles, Ophelia

                                                                       (A Marianne Faithfull)

Poi furono sillabe quelle che erano state parole
e versi che mi straziavano la gola,
pezzi, grumi di vocesangue
di ogni immagine che un tempo era stata,
ora persa nel fondo sotto sabbia vetrata.
E introvabile come chi è muto
di colpo e con la voce il suo sguardo è perduto
per un dolore che puoi solo intuire
in quella cornea all’improvviso vuota,
o come di colpo ai centosessanta in galleria
col piede in ipnosi sull’acceleratore
e io, io lingua franta, io affogata.

Ho recitato Ofelia, conosco la pazzia,
e so che ti colpisce per eccesso d’amore,
quando i tuoi occhi non reggono una sedia
se vedi nella sua paglia le trame d’oro,
e l’aura di quello scranno e la sua luce,
e i beati che si posarono in inconscia preghiera,
se tremi per una persona che si siede
e si avvicina al centro del fango e dei grandi fiumi,
e so che cosa significa eccesso d’amore,
quando colui che ami dilegua e tace,
o non riesce a risponderti, e tu muori,
per estinzione, disidratata in pietra.
Io sono affogata nello stagno e risalita
tra foglie cadute in morte e semprevive
dal fondo melmoso risalenti alla luce,
dal fondo ho ritrovato genesi e amore,
ora che torna mia, in me, la mia voce,
niente da chiedere, risalire adagio
come la linfa dal calamo al fiore
dopo che fu strozzata dall’inverno e dal gelo
tra foglie marcite, e il rito umorale
ascende ai campi e all’oro dei covoni
tra casa e casa, tra le luci e le strade.
Conosco la pazzia e sono affogata,
e adesso so che era soltanto amore.

Roberto Mussapi

da “La stoffa dell’ombra e delle cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 2007

La Straniera – Oscar Vladislas de Lubicz Milosz

Johan van der Keuken, Mirror, 1960

 

Non sai nulla del tuo passato. L’hai sognato
– Sì, certamente, l’hai sognato.
Vedo il tuo volto alla luce grigia della pioggia.
Novembre seppellisce il paesaggio e la mia vita.
Non so nulla, nulla voglio sapere del tuo passato.

I tuoi occhi mi parlano di brumose città lontane
Che mai vedrò
E mai dalla tua voce sentirò pronunciarne il nome.
Novembre è su tutta la mia anima, novembre è su tutta la pianura.
Ti vedo come una sconosciuta attraverso il Tempo che fu.

Sono cose morte ormai da anni,
– Irrimediabilmente morte –
Musiche soffocate, vizze lussurie.
Novembre, ne sono certo, è dietro la porta.
Nel tuo cuore vedo vivere quel che il tuo cuore dimentica.

La tua anima è lontana, lontanissima da qui. La tua anima straniera
È una notte di bruma,
Di bruma e pioggia sporca sui faubourg
Dove la vita ha il colore freddo della terra,
Dove uomini moriranno senza aver conosciuto l’amore.

Un tempo mi hai già incontrato, lo ricordi?
Sì, un tempo tristemente lontano,
Nel paese dei libri antichi e delle antiche musiche,
Nell’azzurro crepuscolo di una casa tranquilla
Dalle finestre letargiche.

Il fantasma delle parole che non ricordi
O che non hai pronunciato,
Dona uno strano senso alla tua presenza lontana.
Decifro nel libro del tuo silenzio
La tua storia morta per sempre, perfino per te.

La mia pallida ragione è un’illusione di chiarezza,
Un giorno di sole antico
Sulla strada dove la tua gioia incontrò il tuo dolore.
Tutto ciò forse non è mai stato
Ma se te lo rivelassi, moriresti di paura.

È triste come un giorno d’inverno in periferia
Dove incede la morte cittadina,
Come la malattia e il lutto in un lungo equivoco,
Come un rumore di passi in una casa sconosciuta
Come le parole «il tempo che fu» quando l’ombra è sul mare.

Non voglio saper nulla del tuo passato. Vedo
Spegnersi il giorno,
L’ultimo giorno sul tuo volto e sulle tue mani.
Lasciami il piacere d’ignorare le strade
Per le quali il caso ha saputo guidarti fino a me.

Ritrovo nei tuoi occhi la realtà dei sogni,
Sogni sognati ai vecchi tempi
E visioni sbocciate al sole della vita.
Nella penombra avvelenata dalla pioggia
Tutta un’eternità volge al termine.

Riconosco in te esseri misteriosi,
Viaggiatori dalle mete segrete
Incontrati un tempo nella bruma delle stazioni
Dove tutti i rumori hanno la cadenza degli addii.
A volte hai persino l’aria di una fiera

Con le sue luci in lacrime e i suoi fetori
Di muffa e vizio,
Con la sua miseria e la gioia malata delle sue musiche.
Ricordi di nostalgiche case da gioco
Si mescolano al caos del mio nervosismo.

Se me ne andassi, se chiudessi la porta, che faresti?
Sarebbe forse
Come se i tuoi occhi non m’avessero mai visto.
Il rumore dei miei passi morrebbe senza eco sulla strada
E solo notte io vedrei alle tue finestre.

È come se tu dovessi lasciarmi oggi
Subito e per sempre
Senza farmi sapere da dove vieni, dove vai.
Piove sui grandi giardini spogli, la tua anima ha freddo,
Novembre seppellisce il paesaggio e la mia vita.

Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz

(Traduzione di Massimo Rizzante)

da “O.V. de L. Milosz, Sinfonia di Novembre e altre poesie”, Adelphi, Milano, 2008

∗∗∗

L’Étrangère

Tu ne sais rien de ton passé. Tu l’as rêvé,
– Oui, sûrement tu l’as rêvé.
Je vois ton visage dans la lumière grise de la pluie.
Novembre ensevelit le paysage et ma vie.
Je ne sais rien, je ne veux rien savoir de ton passé.

Tes yeux me parlent de brumeuses villes lointaines
Que ye ne verrai jamais
Et dont jamais je n’entendrai le nom dans ta voix.
Novembre est sur toute mon âme, novembre est sur toute la plaine.
Je te vois inconnue à travers Autrefois.

Ce sont des choses depuis longtemps mortes,
– Mortes irrémédiablement –
Des musiques étouffées, des luxures flétries.
Je suis sûr que novembre est derrière la porte.
Je vois vire en ton cœur ce que ton cœur oublie.

Ton âme est loin, bien loin d’ici. Ton âme étrangère
Est une nuit de brume,
De brume et de bruine sale sur des faubourgs
Où la vie a la couleur froide de la terre,
Où des hommes mourront, sans avoir connu l’amour.

Tu m’as déjà rencontré jadis, t’en souvient-il,
Oui, jadis, tristement jadis,
Au pays des vieux livres et des vieilles musiques,
Dans íe crépuscule bleu d’une maison tranquille
Aux fenêtres léthargiques.

Le fantôme des paroles dont tu ne te souviens pas
Ou que tu ne prononças pas,
Donne un seni si bizarre à ta lointaine présence.
Je déchiffre dans le livre de ton silence
Ton histoire morte à jamais, même pour toi.

Ma raison plâe est une illusion de clarté,
Un jour de soleil ancien
Sur la route où ta joie rencontra ta douleur.
Tout cela n’a peut-être jamais été
Mais si je te le disais, tu mourrais de peur.

C’est triste comme un jour d’hiver sur les banlieues
Où chemine la mort de la ville.
Comme la maladie et le deuil dans un mauvais lieu,
Comme un bruit de pas dans une maison étrangère
Comme le mot jadis quand l’ombre est sur la mer.

Je ne veux rien savoir de ton passé. Je vois
S’éteindre le jour,
Le dernier jour sur ton visage et sur tes mains.
Laisse-moi la douceur d’ignorer les chemins
Où le hasard a su te guider jusqu’à moi.

Je retrouve en tes yeux des réalités de rêves,
De rêves rêvés dans le vieux temps
Et des visions écloses au soleil de la vie.
Dans le demi-jour empoisonné de la pluie
On dirait que toute une éternité s’achève.

Je reconnais en toi des êtres mystérieux,
Des voyageurs au but secret
Rencontrés autrefois dans la brume des gares
Où tous les bruits ont des inflexions d’adieux.
Parfois aussi tu m’es une atmosphère de foire

Avec ses lumières en pleurs et ses relents
De moisissure et de vice,
Avec sa misère et lajoie malade de ses musiques.
Des souvenirs de maisons de jeu nostalgiques
Se mêlent au chaos de mon énervement.

Si je sortais, si je fermais la porte, que ferais-tu?
Ce serait peut-être
Comme si tes yeux ne m’avaient jamais connu.
Le bruit de mes pas mourrait sans écho dans la rue
Et je ne verrais que la nuit à tes fenêtres.

C’est comme si tu devais me quitter aujourd’hui
Tout de suite et pour toujours
Sans songer à me dire d’où tu viens, où tu vas.
Il pleut sur les grands jardins nus, tonâme a froid,
Novembre ensevelit le paysage et ma vie.

Oscar Vadislas de Lubicz Milosz

da “O.V. de L. Milosz, Œuvres complètes”, Vol. I, II, XII, Paris, Éditions André Silvaire, 1958

Sopra un verso straniero – Giorgos Seferis

Dipinto di Andrew Wyeth

A Elli, Natale 1931

Fortunato chi fece il viaggio d’Odisseo ¹.
Fortunato se salda, alla partenza, sentiva la corazza d’un amore distesa nel suo corpo, come le vene dove mugghia il sangue.

D’un amore di ritmo indissolubile, invitto come la musica, perenne perché quando nascemmo nacque e quando moriamo, se muore, non lo sappiamo né altri lo sa.

Prego Dio che m’aiuti a dire, in un momento di gran felicità, quale sia quest’amore:
siedo talora avvolto dall’esilio, e sento il suo remoto muggito come il suono del mare mescolato al fortunale strano.

E si presenta ancora innanzi a me il fantasma d’Odisseo, gli occhi rossi dal salmastro e da una brama
matura: rivedere ancora il fumo che affiora dal calore della casa e il suo cane invecchiato che aspetta sulla porta.

Sta, gigantesco, e mormora di tra la barba imbianchita parole della nostra lingua, quale già la parlavano tremila anni fa.
Stende una mano incallita dalle gomene e dalla barra, con la pelle segnata dal tramontano dall’afa e dalle nevi.

Sembra che voglia scacciare di mezzo a noi il Ciclope titanico, monocolo, le Sirene che dànno, se le ascolti, l’oblio, Scilla e Cariddi:
tanti intricati mostri, che ci tolgono l’agio di pensare ch’era un uomo anche lui che lottò dentro il mondo, con l’anima e col corpo.

È il grande Odisseo: colui che disse di fare il cavallo di legno – e gli Achei presero Troia.
M’immagino che venga a insegnarmi come fare un cavallo di legno anch’io, per conquistare la mia Troia.

Parlo basso e tranquillo, senza sforzo: sembra che mi conosca come un padre,
o come uno di quei vecchi marinai che appoggiati alle reti (era burrasca e incolleriva il vento)
mi dicevano, al tempo dell’infanzia, il canto d’Erotòcrito con le lacrime agli occhi
– io tremavo nel sonno udendo il fato avverso d’Aretí discendere i gradini di marmo ².

Mi dice l’ardua angoscia di sentire le vele della nave gonfie dalla memoria e l’anima farsi timone. 
Ed essere solo, occulto nel buio della notte, a deriva, come festuca all’aia.

L’amaro di vedere naufragati fra gli elementi i cari, dispersi: ad uno ad uno.
E come stranamente ti fai forte a parlare coi morti, quando i vivi superstiti non bastano.

Parla… rivedo ancora le sue mani che sapevano, a prova, se la gòrgone di prora era ben fatta
donarmi il mare senza flutti azzurro nel cuore dell’inverno.

Giorgos Seferis

(Traduzione di Filippo Maria Pontani)

da Quaderno d’esercizi, 1928-1937 

da “Giorgos Seferis, Poesie”, “Lo Specchio” Mondadori, 1963

¹ Heureux qui comme Ulysse a fait un beau voyage è l’inizio di un sonetto compreso in Les regrets di J. Du Bellay (1525 c. – 1560).
² Erotòcrito e Aretí sono i protagonisti del poema cretese Erotòkritos di Vincenzo Kornaros (prima metà del sec. XVII).

Conosco appena le mani – Vittorio Bodini

Herbert List, Liguria, 1936

 

Conosco appena le mani,
le scarpe che metto ai piedi.
Conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
I volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
Tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore
nelle botole dei morti.
Ah, dove sono le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso
delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli dell’avventura?

Vittorio Bodini

da “Metamor”, Scheiwiller, 1967