Album – Seamus Heaney

Foto di Henri Cartier-Bresson

I

La caldaia a gasolio si ridesta adesso
brusca, sonnolenta come il crollo puntuale
di un albero segato, mi pare di vederli

d’estate, deve essere stata quella la stagione,
e il luogo, ora mi ritorna in mente,
forse Grove Hill prima del taglio delle querce,

stavo spesso là con loro certe domeniche ariose
affondato tra le campanule in cima alla collina, gli occhi
verso i quattro campanili di Magherafelt, in distanza.

Troppo tardi, ahimè, ora per la citazione adatta
a un amore comprovato da uno sguardo saldo
non l’uno verso l’altra bensì nella stessa direzione.

II

Quercus, la quercia. E Quaerite, Cercate,
tra foglie verdi e ghiande a mosaico
(l’insegna della nostra scuola sormontata da columba,

colomba della chiesa, del sacro boschetto di Derry)
il motto strusciato di passi resisteva indelebile:
Cercate anzitutto il regno di Dio… Retto

me ne stavo nell’atrio dei locali per matricole
un grigio occhio si volgerà indietro
scorgendo in loro una coppia, lo vedo ora,

per la prima volta, ancora di più insieme
perché costretti a voltarsi, andare via, tanto vicini
nel partire (o più vicini) quanto nel giungere.

III

Inverno e sono andati al mare
per il pranzo nuziale. Io siedo al tavolo
non invitato, ineluttabile.

Stridio di gabbiani. Odore di pesce che cuoce.
Pingue argento dormiente. Silenzio spiaggiato. Lacrime.
La cameriera in pettorina scoperchia un piatto tintinnante

e a quello li lascia, sotto i lampadari
e a tutti gli anniversari di quel giorno
che mai celebreranno

o perfino nomineranno negli anni a venire.
E ora l’uomo che li ha condotti lì in auto
li riporterà indietro e per sera saremo a casa.

IV

Avessi dovuto abbracciarlo da qualche parte
sarebbe dovuto accadere sulla riva del fiume
l’estate prima della scuola, lui nel fiore degli anni,

io che allora non pensavo si sentisse in dovere
di venire con me perché presto sarei partito.
Avrebbe dovuto essere la prima, non accadde.

La seconda sì, a New Ferry una sera
che era ubriaco fradicio e gli servì una mano
per abbottonarsi i pantaloni. E la terza

sul pianerottolo, la sua ultima settimana
mentre lo portavo in bagno, il braccio destro
a farsi carico del palmato peso sottobraccio.

V

Un nipote, ci volle, che trovasse il modo giusto,
il balzo su di lui in poltrona
e un blitz d’attacco al collo

dimostrando così la sua vulnerabilità al piacere.
Prova che giunge come spesso per le grandi prove
con improvvisa eccezione seguita dal chiarirsi costante

di qualunque cosa erat demostrandum.
Proprio quando un istante prima, i tre tentativi di un figlio
di abbracciarlo in Elisio

risalirono sin nel vero delle braccia, dentro e fuori
dalla radice latina, il fantasmatico
verus sgusciato fuori da “vero”.

Seamus Heaney

(Traduzione di Luca Guerneri)

da “Catena umana”, “Lo Specchio” Mondadori, 2011

***

Album

I

Now the oil-fired heating boiler comes to life
Abruptly, drowsily, like the timed collapse
Of a sawn down tree, I imagine them

In summer season, as it must have been,
And the place, it dawns on me,
Could have been Grove Hill before the oaks were cut,

Where I’d often stand with them on airy Sundays
Shin-deep in hilltop bluebells, looking out
At Magherafelt’s four spires in the distance.

Too late, alas, now for the apt quotation
About a love that’s proved by steady gazing
Not at each other but in the same direction.

II

Quercus, the oak. And Quaerite, Seek ye.
Among green leaves and acorns in mosaic
(Our college arms surmounted by columba,

Dove of the church, of Derry’s sainted grove)
The footworn motto stayed indelible:
Seek ye first the Kingdom… Fair and square

I stood on in the Junior House hallway
A grey eye will look back
Seeing them as a couple, I now see,

For the first time, all the more together
For having had to turn and walk away, as close
In the leaving (or closer) as in the getting.

III

It’s winter at the seaside where they’ve gone
For the wedding meal. And I am at the table,
Uninvited, ineluctable.

A skirl of gulls. A smell of cooking fish.
Plump dormant silver. Stranded silence. Tears.
Their bibbed waitress unlids a clinking dish

And leaves them to it, under chandeliers.
And to all the anniversaries of this
They are not ever going to observe

Or mention even in the years to come.
And now the man who drove them here will drive
Them back, and by evening we’ll be home.

IV

Were I to have embraced him anywhere
It would have been on the riverbank
That summer before college, him in his prime,

Me at the time not thinking how he must
Keep coming with me because I’d soon be leaving.
That should have been the first, but it didn’t happen.

The second did, at New Ferry one night
When he was very drunk and needed help
To do up trouser buttons. And the third

Was on the landing during his last week,
Helping him to the bathroom, my right arm
Taking the webby weight of his underarm.

V

It took a grandson to do it properly,
To rush him in the armchair
With a snatch raid on his neck,

Proving him thus vulnerable to delight,
Coming as great proofs often come
Of a sudden, one-off, then the steady dawning

Of whatever erat demonstrandum.
Just as a moment back a son’s three tries
At an embrace in Elysium

Swam up into my very arms, and in and out
Of the Latin stem itself, the phantom
Verus that has slipped from ‘very’.

Seamus Heaney

da “Human Chain”, Faber and Faber Ltd, 2010

da «Sul Golfo del Bengala» – Giuseppe Conte

Roberto Nespola, Ostia, settembre 2016

NON SIAMO SIMILI
You, you are all unloving, loveless, you
D. H. Lawrence, The sea

Non siamo simili, mare,
né amici né fratelli,
tu ricco, profondo, infinito
tu il primo tra i sogni di Brahma
quando sognò la trama
della materia vivente
tu arido, rubescente, iniziale,
tu indifferente a tutto, ai lutti, ai naufragi
specchio del sole e della luna.
Io povero, io niente, una
creatura sottoposta alle leggi
della nascita e della mortalità,
uno di quelli che la vita ha
stremato con troppa gioia e troppo dolore.
Perché ho gioito, mare, a te lo posso dire,
anche sul Golfo del Bengala stasera.

Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, mi perdo.

Non ho conosciuto il mestiere
della colpa e della santità.
Sono come te, mare.
Mi sono sempre sentito innocente,
almeno in questo ti somiglio.
Sono stato per troppo tempo figlio
di una gioia senza nome
fatta sempre di meraviglia e amore
di alberi azzurri e di aurore.
E ho sofferto tanto per l’incolore
ansia che strangola e non sai perché
per i vortici di stravolte domande
su Dio, come posso toccarlo, dov’è?
Ero un bambino voluto, curato, amato,
nella casa di via Carducci 3
quando avevo paura di te, mare,
e vedevo la sera che veniva
mentre tornavo dal campo di gioco
e si accendevano le luci alle finestre
e le stelle sui tetti a poco a poco:
perché c’era la sera? c’era il cielo?
E tutto si nascondeva dentro il velo
di un senso che non capivo.
Per questo ancora adesso sono qui e scrivo.
Ma ora, mare, io mi fido
di te. Sono solo di fronte a te
e so che dai vita e distruzione
so che sei necessario, sei vero
e sei maya, illusione.
La vita mi ha punito.
Ha fatto di me uno zero.

Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, e mi perdo.

Sono solo più di tutti, mare, persino di te.
Tu sei arido, celibe, rude
ma sei ricco, profondo, infinito
io un fragile figlio di donna
una medusa spiaggiata, un ramo sfiorito.
Nessun potere, nessuna ricchezza
una meta ignota e cercata invano
come qualcuno che con la mano
volesse raccoglierti, mare,
e portarti con sé lontano.
Ininterrotte adolescenze amare.
Nessuna certezza, nessun colpo d’ala.
Solo, qui, sul Golfo del Bengala
a parlare con te come fanno i dementi
con te, mare, vincitore brutale
con te che schiumi ingravidato dai venti
e che non ami e non ricevi amore.
Io fragile figlio di donna,
perdente nato, sballottato, rifiuto.
Eppure ancora sempre innamorato.

TU MARE NON AMI
You are celibate and single, scorning a comrade even
D.H. Lawrence, The sea

Tu mare non ami nessuno
e io invece amo, amo lei,
lei, sempre lei, ne sono sicuro,
amare è la mia essenza
amare la mia ossessione
è questa la differenza
più inconciliabile tra noi.
Perché tu vai bene al di là
dell’amore com’è tra gli umani
tu te ne lavi le mani
sei calmo quando sei calmo
mosso quando sei mosso
solitario, sterile, puro
bastevole a te stesso.
Io cosa vuoi che sia
un povero essere umano
uno che vive scisso, di solitudine,
giorno per giorno come un’abitudine.
Eppure io amo, mare, amo lei
ne ho bisogno, ne sono sicuro,
amare è la mia essenza
e se tu non ci credi
mi dispiace per te.

Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, mi perdo.

Chi sei, essere oscuro, indifferente
alla grazia, all’amore, al perdono
chi sono queste donne che vanno e vengono
con vesti di luce, chi sono?

Parliamone qui stasera
in questo dicembre tropicale
dammi una risposta sincera
dimmi se faccio male:
io amo, al contrario di te,
io sono eternamente innamorato.
Per noi esseri umani
limitati per definizione
privi di coralli e correnti
privi di riflessi e di venti
per noi c’è questo abisso
più profondo dei tuoi, mare.
Il baratro, il precipizio
senza fondo dov’è l’io,
dov’è Dio, il sesso.
Questo cieco bisogno di amare,
di amare senza sapere
perché né chi, ma sempre
amare, anche adesso.

MARE NON HAI CHIESE
Antes que el sueño (o el terror) tejiera
Mitologías y cosmogonías,
Antes que el tiempo se acuñara en días,
El mar, el siempre mar, ya estaba y era.
J.L. Borges, El mar

Tu mare non hai chiese
non hai sacerdoti, sacramenti,
non hai preghiere, monumenti
né riti né elemosine,
e non hai mai avuto pietà.
Eppure sei sacro, divino.
Ti somigliano certe cattedrali al mattino
in Liguria, tutte riflessi azzurri
mobili per i soffi dei tuoi venti
ti somigliano le moschee
con i loro minareti e i lamenti
ondeggianti dei muezzin,
ti assomiglia Jama Masjid
dal cortile sconfinato, assolato
colore di un tappeto di alghe
e di porpora
che milioni di piedi hanno calpestato
ti assomigliano i templi dei sikh
come quello di Guru Sahib
dalle cupole d’oro, dai porticati bianchi.
Ma più di tutti ti assomigliano
i gopuram dei templi indù
con la loro rincorsa trapezoidale
verso l’alto del cielo, lo zenit,
simile alla tua rincorsa quando un temporale
un vento di libeccio o di levante
ti scuote in mille onde
che si alzano frementi.
E ti ricorda che la tua culla
fu lo spazio infinito
e ti protendi verso il nulla
che noi uomini non possiamo
reggere, mare, e non lo puoi
neppure tu
tanto che dobbiamo pregare,
insieme scalare il cielo,
credere nelle ombre
di Shiva e di Visnu.

Le donne in sari vanno e vengono
sulla Promenade e l’accendono
e io seduto da qui mare ti guardo
e mi confondo, mi perdo.

Chi sei, essere oscuro, indifferente
alla grazia, all’amore, al perdono?
Chi sono queste donne che vanno e vengono
con vesti di luce, chi sono?

Giuseppe Conte

Pondichery, New Delhi, dicembre 2011

da “Inediti”, in Giuseppe Conte, Poesie (1983-2015)”, Mondadori, 2015

Le tre poesie qui riportate (Non siamo simili, Tu mare non ami, Mare non hai chiese) fanno parte di una suite più lunga scritta fra New Delhi e Pondichery dove ero invitato per tenere conferenze e letture dall’Institut Français nel dicembre del 2011. (Giuseppe Conte)

Il sogno – John Donne

Foto di Jennifer B Hudson

 

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema alla ragione,
troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a destarmi. E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.
Tu cosí vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e le favole storia.
Entra fra queste braccia. Se ti parve
meglio per me non sognar tutto il sogno,
ora viviamo il resto.

Come il lampo o un bagliore di candela,
i tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono.
Pure (giacché ami il vero)
io ti credetti sulle prime un angelo.
Ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
sapevi i miei pensieri oltre l’arte di un angelo,
quando sapesti il sogno, quando sapesti quando
la troppa gioia mi avrebbe destato
e venisti, confesso che profano
sarebbe stato crederti qualcos’altro da te.

Il venire, il restare ti rivelò: tu sola.
Ma ora il levarti mi fa dubitare
che tu non sia piú tu.
Debole quell’amore di cui piú forte è la paura,
e non è tutto spirito limpido e valoroso
se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce che debbono esser pronte
sono accese e rispente, cosí tu tratti me.
Venisti per accendermi, vai per venire. Ed io
sognerò nuovamente
quella speranza, ma per non morire.

John Donne

(Traduzione di Cristina Campo)

da “Poesie amorose, poesie teologiche”, Einaudi, Torino, 1971

***

The dream 

Dear love, for nothing less than thee
Would I have broke this happy dream;
It was a theme
For reason, much too strong for fantasy,
Therefore thou wak’d’st me wisely; yet
My dream thou brok’st not, but continued’st it.
Thou art so true that thoughts of thee suffice
To make dreams truths, and fables histories;
Enter these arms, for since thou thought’st it best,
Not to dream all my dream, let’s act the rest.

As lightning, or a taper’s light,
Thine eyes, and not thy noise wak’d me;
Yet I thought thee
(For thou lovest truth) an angel, at first sight;
But when I saw thou sawest my heart,
And knew’st my thoughts, beyond an angel’s art,
When thou knew’st what I dreamt, when thou knew’st when
Excess of joy would wake me, and cam’st then,
I must confess, it could not choose but be
Profane, to think thee any thing but thee.

Coming and staying show’d thee, thee,
But rising makes me doubt, that now
Thou art not thou.
That love is weak where fear’s as strong as he;
‘Tis not all spirit, pure and brave,
If mixture it of fear, shame, honour have;
Perchance as torches, which must ready be,
Men light and put out, so thou deal’st with me;
Thou cam’st to kindle, goest to come; then I
Will dream that hope again, but else would die.

John Donne

da “Songs and Sonnets”, edited by E. K. Chambers, 1896

«Ho tanta fede in te» – Eugenio Montale

Foto di Anja Bührer

a C.

Ho tanta fede in te
che durerà
(è la sciocchezza che ti dissi un giorno)
finché un lampo d’oltremondo distrugga
quell’immenso cascame in cui viviamo.
Ci troveremo allora in non so che punto
se ha un senso dire punto dove non è spazio
a discutere qualche verso controverso
del divino poema.

So che oltre il visibile e il tangibile
non è vita possibile ma l’oltrevita
è forse l’altra faccia della morte
che portammo rinchiusa in noi per anni e anni.

Ho tanta fede in me
e l’hai riaccesa tu senza volerlo
senza saperlo perché in ogni rottame
della vita di qui è un trabocchetto
di cui nulla sappiamo ed era forse
in attesa di noi spersi e incapaci
di dargli un senso.

Ho tanta fede che mi brucia; certo
chi mi vedrà dirà è un uomo di cenere
senz’accorgersi ch’era una rinascita.

Eugenio Montale

da “Altri versi e poesie disperse”, “Lo Specchio” Mondadori, 1981

«Mi sono data a lui – e» – Emily Dickinson

Arnold Genthe, Julia Marlowe, c.1911

580

Mi sono data a lui – e
lui mi sono presa per compenso.
Ho così chiuso
il solenne contratto d’una vita.

Ma l’acquisto potrebbe deludere
ed io alla prova potrei risultare
meno preziosa
di quanto supponga il grande compratore.

L’amore di ogni giorno
svaluta la visione;
ma finché il mercante è sull’acquisto
stanno ancora in un’isola d’aromi
i carichi squisiti della favola.

Almeno, il rischio è reciproco,
qualcuno vi scoprì pure un guadagno –
dolce peso del vivere – trovarsi
debitore ogni notte
ed insolvente ad ogni mezzodì.

Emily Dickinson

(Traduzione di Gabriella Sobrino)

c. 1862

da “Emily Dickinson, Poesie”, Newton Compton, Roma, 1987

∗∗∗

580

I gave myself to Him –
And took Himself, for Pay,
The solemn contract of a Life
Was ratified, this way –

The Wealth might disappoint –
Myself a poorer prove
Than this great Purchaser suspect,
The Daily Own – of Love

Depreciate the Vision –
But till the Merchant buy –
Still Fable – in the Isles of Spice –
The subtle Cargoes – lie –

At least – ’tis Mutual – Risk –
Some – found it – Mutual Gain –
Sweet Debt of Life – Each Night to owe –
Insolvent – every Noon –

Emily Dickinson

da “Poems”, a cura di Mabel Loomis Todd e Thomas W. Higginson, Boston, Robert Brothers, 1891