«Non ti vedo. So bene» – Pedro Salinas

Maya Deren, in “Meshes of an Afternoon”, di Maya Deren, 1943

49

Non ti vedo. So bene
che sei qui,
dietro una parete fragile
di calce e di mattoni, alla portata
della mia voce, se chiamassi.
Ma io non chiamerò.
Ti chiamerò domani,
quando ormai non vedendoti,
immagini che ancora
tu sia qui, accanto a me,
e che basti oggi la voce
che ieri ho trattenuto.
Domani… quando tu sarai
al di là di una
fragile parete di venti,
di cieli e di anni.

Pedro Salinas

(Traduzione di Valerio Nardoni)

da “Presagi”, Passigli Poesia, 2008

***

49

No te veo. Bien sé
que estás aquí, detrás
de una frágil pared
de ladrillos y cal, bien al alcance
de mi voz, si llamara.
Pero no llamaré.
Te llamaré mañana,
cuando, al no verte ya
me imagine que sigues
aquí cerca, a mi lado,
y que basta hoy la voz
que ayer no quise dar.
Mañana… cuando estés
allá detrás de una
frágil pared de vientos,
de cielos y de años.

Pedro Salinas

da “Presagios”, 1924, in “Pedro Salinas, Poesías completas”, Aguilar, Madrid, 1955

Come si abituano i falchi nidiaci alla caccia – Juana Castro

Foto di Katia Chausheva

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Oggi ho solo ferite,
vuota la mia bocca di presenti.
Nessun fiore né un bacio. Tra i miei artigli
neppure un’uva.
La morte mi ha ceduto dal suo regno.
Ti giuro che volai
così veloce che la mia ombra trascinava la sua
in un fiume di braci dove c’erano rocce
come candele d’oro disordinate.
Ma persi nella lotta.
Fui debole un secondo, e contro il tuo mandato,
la guardai negli occhi ed era triste,
mi accecò la sua pioggia che cadeva
come petali bianchi di un mandorlo.
Fu più forte di me,
seppe liberarsi con il mio dubbio.
E adesso torno macchiata del suo sangue,
con un po’ di zucchero sulle ali:
il suo fragile cuore tremante
che a te depongo, affinché tu decida
se la pietà merito o il tuo castigo.

Juana Castro

(Traduzione di Alessandro Ghignoli)

da “Juana Castro, Calice e altre poesie”, Via del vento Edizioni, 2001

***

Como se acostumbra a los niegos a la caza

Hoy traigo sólo heridas
y vacía mi boca de presentes.
Ninguna flor, ni un beso. Entre mis garras
ni siquiera una uva
la muerte me ha cedido de su reino.
Te juro que volé
tan veloz que mi sombra arrastraba a la suya
en un río de brasas donde eran las rocas
como velas de oro atropelladas.
Pero he sucumbido en la pelea.
Fui débil un segundo, y contra tu mandato,
la miré a los ojos y era triste,
y me cegó su lluvia que caía
como pétalos blancos de un almendro.
Fue más fuerte que yo,
pues supo liberarse con mi duda.
Y ahora vuelvo teñida de su sangre
con un terrón de azúcar en las alas:
Su frágil corazón estremecido
que ante tí deposito, para que tú decidas
si la piedad merezco o tu castigo.

Juana Castro

da “Arte de cetrería”, Diputación Provincial de Huelva, 1989 

Addio con variazioni – Pedro Salinas

Rodney Smith, Bernadette Twirling, 1997

18

Ma che peccato, peccato, peccato
che quel divano dov’era sdraiato
il tuo corpo serenissimo,
come una sera sopra il suo orizzonte,
fosse di quel colore azzurro unanime!
Ah, se avesse avuto
la sua tela con disegni geometrici
ad indicarci norme o un seminato
di dolci fiorellini colorati,
per calmare la smania dei giardini,
senza pianti, così le quattro e mezza
sarebbero state ben altro: tutto,
la morte di orologi e di stagioni.
E chiamando una macchina
noi saremmo saliti, tra la neve,
a cercar manichini, a farci fare
un buon amore invernale su misura.
Ma quella tela azzurra, azzurra, azzurra,
a te dette un colore d’eternità, infinita.
Ed io mi figurai che su quel fondo
mai ti saresti mossa da te stessa.

Che peccato
che tu non fossi uscita dalla stanza
— dove, incredibile, in dieci minuti,
si trasformò il carbone in un diamante
che porterai sempre all’anello —,
come ti è naturale — tu, splendore —:
sfondando il tetto come per miracolo,
dissolvendoti tutta verso l’alto;
o al contrario, gettandoti
giù da quaranta piani mascherata
da una lettera con una scrittura
minuscola e che scende così lenta
che quando arriva a terra è ormai bianchissima
ed ha lasciato in aria la sua storia
perché gli uccelli imparino a cantare!
Che errore, andare via con le tue gambe,
nel fondo corridoio, ed accettando,
la porta stretta — uso secolare:
mentre io guardavo il tuo corpo
rimpicciolire nell’allontanarsi,
senza vederlo, se non nello specchio,
rimpiccolente, con la cornice d’acqua,
attaccato sopra il camino.
Perché ti ho visto andartene così, diminuendo?
Si stringeva il tuo petto, ormai impossibile
che lì vivessero due, e lo sguardo,
diventato il tuo volto così piccolo,
restò sospeso in aria, sostenuto
da due ali di lacrime.
Al contrario della rosa,
te ne andasti chiudendoti — agonia
nel mercurio convesso —, esaurendo
la tua splendida vita ad ogni passo,
per le stesse ragioni della sera
quando la luce dilegua, in gennaio,
che eran le cinque e un quarto
e in un altro emisfero ti aspettavano.
Anch’io ti aspetto. Si resuscita
sempre dentro lo stesso specchio
dove si muore. Io passerò gli anni
andando dal mercurio ai laghi,
semmai tu ti stancassi
d’essere, giorno giorno, il tuo ricordo.

E che peccato, sì, quando ripenso
a quel ballo profondo,
a quel nono piano, sotto terra
 — il cabaret più nuovo —,
e al nostro lento valzer, così lontano dalla vita
al nostro valzer,
al rigoroso livello dei morti!
Che peccato
che ti fossi stancata di ballare con me
proprio quando stava albeggiando
negli alti lampadari, sul soffitto,
in nidi di cristallo il nuovo uccello
che stava per volare al cielo
in cerca di quegli ordini che attendi!
Ma tu eri stanca. Lo capisco.
Avevamo ballato sette giorni
quel valzer lento, molto più che lento,
capendoci solo con gli occhi
e con le maschere sempre sul viso.
Poi venne la mia voce, ad invitarti,
e inchinandomi come
un vecchio frac romantico
con dentro il suo presagio di cadavere,
ti sussurrai, alle tre del mattino:
«Posso forse invitarti a questo ballo?
Discende dalle tube degli angeli,
si balla al loro tempo, e non ne hanno.
Durerà un po’ di più dei balli
soliti con le orchestre
di solitudini o d’usignoli.
E bisogna ballarlo fino in fondo.
Rimarremo da soli
in questa grande sala color mandorla,
a girare e girare
come un mondo noi due, un mondo solo
che gira sul suo amore
secondo quella legge che scoprimmo
nei nostri sguardi una sera d’estate.
E può darsi che prima che l’angelica
musica taccia nei clarini
che percorrono i cieli sulle piume,
qualcuno, nel vederci ancora uniti,
ci salvi e ci dica, collocandoci
fra le immortalità e i cipressi:
‘Ballavan bene, senza mai staccarsi,
e sempre stretti giunsero fin qui’.
(Ultimo qui dell’uomo: il suo scheletro)».
Non accettasti; stanca. Ed io ti porsi il braccio.
Pur trovandoci così in basso,
scendemmo scale,
che non ricordavamo aver salito,
perché eran fatte con gradini d’aria,
di serate, di delizie; e l’amore
si rende conto a che altezza viveva
solo quando riscende, quando conta
quanti scalini era alto il piacere
con cifre di cristallo
che tiepide gli solcano le guance.
Aspettavo alla porta della notte
una carrozza di unicorni
che conducesse a casa i nostri corpi.

In braccio ti portai sull’alta torre
e per non farti male,
per lasciarci senza patire,
io tolsi le mie mani piano piano,
e con qualcosa che era più durevole
e sempre ti amerà, ti abbandonai sulla tua spiaggia,
sulle lenzuola bianche.
E quando vidi chiudersi i tuoi occhi
compresi l’imminente:
che il mare si apprestava a riprendersi il suo.
E che se anche al mondo ci saranno
sempre le stesse aurore ad ogni giorno,
non tutte tornano le luci; un corpo
non albeggerà più con il tuo sguardo.

Pedro Salinas

(Traduzione di Valerio Nardoni)

da “Il corpo, favoloso. Lungo lamento”, Passigli Poesia, 2015

***

Adiós con variaciones 

¡Qué lástima, qué lástima, qué lástima
que el diván donde estaba reclinado
tu cuerpo serenísimo,
lo mismo que una tarde en su horizonte,
fuese de aquel color azul unánime!
Ah, si hubiese tenido
su tela con dibujos geométricos,
que nos marcaran normas, o un sembrado
de leves florecillas de colores,
para calmar el ansia de jardines,
sin tener que llorar, las cuatro y media
no habrían sido lo que fueron: todo,
la muerte del reló y las estaciones.
Y llamando algún coche
hubiésemos salido, entre la nieve,
a buscar maniquíes, a encargarnos
un buen amor de invierno a la medida.
Pero la tela azul, azul, azul,
te dio un color de eternidad, infinita.
Y yo me figuré que en aquel fondo
nunca te moverías de ti misma.

¡Qué lástima
que no salieras de aquel cuarto
—donde asombrosamente, en diez minutos,
se trasmutó el carbón en un diamante
que siempre llevarás en la sortija—,
como te es natural —tú, maravilla—
rompiendo el techo por algún milagro,
y toda deshaciéndote hacia arriba;
o al revés, arrojándote
de aquel piso cuarenta,
disfrazada de carta con la letra
muy menuda, y que baja tan despacio
que cuando llega al suelo está blanquísima
y se deja su historia por los aires
para que aprendan a cantar los pájaros!
¡Qué error, irte en tus pasos,
por el corredor hondo, y aceptando,
costumbre secular, la puerta estrecha;
mientras que yo miraba
reducirse tu cuerpo al alejarse
sin verlo, reflejado en el espejo,
diminutivo, con su marco de agua,
colgado encima de la chimenea!
¿Por qué te vi marchar así, menguando?
Se estrechaba tu pecho, ya imposible
que en él vivieran dos, y la mirada
al volvérsete el rostro tan menudo,
se te quedó en el aire, sostenida
en dos alas de lágrimas.
Al revés que la rosa,
te marchaste cerrándote —agonía
en un convexo azogue—, desviviendo
tu hermosa vida a cada nuevo paso,
sin más razones que las de la tarde
cuando se va la luz, por los eneros,
que eran las cinco y cuarto
y que en otro hemisferio te esperaban.
Yo te espero también. Se resucita
siempre en el mismo espejo
donde se ha muerto. Pasaré los años
yendo de los azogues a los lagos,
por si acaso te cansas
de ser, día tras día, tu recuerdo.

¡Y qué lástima, sí, cuando yo pienso
en aquel baile hondo,
en aquel piso nueve, bajo tierra
—el cabaret más nuevo—,
y en nuestro vals, tan lejos de la vida,
en nuestro lento vals,
al nivel riguroso de los muertos!
¡Qué lástima
que te cansaras de bailar conmigo
precisamente cuando alboreaba
en las altas arañas, junto al techo,
en nidos de cristal el ave nueva
que iba a volar al cielo
en busca de las órdenes que aguardas!
Pero estabas cansada. Lo comprendo.
Habíamos bailado siete días
aquel vals lento, mucho más que lento,
entendiéndonos sólo por los ojos,
y con los antifaces siempre puestos.
Por fin llegó mi voz, para invitarte,
e inclinándome al modo
de un viejo frac romántico,
con su presagio de cadáver dentro,
te susurré, a las tres de la mañana:
«¿Podríamos bailar quizá este baile?
Baja desde las tubas de los ángeles,
por su tiempo se cuenta, y no lo tienen.
Durará un poco más de lo que sueles
bailar con las orquestas
de soledades o de ruiseñores.
Hay que bailarlo todo.
Nos quedaremos solos,
en este gran salón color de almendra,
dando vueltas y vueltas
como un mundo los dos, un mundo solo
sobre su amor girando
conforme aquella ley que descubrimos
una tarde de estío en dos miradas.
Y es muy posible que antes que la música
angelical se calle en los clarines
que recorren los cielos sobre plumas,
alguien, al ver que no nos separamos,
nos salve y diga, colocándonos
entre inmortalidades o cipreses:
“Bailaban bien, no se soltaron nunca,
y estrechados llegaron hasta aquí.”
(Último aquí del hombre: su esqueleto.)»
No aceptaste; cansada. Te di el brazo.
Y aunque tan hondo estábamos,
bajamos escaleras,
que no se recordaba haber subido,
porque sus escalones eran de aire,
de tardes, de delicias; y el amor
sólo sabe la altura a que vivía
cuando la ha de bajar, y cuando cuenta
cada peldaño que llevaba al gozo
con cifras de cristal
que tibiamente caen por las mejillas.
Esperaba en la puerta de la noche
el coche de unicornios
a llevar nuestros cuerpos a tu casa.
Te subí en brazos, a la torre alta
y por no hacerte daño,
para dejarte sin que nos doliera,
muy poco a poco me quité las manos,
y con algo que dura más que ellas
y siempre te querrá, te eché en tu playa,
en las sábanas blancas.
Y al ver cómo tus ojos se cerraban
comprendí lo inminente:
que el mar iba a volver por lo que es suyo.
Y que aunque las auroras de este mundo
sigan acaso siendo tan diarias,
hay luces que no vuelven; que un cuerpo
no amanecerá nunca tu mirada.

Pedro Salinas

da “Largo lamento”, Alianza Editorial, 1989

Nei giorni di pioggia – III – Luis García Montero

Foto di Hadar Ariel Magar

 

Ci visita l’amore. La casa possiede
una memoria cieca
di sole sulle braccia
e la passione, arida d’erba, sulla pelle.

Dobbiamo veramente abbracciarci
in questa mattina grigia d’ogni nostalgia
e patteggiare con la luce
che comincia a disturbarci
sotto le porte
come un guardone nascosto che dobbiamo sopportare.

Sono troppe cose.
Si vede che il tempo vola indifferente,
a noi estraneo
che abbiamo parlato tanto della vita
per giungere in tempo ai suoi occhi aperti,
al suo capezzolo rosato
e alla bella volta dei corpi
che cercavamo insieme,
impetuosamente,
aprendo cerniere
con l’impazienza propria degli innamorati.

Il sole
che sembra l’esitante carne delle tue labbra
si avvicina strisciando e mi ricorda
che è ancora possibile rincorrerci
mentre si spengono lente le ultime stelle.

Prima che tu nascessi ed io nascessi
qualcuno dovette vivere in queste stanze,
sopportarle come le settimane,
riempirle di desideri realizzati a metà.

Gente di solitudine.

Forse sarà tutto valso
se un giorno…

                               Noi
ormai niente abbiamo creato, neppure un focolare.

È più saggio l’amore quando nasce,
quando si incomincia a sentire il mattino,
per il lungo, deserto cammino della tua pelle.

Luis García Montero

(Traduzione di Gabriele Morelli)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXV, Marzo 2012, N. 269, Crocetti Editore

***

En los días de lluvia – III 

Nos visita el amor. Tiene la casa
una memoria ciega
de sol sobre los brazos
y la pasión desierta de hierbas por la piel.

Debemos abrazamos seriamente
esta mañana gris de todas las nostalgias
y pactar con la luz
que empieza a incomodamos
debajo de las puertas
 como un mirón secreto al que hay que soportar.

Son demasiadas cosas.
Se ve que el tiempo vuela indiferente,
ajeno entre nosotros
que hemos hablado tanto de la vida
para llegar a tiempo a sus ojos abiertos,
a su pezón rosado
ya la bóveda hermosa de los cuerpos
que buscábamos juntos,
atropelladamente,
abriendo cremalleras
con la impaciencia propia de los enamorados.

El sol
que parece la carne dudosa de tus labios
se avecina reptando y me recuerda
que es posible de nuevo recorrernos
mientras se apagan lentas las últimas estrellas.

Antes de que nacieras y de que yo naciese
alguien debió vivir estas habitaciones,
sufrirlas solamente igual que las semanas,
poblarlas de deseos realizados a medias.

Gentes de soledad.

Acaso todo valga
si algún día…

                             Nosotros
ya nada hemos fundado, ni siquiera un hogar.

Es más sabio el amor cuando amanece,
cuando ya empieza a oírse la mañana,
por el camino largo, desierto de tu piel.

Luis García Montero

da “El jardín extranjero”, Madrid: Rialp, 1983

«Cademmo nell’abbraccio» – Clara Janés

Anouk Aimée and Jean-Louis Trintignant in “Un Homme et une femme”, by Claude Lelouch, 1966

 

Cademmo nell’abbraccio,
ci separammo dal mondo,
non sapevamo se eravamo due corpi
o due anime
o un corpo e un’anima
o se semplicemente
non eravamo
perché era amore solamente
e poi solamente fu
la marea d’argento del nulla.

Clara Janés

(Traduzione di Annelisa Addolorato)

da “Arcangelo d’ombra”, Crocetti Editore, 2005

∗∗∗

«En el abrazo caímos»

En el abrazo caímos,
nos desprendimos del mundo,
no sabíamos si éramos dos cuerpos
o dos almas
o un cuerpo y un alma
o si sencillamente
no éramos
porque era amor tan sólo
y luego sólo fue
la marea de plata de la nada.

Clara Janés

da “Arcángel de sombra”, Visor, Madrid, 1999