«Talpa antica porta peste» – Attila József

Talpa antica porta peste
il pensiero non pensato,
ficca il muso nel mangiare
e da un uomo a un altro corre.
Per sua colpa non sa l’ubriaco,
mentre in vino strozza il tedio,
di sorbire la minestra
vuota, ai poveri atterriti.

E perché dalle nazioni
giusta linfa non spreme lo spirito,
una nuova infamia accampa
gli uni contro gli altri i popoli.
Gracchia a stormi l’oppressione, cala
come su carogne, ai cuori;
e sul globo la miseria
cola come a ebete bava.

Fitte all’ago del bisogno
le ali delle estati pendono.
Come insetti su chi dorme,
sulle anime le macchine
brulicano. In profondo,
gratitudine, fiducia
si nascondono, le lacrime
bruciano, lottano voglia
di vendetta e coscienza.

Come lo sciacallo vomita
alle stelle le sue urla,
al nostro cielo, dove gli strazi ardono,
guaísce inutile il poeta…
Oh voi, stelle! Rugginose, rozze
lame, quante volte
siete scese dentro l’anima!
(Si sa, qui, solo morire).

Eppure ho fede. Piangendo ti prego,
bel futuro, non esser cosí arido!
Ho fede, non ci impalano piú, oggi,
come i nostri avi, una volta.
Verrà la calma della libertà,
la sofferenza si affína…
E finalmente saremo dimenticati anche noi
nell’ombra quieta delle pergole.

Attila József

1957

(Traduzione di Franco Fortini)

da “Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia”, “I Supercoralli” Einaudi, 1982 

Pomeriggio d’ottobre – Miklós Radnóti

Fanni Gyarmati e Miklós Radnóti

 

Fanni dorme accanto a me sotto la quercia,
da quando dorme tante ghiande sono cadute,
mi metto a litigare con ogni fronda innocua –
perché con un abbraccio ha chiesto di vegliarne il riposo.

Ma il sole mi strizza l’occhio attraverso il cespo della fronda,
e mi assediano i ronzii delle vespe arrabbiate.
La fronda risponde ghianda su ghianda,
ne cade una, poi subito un’altra, non riesce a stare sull’albero.

Fanni si desta, gli occhi azzurri insonnoliti,
le mani così belle, mani di immagini sacre, preoccupata
cerca di riconciliarmi con la fronda, mi accarezza la bocca
e tiene il dito ancora sui miei denti che mordono

per non farmi parlare. È così che si prepara il nuovo silenzio
e dal silenzio lassù sono sei giorni
che la pioggia sibila pioggia, lavando via le ghiande,
legandoci come un nastro nero al novembre.

Miklós Radnóti

(1934)

(Traduzione di Edith Bruck)

da “Mi capirebbero le scimmie”, Donzelli Poesia, 2009

∗∗∗

Október, délután 

Mellettem alszik a tölgy alatt Fanni,
s mióta alszik, annyi makk hullt a fáról,
hogy minden jámbor lombbal veszekszem érte, –
mikor átkarolt, kérte, őrizzem pihenését.

De nap kacsingat át fodrán a lombnak,
vad darazsak dudolnak körül haraggal.
És a lomb makkal felel és feleselget,
hulló makk makkot kerget, nem tud a fán maradni.

Fanni fölébred és álmos szeme kék,
keze oly szép, mint szentkép keze és gonddal
békít a lombbal, végigsímit a számon
s ujját ott tartja három harapós fogamon még,

hogy ne beszéljek. Így készül az új csend
és a csendből odafent sziszegve eső
hatnapos esső, mely elmossa a makkot
s mint fekete szallagot, úgy köti ránk a novembert.

Miklós Radnóti

1934. október 3.

da “Újhold: versek”, Budai György fametszeteivel. Szeged: Szegedi Fiatalok Művészeti Kollégiuma, 1935

Settima egloga – Miklós Radnóti

Miklós Radnóti e Fanni Gyarmati

 

Vedi, imbrunisce, e l’atroce barriera di quercia
col fregio di filo spinato sta così sospesa che nel buio si dilegua.
Lo sguardo va lento oltre la cornice del campo,
la mente, la mente soltanto, conosce la tensione del filo.
Vedi, cara, qui è così che si libera l’immaginazione, il sogno,
il bel liberatore, scioglie i nostri corpi sfatti,
e allora il campo si avvia alla volta di casa.
A brandelli e calvi, russando, volano i prigionieri
dall’alto della cieca Serbia verso il paesaggio di casa che si cela.
Paesaggio di casa che si cela! Ma c’è ancora una casa? Una bomba
non l’avrà colpita? È come quando ci arruolammo? Lo stremato
compagno di destra, quello a sinistra vedranno mai una casa?
Dimmi, laggiù c’è una casa dove ancora qualcuno intende l’esametro?

Senza strumenti, riga dopo riga, tastando,
scrivo i miei versi nella penombra così come vivo, cieco
come un bruco che striscia le sue dieci dita sulla carta,
il quaderno, la torcia, tutto mi fu tolto dagli scherani del campo,
non arriva più neanche la posta, solo la nebbia scende sulle nostre baracche.

Tra notizie allarmanti e cimici, qui nelle montagne convivono
il francese e il polacco, l’italiano chiassoso, l’ebreo assorto,
il serbo scismatico, febbricitanti e con i corpi piagati –,
nonostante tutto, vivono la stessa vita in attesa di una buona nuova,
una bella parola di donna, un destino libero e umano, una fine
irraggiungibile, aspettando il miracolo.

Sono disteso sul legno, un animale prigioniero, tra i parassiti,
tra un’onda e l’altra di pulci quando l’orda delle mosche s’è placata.
Vedi, è sera, un giorno di prigionia
e un giorno di vita in meno. Il campo dorme.
Sul paesaggio splende la luna e a quella sua luce il filo
spinato è nuovamente teso, dalla finestra seguo sul muro
le ombre delle guardie armate tra le voci della notte.

Vedi, cara, il campo dorme, i sogni frusciano,
chi si sveglia di soprassalto si rigira nel suo stretto lembo,
e di nuovo sprofonda nel sonno con il volto che s’illumina. Io solo
sono sveglio, seduto assaporo la cicca in bocca invece di un tuo bacio
e il sonno tarda a portarmi conforto, perché
ormai non posso più morire né vivere senza di te.

Miklós Radnóti

(Lager Heidemann sulle montagne Žagubica,  luglio 1944)

(Traduzione di Edith Bruck)

da “Mi capirebbero le scimmie”, Donzelli Poesia, 2009

∗∗∗

Hetedik ecloga

Látod-e, esteledik s a szögesdróttal beszegett, vad
tölgykerités, barak oly lebegő, felszívja az este.
Rabságunk keretét elereszti a lassu tekintet
és csak az ész, csak az ész, az tudja, a drót feszülését.
Látod-e drága, a képzelet itt, az is így szabadul csak,
megtöretett testünket az álom, a szép szabadító
oldja fel és a fogolytábor hazaindul ilyenkor.
Rongyosan és kopaszon, horkolva repülnek a foglyok,
Szerbia vak tetejéről búvó otthoni tájra.
Búvó otthoni táj! Ó, megvan-e még az az otthon?
Bomba sem érte talán? s van, mint amikor bevonultunk?
És aki jobbra nyöszörg, aki balra hever, hazatér-e?
Mondd, van-e ott haza még, ahol értik e hexametert is?

Ékezetek nélkül, csak sort sor alá tapogatva,
úgy irom itt a homályban a verset, mint ahogy élek,
vaksin, hernyóként araszolgatván a papíron;
zseblámpát, könyvet, mindent elvettek a Lager
őrei s posta se jön, köd száll le csupán barakunkra.

Rémhirek és férgek közt él itt francia, lengyel,
hangos olasz, szakadár szerb, méla zsidó a hegyekben,
szétdarabolt, lázas test s mégis egy életet él itt, –
jóhírt vár, szép asszonyi szót, szabad emberi sorsot,
s várja a véget, a sűrü homályba bukót, a csodákat.

Fekszem a deszkán, férgek közt fogoly állat, a bolhák
ostroma meg-megujúl, de a légysereg elnyugodott már.
Este van, egy nappal rövidebb, lásd, ujra a fogság
és egy nappal az élet is. Alszik a tábor. A tájra
rásüt a hold s fényében a drótok ujra feszülnek,
s látni az ablakon át, hogy a fegyveres őrszemek árnya
lépdel a falra vetődve az éjszaka hangjai közben.

Alszik a tábor, látod-e drága, suhognak az álmok,
horkan a felriadó, megfordul a szűk helyen és már
ujra elalszik s fénylik az arca. Csak én ülök ébren,
féligszítt cigarettát érzek a számban a csókod
íze helyett és nem jön az álom, az enyhetadó, mert
nem tudok én meghalni se, élni se nélküled immár.

Miklós Radnóti

(Lager Heidenau, Žagubica fölött a hegyekben. 1944  július)

da “Tajtékos ég: versek”, Révai, 1946

Lettera alla sposa – Miklós Radnóti

Miklós Radnóti e Fanni Gyarmati a Svábhegyen, c. 1930

 

Nei mondi taciturni della profondità muta
il silenzio urla nel mio orecchio, lancio un grido,
ma non può rispondermi nessuno dalla distante
Serbia svenuta in guerra
e tu sei lontana. La tua voce intreccia il mio sogno –
e di giorno la ritrovo di nuovo nel mio cuore –
dunque taccio, mentre mi ronzano attorno ritte
tante felci orgogliose dal tocco fresco.

Non so più quando potrò vederti di nuovo,
tu che eri certa e pesante come il salmo,
e bella come la luce, bella come l’ombra,
colei che ritroverei anche da cieco e muto,
ora ti nascondi nel paesaggio e affiori dall’interno
nei miei occhi, è così che ti proietta la mente;
eri realtà, e sei diventata di nuovo sogno,
ricadendo nel pozzo dell’adolescenza

ti interrogo geloso, mi ami?
un giorno alla fine della mia giovinezza
sarai la mia sposa, spero di nuovo –
torno in me,
so che lo sei. Sposa e amica –
solo sei lontana. Oltre tre confini selvaggi.
E sta già arrivando l’autunno. Anche l’autunno mi dimentica qui?
Dei nostri baci il ricordo è più acuto;

avevo creduto nei miracoli e ho dimenticato i loro giorni,
squadre di bombardieri sfilano sopra di me;
stavo ammirando nel cielo l’azzurro dei tuoi occhi,
ma s’è annuvolato, e le bombe in alto dagli aerei
avevano voglia di precipitare. Vivo contro di loro –
e sono prigioniero. Ho ponderato tutto quello in cui spero,
ciò nonostante so che ti ritroverò,
ho percorso per te la lunghezza interminabile dell’anima –,

e strade di paesi; se serve con una magia attraverserò
braci di porpora, fiamme che precipitano, ma tornerò;
se serve sarò coriaceo, come il callo sull’albero,
mi tranquillizza la calma degli uomini selvaggi
che vivono nei guai e in pericolo costante,
aspirando alle armi e al potere,
e come un’onda fredda
mi cade addosso il buon senso del 2 x 2.

Miklós Radnóti

(Lager Heideman sulle montagne di Žagubica, 1944)

(Traduzione di Edith Bruck)

da “Mi capirebbero le scimmie”, Donzelli Poesia, 2009

∗∗∗

Levél a hitvehez

A mélyben néma, hallgató világok,
üvölt a csönd fülemben s felkiáltok,
de nem felelhet senki rá a távol,
a háborúba ájult Szerbiából
s te messze vagy. Hangod befonja álmom,
s szivemben nappal ujra megtalálom,—
hát hallgatok, míg zsong körém felállván
sok hűvös érintésü büszke páfrány.

Mikor láthatlak ujra, nem tudom már,
ki biztos voltál, súlyos, mint a zsoltár,
s szép mint a fény és oly szép mint az árnyék,
s kihez vakon, némán is eltalálnék,
most bujdokolsz a tájban és szememre
belülről lebbensz, így vetít az elme;
valóság voltál, álom lettél ujra,
kamaszkorom kútjába visszahullva

féltékenyen vallatlak, hogy szeretsz-e?
s hogy ifjuságom csúcsán, majdan, egyszer,
a hitvesem leszel,—remélem ujra
s az éber lét útjára visszahullva
tudom, hogy az vagy. Hitvesem s barátom,—
csak messze vagy. Túl három vad határon.
S már őszül is. Az ősz is ittfelejt még?
A csókjainkról élesebb az emlék;

sodákban hittem s napjuk elfeledtem,
bombázórajok húznak el felettem;
szemed kékjét csodáltam épp az égen,
de elborult s a bombák fönt a gépben
zuhanni vágytak. Ellenükre élek,—
s fogoly vagyok. Mindent, amit remélek
fölmértem s mégis eltalálok hozzád;
megjártam érted én a lélek hosszát,—

s országok útjait; bíbor parázson,
ha kell, zuhanó lángok közt varázslom
majd át magam, de mégis visszatérek;
ha kell, szívós leszek, mint fán a kéreg,
s a folytonos veszélyben, bajban élő
vad férfiak fegyvert s hatalmat érő
nyugalma nyugtat s mint egy hűvös hullám:
a 2×2 józansága hull rám.

Miklós Radnóti

(Lager Heidenau, Zagubica fölött a hegyekben, 1944)

da “Tajtékos ég: versek”, Révai, 1946

Coscienza – Attila József

Sergio Larrain, Railway station, 1963

1.

Dalla terra il cielo scioglie l’alba
e alla sua mite parola pura
gli insetti ed i bambini
alla luce del sole si levano.
L’aria è senza vapori.
Vibrano lucide minuzie.
Sono volate stanotte sugli alberi
come minime farfalle le foglie.

2.

Ho visto in sogno figure screziate
di blú, di rosso, di giallo.
Quello era – sentivo in me – l’ordine:
non un grano di pulviscolo mancava.
Ora qui vola dentro le mie membra
il sogno. Ordine è il mondo di ferro.
Di giorno sorge in me la luna; e se fuori
è notte, qui risplende dentro un sole.

3.

Sono magro, solo pane
mangio qualche volta. Fra queste anime
vane, ciarliere, cerco inutilmente
qualcosa piú certo del dado da giuoco.
Mai che un pezzo d’arrosto mi si strusci
alla bocca ed un bambino al cuore.
Oh, si ingegna! Ma il gatto non sa
prendere il topo, insieme, dentro e fuori.

4.

Come catasta di legna
sta in un cumulo il mondo.
Stringe, spinge, rinserra
una cosa l’altra cosa
e ciascuno cosí è determinato.
Solo quel che non è, mette rami.
Solo quel che sarà, è il fiore.
Quello che è, si disfa.

5.

Lungo lo scalo merci
mi ero annidato ai piedi dell’albero
come un pezzo di silenzio. Una gramigna
mi sfiorava le labbra, aspra, stranamente dolce.
Morto, spiavo il guardiano
e tra i vagoni muti ostinato
i balzi della sua ombra sui lampi
del carbone bagnato di rugiada.

6.

Ecco, la pena è qui dentro.
Ma è fuori, lí, quel che la spiega.
Il mondo è la tua piaga. Brucia, arde;
e tu la tua anima senti, la febbre.
Schiavo se il cuore soltanto è in rivolta
non sarai libero finché per te
non avrai costruito una casa
e non per un padrone.

7.

Ho guardato dalla sera in alto
verso la ruota dei cieli:
con i lucidi fili del caso
si tesseva al telaio del passato la legge.
E ancora ho guardato verso il cielo
su dai sogni delle mie nebbie
e ho veduto: ora qui, ora là si sdruciva
la trama della legge sempre.

8.

Il silenzio ascoltava. Un colpo suonò.
Puoi la tua gioventú rivedere
tra cemento di umide mura
e immaginare qualche libertà,
pensavo. Ma, levandomi, su in alto
stelle e carri dell’Orse
brillavano come le sbarre
sopra la cella muta.

9.

Ho sentito gemere il ferro.
Ho sentito ridere la pioggia.
Vedevo, era rotto il passato,
solo quel che si immagina si perde
e io non so altro che amare,
curvo sotto i miei pesi…
Perché si deve fare di te
un’arma, coscienza d’oro!

10.

Adulto è chi non ha
né padre né madre nel cuore,
che sa di ricevere come
in aggiunta alla morte la vita;
come oggetto trovato sa renderla
in qualunque momento e per questo la serba;
chi non è prete o dio
né per se stesso né per nessuno.

11.

Io l’ho vista, la felicità:
morbida, bionda, piú d’un quintale.
Sull’erba austera del cortile
il suo sorriso ricciuto barcollava.
Sdraiata nel tepore della melma
grugní ammiccando verso di me.
Vedo ancora come indecisa
fra i crini la luce esitava.

12.

Abito lungo la ferrovia. Qui molti
treni vengono e vanno e mi piace
guardare le luci che volano
sul fondo sventolío del buio.
Cosí filano nella notte eterna
i giorni illuminati
e io sono nella luce di ogni scompartimento
mi appoggio sul gomito e non parlo.

Attila József

1957

(Traduzione di Franco Fortini)

da “Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia”, “I Supercoralli” Einaudi, 1982