Il primo Inno alla notte – Novalis

Caspar David Friedrich, Zwei Männer am Meer, Gemälde von 1817

 

Qual mai vivente dotato di sensi
non ama,
sovra tutte le splendide apparenze
dello spazio che intorno gli dilaga,
la Luce giocondissima
con le sue tinte, i raggi, i flutti;
e con la dolce onnipresenza sua,
squillante giorno?

Come la piú riposta
anima della Vita,
la respira il cosmo immane
delle insonni costellazioni
che nuotano danzando
in quell’azzurro oceano.
La respira la pietra, che brilla
in sua quiete eterna;
la pianta sensitiva, che risucchia;
il selvaggio focoso animale
d’innumerevoli forme.
Ma, sovra tutti,
il Viandante superbo:
gli occhi ricolmi di sensi profondi;
librati i passi leggieri;
dolcemente socchiuse le labbra
ricche di suoni.

Della Natura fulgida sovrana,
tutte costringe le forze terrestri
a trasmutarsi interminabilmente;
annoda e scioglie vincoli infiniti;
ogni creatura avvolge
nel suo divino ammanto.
La sua presenza sola,
svela (stupefacente meraviglia)
i reami del mondo.

Pure, io mi volgo altrove:
verso la santa inesprimibile
misteriosa Notte.

Giace lontano il mondo,
come sepolto in un profondo avello.

Squallida solitudine
vaneggia là dove prima splendeva.
Malinconia profonda
per le corde dell’anima mi vibra.
In gocce di rugiada
io voglio giú disciogliermi,
mescermi con la cenere!
Lontananze della memoria,
fervide brame della giovinezza,
sogni beati della dolce infanzia,
gioie fugaci e inutili speranze
della trascorsa vita,
vengono in veste grigia,
come labili nebbie vespertine
quando caduto è il sole.
In altri spazii, trapiantò la Luce
le sue tende gioiose.
E non ritornerà, dunque, piú mai
ai figli che l’aspettano
con innocente fede?

Ma che cosa zampilla, ora, repente
di sotto al cuore, in émpito presago,
ad inghiottir le brezze
della malinconia?
Prendi, a tua volta, gioia
dagli esseri terreni,
o tenebrosa Notte?
Che cosa celi mai sotto il tuo manto,
che sí mi giunge all’anima
con impeto invisibile?

Prezioso balsamo
un fascio di papaveri
dalle tua mani stilla.
Le gravi ali del cuore, in alto trai.
Una passione oscura, inesprimibile,
lo invade in ogni fibra.
Raggiante e spaurito,
un vólto grave io scorgo
che dolcemente pio su me si china,
per mostrarmi, fra riccioli conserti
in vaghi avvolgimenti multiformi,
la giovinezza della Madre vera.

Come infantile e grama,
ora, mi appar la Luce!
Come consolatore e benedetto,
l’addio del Giorno!
Solo perché la Notte ti sottrae
i fedeli adoranti,
tu seminasti per gli spazii immensi
le rifulgenti sfere,
ad annunciar l’onnipotenza tua,
(il tuo ritorno, o Luce!)
nell’ore in cui ti assenti.

Piú divini degli astri che lampeggiano
lassú nel cielo,
ne appaion gl’infiniti occhi interiori
che in noi la Notte ha schiusi.
Scrutano in piú remote lontananze
che non i piú pallenti astri remoti
di quelle schiere innumeri.
Senza l’ausilio di veruna luce,
esploran quelli
nel piú profondo un’anima che ama;
e d’ebbrezza indicibile riempiono
un piú sublime spazio.

Divino premio,
la Regina dei mondi,
l’Annunziatrice delle sfere etèree,
custode eccelsa del divino Amore,
mi manda te, soave Amante,
o vago sole
della notturna tenebra.
Ed ora, io veglio:
ché tuo mi sento come sono mio.
Ecco: ritorni, Amata!
È sorto il regno della Notte; e l’anima
mi ritrabocca d’infinita ebbrezza.
Sparve per sempre dalla terra il giorno,
e  mia novellamente, ora, tu sei!
E se lo sguardo affondo
entro gli abissi del tuo sguardo buio,
altro non scorgo che beato Amore!
Sovra l’altare della Notte immensa,
cadiamo avvinti come in molle talamo.
Cade da noi l’involucro terreno:
e, fatta ardente dall’ardente amplesso,
brucia la pura vampa
dell’olocausto dolce.
Consuma nell’ardore dello Spirito
questo mio corpo, Amata,
a che, vanendo, in piú intimo amplesso
con Te mi mesca; e duri eternamente
la notte nuziale.

Novalis

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Inni alla notte”, riduzione in versi italiani e introduzione di Vincenzo Errante, Gruppo Editoriale Domus, Milano, 1942

Esemplare N.759

***

Die erste Hymne an die Nacht

Welcher Lebendige,
Sinnbegabte,
liebt nicht vor allen
Wundererscheinungen
des verbreiteten Raums um ihn
das allerfreuliche Licht,
mit seinen Farben,
seinen Strahlen und Wogen;
seiner milden Allgegenwart
als weckender Tag.
Wie des Lebens
innerste Seele
atmet es der rastlosen Gestirne
Riesenwelt,
und schwimmt tanzend
in seiner blauen Flut,
atmet es
der funkelnde, ewigruhende Stein,
die sinnige, saugende Pflanze,
und das wilde, brennende,
vielgestaltete Tier.
Vor allen aber
der herrliche Fremdling
mit den sinnvollen Augen,
dem schwebenden Gange
und den zartgeschlossenen,
tonreichen Lippen.
Wie ein König
der irdischen Natur
ruft es jede Kraft
zu zahllosen Verwandlungen,
knüpft und löst
unendliche Bündnisse,
hängt sein himmlisches Bild
jedem irdischen Wesen um.
Seine Gegenwart allein
offenbart die Wunderherrlichkeit
der Reiche der Welt.

Abwärts wend ich mich
zu der heiligen, unaussprechlichen,
geheimnisvollen Nacht.
Fernab liegt die Welt,
in eine tiefe Gruft versenkt:
wüst und einsam ist die Stelle.
In den Saiten der Brust,
weht tiefe Wehmut.
Fernen der Erinnerung,
Wünsche der Jugend,
der Kindheit Träume,
des ganzen langen Lebens
kurze Freuden
und vergebliche Hoffnungen
kommen in grauen Kleidern,
wie Abendnebel
nach der Sonne
Untergang.
In andern Räumen
schlug die lustigen Gezelte
das Licht auf.
Sollte es nie zu seinen Kindern
wiederkommen,
die mit der Unschuld Glauben
seiner harren?

Was quillt auf einmal
so ahndungsvoll
unterm Herzen,
und verschluckt
der Wehmut weiche Luft?
Hast auch du
ein Gefallen an uns,
dunkle Nacht?
Was hältst du
unter deinem Mantel,
das mir unsichtbar kräftig
an die Seele geht?
Köstlicher Balsam
träuft aus deiner Hand,
aus dem Bündel Mohn.
Die schweren Flügel des Gemüts
hebst du empor.
Dunkel und unaussprechlich
fühlen wir uns bewegt.
Ein ernstes Antlitz
seh ich froh erschrocken,
das sanft und andachtsvoll
sich zu mir neigt,
und unter unendlich
verschlungenen Locken
der Mutter liebe Jugend zeigt. 

Wie arm und kindisch
dünkt mir das Licht nun;
wie erfreulich und gesegnet
des Tages Abschied!
Also nur darum,
weil die Nacht dir
abwendig macht die Dienenden,
säetest du
in des Raumes Weiten
die leuchtenden Kugeln,
zu verkünden deine Allmacht,
deine Wiederkehr
in den Zeiten deiner Entfernung.
Himmlischer als jene blitzenden Sterne,
dünken uns die unendlichen Augen,
die die Nacht
in uns geöffnet.
Weiter sehn sie
als die blässesten
jener zahllosen Heere.
Unbedürftig des Lichts
durchschaun sie die Tiefen
eines liebenden Gemüts —
was einen höhern Raum
mit unsäglicher Wollust füllt.

Preis der Weltkönigin,
der hohen Verkündigerin
heiliger Welten,
der Pflegerin
seliger Liebe,
sie sendet mir dich,
zarte Geliebte,
liebliche Sonne der Nacht.
Num wach ich:
denn ich bin dein und mein.
Du kommst, Geliebte.
Die Nacht ist da.
Entzückt ist meine Seele.
Vorüber ist der irrdische Tag,
und du bist wieder mein.
Ich schaue dir ins tiefe dunkle Auge,
sehe nichts als Lieb und Seligkeit.
Wir sinken auf der Nacht Altar,
aufs weiche Lager.
Die Hülle fällt,
und angezündet von dem warmen Druck
entglüht des süssen Opfers
reine Glut.
Zehre mit Geisterglut
meinen Leib,
dass ich lustig mit dir
inniger mich mische
und dann ewig
die Brautnacht währt.

Novalis

da “Hymnen an die Nacht”, Athenäum-Fassung, 1800

«non hai luogo o non sai o tardi solo» – Eugenio De Signoribus

Foto di Paolo Corradini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

non hai luogo o non sai o tardi solo
è per saperlo o per vederci chiaro
ora che il giorno tutto ira è in volo
coi fumi cerebrali…

di qui non sei, qui certo non hai base,
sei uno che non passa, che non erge
o che non altro…, o che alla sua pelle
sta come un senzacasa…

Eugenio De Signoribus

da “Principio del giorno”, Garzanti, 2000

L’altro – Paul Celan

 

Piú profonde ferite che a me
inflisse a te il tacere,
piú grandi stelle
ti irretiscono nella loro insidia di sguardi,
piú bianca cenere
giace sulla parola cui hai creduto.

Paul Celan

10 dicembre 1952

(Traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien)

da “Conseguito silenzio”, Einaudi, Torino, 1998

∗∗∗

Der Andere

Tiefere Wunden als mir
schlug dir das Schweigen,
größere Sterne
spinnen dich ein in das Netz ihrer Blicke,
weißere Asche
liegt auf dem Wort, dem du glaubtest.

Paul Celan

da “Die Gedichte aus dem Nachlaß”, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1997

Cartesio – Jorge Luis Borges

José María Fernández, Jorge Luis Borges

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono l’unico uomo sulla terra e forse non c’è terra né uomo.
Forse un dio mi inganna.
Forse un dio mi ha condannato al tempo, quella lunga illusione.
Sogno la luna e sogno i miei occhi che vedono la luna.
Ho sognato la sera e la mattina del primo giorno.
Ho sognato Cartagine e le legioni che desolarono Cartagine.
Ho sognato Virgilio.
Ho sognato la collina del Golgota e le croci di Roma.
Ho sognato la geometria.
Ho sognato il punto, la linea, il piano ed il volume.
Ho sognato il giallo, l’azzurro e il rosso.
Ho sognato la mia fragile infanzia.
Ho sognato le mappe e i regni e quella pena nell’alba.
Ho sognato l’inconcepibile dolore.
Ho sognato la mia spada.
Ho sognato Elisabetta di Boemia.
Ho sognato il dubbio e la certezza.
Ho sognato il giorno di ieri.
Forse non ebbi ieri, forse non sono nato.
Forse sogno d’aver sognato.
Sento un po’ di freddo, un po’ di paura.
Sul Danubio è ferma la notte.
Continuerò a sognare Cartesio e la fede dei suoi padri.

Jorge Luis Borges

(Traduzione di Domenico Porzio)

da “La cifra”, “Lo Specchio” Mondadori, 1981

∗∗∗

Descartes

Soy el único hombre en la tierra y acaso no haya tierra ni hombre.
Acaso un dios me engaña.
Acaso un dios me ha condenado al tiempo, esa larga ilusión.
Sueño la luna y sueño mis ojos que perciben la luna.
He soñado la tarde y la mañana del primer día.
He soñado a Cartago y a las legiones que desolaron a Cartago.
He soñado a Lucano.
He soñado la colina del Gólgota y las cruces de Roma.
He soñado la geometría.
He soñado el punto, la línea, el plano y el volumen.
He soñado el amarillo, el azul y el rojo.
He soñado mi enfermiza niñez.
He soñado los mapas y los reinos y aquel duelo en el alba.
He soñado el inconcebible dolor.
He soñado mi espada.
He soñado a Elizabeth de Bohemia.
He soñado la duda y la certidumbre.
He soñado el día de ayer.
Quizá no tuve ayer, quizá no he nacido.
Acaso sueño haber soñado.
Siento un poco de frío, un poco de miedo.
Sobre el Danubio está la noche.
Seguiré soñando a Descartes y a la fe de sus padres.

Jorge Luis Borges

da “La Cifra”, Alianza Editorial S.A. Madrid, 1981

Parole del tuffatore di Paestum – Roberto Mussapi

PaestumTaucher

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io sono l’anima di tuo padre, il tuffatore:
ti ho seguito ogni giorno, ti sono accanto,
conosco come allora le tue zone d’ombra,
il linguaggio dei moti tracciato dalla tua faccia,
niente è cambiato da allora, in questo senso.
Questa è la prima cosa che ho scoperto,
la prima che volevo dirti: non cambia la percezione
dei tuoi attimi, come non cambiava
di notte, nel sonno, o per la distanza.
So che questo mio soffio (dal fondo dell’acqua, tra le attinie)
sarà per te come le mie parole un tempo:
che ti infondevano memoria e coraggio,
più del vino o di una donna che ti guarda.
La mia prima scoperta, la prima verità è che nulla
si spezza nel segreto dell’anima.
Il resto è confuso, è presto
per cercare di riferirti,
coralli, attinie, vite che si disegnano da un moto
d’acqua e si dileguano all’istante.
Non tutto è luce, trasparenza, silenzio,
cunicoli di buio, respiri compressi, poi voci
che inalano in me come se io parlassi.
Scivolo verso un fondo sempre più distante
e sento che una luce sommersa mi chiama da Oriente:
non so dove finisca, per ora,
non so che cosa sia ma so che amore
la muove e ne determina il respiro.
Di questo viaggio parlerò più avanti,
quando esperito sarà conoscenza,
posso parlarti di quanto ho lasciato,
sopra la superficie azzurra delle acque,
tra le sabbie bianchissime, le palme,
l’ombra degli ulivi, il vino
che veniva versato dalle anfore:
ama la terra rosa nel tramonto,
immergiti nel mare per gioco, come un tritone,
gusta la frutta, il pane, bevi e mangia,
ascolta le risa delle ragazze,
cerca la loro bocca, ridi e dispèrati,
ringrazia ogni giorno il tuo paese lucente.
Io non sono tuo padre ma la sua anima,
non so quello che vivo ma ricordo,
la riva, la piscina, i colori che formano
lo strano disegno della vita mortale.
Vivi in quella ceramica smagliante e attendi
quanto saprò dirti più avanti, alla fine del viaggio.
Ma ora che dormi come quando in una culla
sembravi cercare i segreti del mondo,
ora che hai spalle più larghe e più radi i capelli,
ascolta le parole della mia anima:
non so molto di lei – di me stessa –
(è presto, figlio, non conosco abbastanza,
ho appena iniziato, sto nuotando),
non pensare al mio corpo (è tardi,
perle, quelli che furono i miei occhi,
e le mie labbra contratte in corallo),
ma ho conoscenza del loro matrimonio,
di quando vivevano all’unisono nel mondo
e io, anima di tuo padre, il tuffatore
ti consegno solo questa esperita certezza
(dal fondo dell’abisso, nel brivido del tuffo):
che anche l’uomo può amare eternamente.

Roberto Mussapi

da “La stoffa dell’ombra e delle cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 2007