«Talpa antica porta peste» – Attila József

Talpa antica porta peste
il pensiero non pensato,
ficca il muso nel mangiare
e da un uomo a un altro corre.
Per sua colpa non sa l’ubriaco,
mentre in vino strozza il tedio,
di sorbire la minestra
vuota, ai poveri atterriti.

E perché dalle nazioni
giusta linfa non spreme lo spirito,
una nuova infamia accampa
gli uni contro gli altri i popoli.
Gracchia a stormi l’oppressione, cala
come su carogne, ai cuori;
e sul globo la miseria
cola come a ebete bava.

Fitte all’ago del bisogno
le ali delle estati pendono.
Come insetti su chi dorme,
sulle anime le macchine
brulicano. In profondo,
gratitudine, fiducia
si nascondono, le lacrime
bruciano, lottano voglia
di vendetta e coscienza.

Come lo sciacallo vomita
alle stelle le sue urla,
al nostro cielo, dove gli strazi ardono,
guaísce inutile il poeta…
Oh voi, stelle! Rugginose, rozze
lame, quante volte
siete scese dentro l’anima!
(Si sa, qui, solo morire).

Eppure ho fede. Piangendo ti prego,
bel futuro, non esser cosí arido!
Ho fede, non ci impalano piú, oggi,
come i nostri avi, una volta.
Verrà la calma della libertà,
la sofferenza si affína…
E finalmente saremo dimenticati anche noi
nell’ombra quieta delle pergole.

Attila József

1957

(Traduzione di Franco Fortini)

da “Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia”, “I Supercoralli” Einaudi, 1982 

La poesia è una passione? – Vittorio Sereni

 

L’abbraccio che respinge e non unisce –
il mento fermo piantato sulla spalla
di lei, lo sguardo fisso e torvo:
storia d’altri e, già vecchia, di loro.
Moriva d’apprensione e gelosia
al punto di volersi morto, di volerlo
veramente, lí tra le braccia di lei.
Rabbiosamente non voleva sciogliersi.
Chi cederà per primo? La domenica
d’agosto era, fuori, al suo colmo
e tutta Italia sulle piazze
nei viali e nei bar ferma ai televisori…
Un gesto appena, – si disse – cerca d’essere uomo
e sarai fuori dalla stregata cerchia.
E, la convulsa stretta perdurando
(che lei d’istinto addoppiava),
alla cieca una mano errò sull’apparecchio, agí
sulla manopola: nella stanza
fu di colpo la gara, si frappose tra loro.

Il campione che dicono finito,
che pareva intoccabile dallo scherno del tempo
e per minimi segni da una stagione all’altra
di sé fa dire che più non ce la fa e invece
nella corsa che per lui è alla morte
ancora ce la fa, è quello il suo campione.
Lo si aspettava all’ultimo chilometro:
«se vedremo spuntare
laggiú una certa maglia…» e qualcosa l’annuncia,
un movimento di gente giú alla curva,
uno stormire di voci che si approssima
un clamore un boato, è incredibile è lui
è solo s’è rialzato ha staccato le mani
ce l’ha fatta… e dunque anch’io
posso ancora riprendermi, stravincere.
S’erano intanto gli occhi raddolciti
e di poco allentandosi la stretta
s’inteneriva, acquistava altro senso, ritornava
altrimenti violenta.
Per una voce irrotta nella stanza…

L’istinto che non la tradisce
scocca esatto sempre al momento giusto
tra i suoi pensieri semplici.
Sa capire il suo uomo: lo sa bene che piú
suppone lui di stravincere a sé meglio l’avvince
e fin che vorrà se lo tiene.
«Caro – gli dice all’orecchio – amore mio…»
E la domenica chiara è ancora in cielo,
folto di verde il viale e di uccelli
non ancora spettrali case e grattacieli,
solo un po’ piú nitidi a quest’ora
di avanzato meriggio dell’ultima domenica
di questa nostra estate. E se a lui pare
che un brivido percettibile appena
s’inoltri nel soffio ancora tiepido che approda
alla terrazza: anche agosto
– lei dice d’un tratto ricordandosi –
anche agosto andato è per sempre

Sí li ho amati anch’io questi versi…
anche troppo per i miei gusti. Ma era
il solo libro uscito dal bagaglio
d’uno di noi. Vollero che li leggessi.
Per tre per quattro
pomeriggi di seguito scendendo
dal verde bottiglia della Drina a Larissa accecante
la tradotta balcanica. Quei versi
li sentivo lontani
molto lontani da noi: ma era quanto restava,
un modo di parlare tra noi –
sorridenti o presaghi fiduciosi o allarmati
credendo nella guerra o non credendoci –
in quell’estate di ferro.
Forse nessuno l’ha colto cosí bene
questo momento dell’anno. Ma
– e si guardava attorno tra i tetti che abbuiavano
e le prime serpeggianti luci cittadine –
sono andati anche loro di là dai fiumi sereni,
è altra roba altro agosto,
non tocca quegli alberi o quei tetti,
vive e muore e sé piange
ma altrove, ma molto molto lontano da qui.
.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Vittorio Sereni

da “Gli strumenti umani”, Einaudi, Torino, 1965

Infanzia – Georg Trakl

Vincent van Gogh, Sottobosco, 1887, Centraal Museum, Utrecht

 

Folto di frutti il sambuco; quieta abitava l’infanzia
Nell’azzurra grotta. L’antico sentiero
Dove sibila ora bruna gramigna
Ripensano i taciti rami; frusciare di foglie

Come acqua azzurra che tra le rocce suona.
Dolce è il pianto del merlo. Un pastore
Segue muto il sole che rotola dal colle autunnale.

Un attimo azzurro non è piú che anima.
Lungo il bosco si mostra schivo un animale e placide
Riposano a valle le vecchie campane e i casolari spenti.

Con piú devozione intendi il senso degli anni oscuri,
Frescura e autunno nelle stanze vuote;
E nel sacro azzurro l’eco di passi lucenti.

Piano stride una finestra aperta; a lacrime
Muove la vista del vecchio cimitero sopra il colle,
Memoria di narrate leggende; pure talvolta l’anima si rischiara
Se pensa umana gaiezza, giorni di primavera scurodorati.

Georg Trakl

(Traduzione di Ida Porena)

da “Georg Trakl, Poesie”, Einaudi, Torino, 1979

∗∗∗

Kindheit

Voll Früchten der Hollunder; ruhig wohnte die Kindheit
In blauer Höhle. Über vergangenen Pfad,
Wo nun bräunlich das wilde Gras saust,
Sinnt das stille Geäst; das Rauschen des Laubs

Ein gleiches, wenn das blaue Wasser im Felsen tönt.
Sanft ist der Amsel Klage. Ein Hirt
Folgt sprachlos der Sonne, die vom herbstlichen Hügel rollt.

Ein blauer Augenblick ist nur mehr Seele.
Am Waldsaum zeigt sich ein scheues Wild und friedlich
Ruhn im Grund die alten Glocken und finsteren Weiler.

Frömmer kennst du den Sinn der dunklen Jahre,
Kühle und Herbst in einsamen Zimmern;
Und in heiliger Bläue läuten leuchtende Schritte fort.

Leise klirrt ein offenes Fenster; zu Tränen
Rührt der Anblick des verfallenen Friedhofs am Hügel,
Erinnerung an erzählte Legenden; doch manchmal erhellt sich die Seele,
Wenn sie frohe Menschen denkt, dunkelgoldene Frühlingstage.

Georg Trakl

da “Gedichte”, Leipzig: Kurt Wolff Verlag, 1913

«Terra rossa terra nera» – Cesare Pavese

Cesare Pavese – Foto Roberto Merlo

 

Terra rossa terra nera,
tu vieni dal mare,
dal verde riarso,
dove sono parole
antiche e fatica sanguigna
e gerani tra i sassi –
non sai quanto porti
di mare parole e fatica,
tu ricca come un ricordo,
come la brulla campagna,
tu dura e dolcissima
parola, antica per sangue
raccolto negli occhi;
giovane, come un frutto
che è ricordo e stagione –
il tuo fiato riposa
sotto il cielo d’agosto,
le olive del tuo sguardo
addolciscono il mare,
e tu vivi rivivi
senza stupire, certa
come la terra, buia
come la terra, frantoio
di stagioni e di sogni
che alla luna si scopre
antichissimo, come
le mani di tua madre,
la conca del braciere.

Cesare Pavese

[27 ottobre 1945]

da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino, 1951

Preghiera alla poesia – Antonia Pozzi

Foto di Emil Schildt

 

Oh, tu bene mi pesi
l’anima, poesia:
tu sai se io manco e mi perdo,
tu che allora ti neghi
e taci.

Poesia, mi confesso con te
che sei la mia voce profonda:
tu lo sai,
tu lo sai che ho tradito,
ho camminato sul prato d’oro
che fu mio cuore,
ho rotto l’erba,
rovinata la terra –
poesia – quella terra
dove tu mi dicesti il piú dolce
di tutti i tuoi canti,
dove un mattino per la prima volta
vidi volar nel sereno l’allodola
e con gli occhi cercai di salire –
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi.

Antonia Pozzi

Pasturo, 23 agosto 1934

da “Parole: diario di poesia”, “Lo Specchio” Mondadori, 1964