Ma chi sono i barbari? – Lawrence Ferlinghetti

Lawrence Ferlinghetti, foto di Chris Felver

 

Io sono il senatore greco
che attende che i barbari
ci sollevino dai nostri destini
e risolvano tutti i nostri problemi
 
Ma chi sono i barbari?
Sono gli avidi tifosi machisti
che invocano il sangue
agli incontri di kickboxing
o le belle ragazze e i bei ragazzi
incollati a computer e cellulari
o i signori dal taglio perfetto in giacca e cravatta
nei grattacieli del centro
o i morti di fame ai nostri confini?

Fratello, smetti di cercare
Siamo noi quelli contro cui i padri ci han messo in guardia
gli illuminati
nati per governare il mondo
grazie ai computer che assicurano
assoluto isolamento e solitudine
Non chiamarmi ti chiamo io
Non c’è più alcun bisogno di conversare
Un disinvolto cinismo va di gran moda
e i Twitterati imperano

Un grande sonno
ci ha sopraffatti tutti
coi dispositivi in mano

Tra gli alberi si sentono
i violini dell’autunno
mentre i cavalli bianchi del mare
si lanciano ancora sulle nostre spiagge
con un ruggito immenso e perduto

Lawrence Ferlinghetti

(Traduzione di Damiano Abeni)

da “Scoppi urla risate”, SUR, 2019

∗∗∗

Who are the barbarians?

I am the Greek senator
waiting for the barbarians
to relieve us of our destinies
and solve all our problems

But who are the barbarians?
Are they the avid macho fans
screaming for blood
at kickboxing matches
or the pretty boys and girls
glued to computers and cell phones
or the short-haired gents in suits
in downtown skyscrapers
or the hungry ones at our borders?

Brother, look no further
We are the ones our fathers warned us about
the enlightened ones
born to rule the world
through computers that ensure
total isolation and loneliness
Don’t call me I’ll call you
No need for conversation anymore
A casual cynicism is fashionable
and the Twitterati rule

A great sleep
has overtaken everyone
at our handheld machines

The violins of autumn
are heard through the trees
while the white horses of the sea
still dash upon our sands
with a great lost roaring

Lawrence Ferlinghetti

da “Blasts Cries Laughter”, New Directions Publishing, 2014

Senza di te – Angelo Maria Ripellino

Foto di Brett Weston

 

Senza di te gli oggetti mi si spezzano
in una trama di raggi ubriachi.
Le luci si raggelano, la vita
si muta in un sordo monologo.

Mi giro da ogni parte come un gallo
sperduto sulle tegole del mondo.
Come le ali occhiute d’un mulino,
le strade mi ruotano attorno.

Saltello come un passero, impacciato
nelle piccole scarpe rilucenti,
dondolo la testa nello spazio,
marionetta percossa dai venti.

Ti porto in me come la vita,
ti sento in gola come le lacrime.
Senza di te come una vecchia nave
il mio cuore sprofonda negli abissi,
impigliandosi alle alghe del nulla.

Angelo Maria Ripellino

da “Non un giorno ma adesso”, Roma, Grafica, 1960

Silenzio – Charis Vlavianòs

Josef Sudek, The Last Rose

Ο

Quante volte ho creduto di essere riuscito
a farmi trattenere da un verso,
mentre in verità
mi trovavo già sul bordo della pagina,
annullato dalla mia stessa presenza.

Questa poesia è il mio volto:
il volto che hai amato.
Lo cancello con movimenti lenti, fermi.

Resta. Ascolta.
M’incontrerai là dove le parole
(con i fili consunti di una promessa a vuoto)
formano il gomitolo colorato del mio silenzio.
Là dove il lirismo s’inclina
alla realtà crudele del progetto.

La notte, ogni notte,
nasconde un’“alba di rosa”.
Ciò che muore dentro di noi
muore sempre assieme a noi.

Charis Vlavianòs

(Traduzione di Filippomaria Pontani)

(da L’angolo della storia, 1999)

da “Antologia della poesia greca contemporanea”, Crocetti Editore, 2004

∗∗∗

Σιωπή

Ο

Πόσες φορές νόμισα πώς εἶχα ϰατορθώσει
νά ϰρατηθῶ ἀπό ἕναν στίχο,
ἐνῶ στήν πραγματιϰότητα
βρισϰόμουν ἤδη στό περιθώριο τῆς σελίδας,
ϰαταργημένος ἀπό τήν ἴδια μου τήν παρουσία.

Αὐτό τό ποίημα εἶναι τό πρόσωπό μου·
τό πρόσωπο πού ἀγάπησες.
Τό σβήνω μέ ἀργές, σταθερές ϰινήσεις.

Μεῖνε. Ἄϰου.
Θά μέ συναντήσεις ἐϰεῖ πού οἱ λέξεις
(μέ τά ξεφτισμένα νήματα μιᾶς ἀϰυρωμένης ὑπόσχεσης)
φτιάχνουν τό πολύχρωμο ϰουβάρι τῆς σιωπῆς μου.
Ἐϰεῖ πού ὁ λυρισμός ὑποϰλίνεται
στήν ἀμείλιϰτη πραγματιϰότητα τοῦ σχεδίου.

 Ἡ νύχτα, ϰάθε νύχτα,
ϰρύβει μιά “ρόδινη αὐγούλα”.
Ὅ,τι πεθαίνει μέσα μας
πεθαίνει πάντοτε μαζί μοις.

Χάρις Βλαβιανός

da “Ὁ άγγελος τῆς ἱστορίας”, Νεφέλη, 1999

Non t’amo più – Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

Evgenij Evtušenko

 

Non t’amo più… È un finale banale.
Banale come la vita, banale come la morte.
Spezzerò la corda di questa crudele romanza,
farò a pezzi la chitarra: ancora la commedia perché recitare!

Al cucciolo soltanto, a questo mostriciattolo peloso, non è dato capire
perché ti dai tanta pena e perché io faccio altrettanto.
Lo lascio entrare da me, e raschia la tua porta,
lo lasci passare tu, e raschia la mia porta.

C’è da impazzire, con questo dimenìo continuo…
O cane sentimentalone, non sei che un giovanotto.
Ma io non cederò al sentimentalismo.
Prolungar la fine equivale a continuare una tortura.

Il sentimentalismo non è una debolezza, ma un crimine
quando di nuovo ti impietosisci, di nuovo prometti
e provi, con sforzo, a mettere in scena un dramma
dal titolo ottuso «Un amore salvato».

È fin dall’inizio che bisogna difendere l’amore
dai «mai» ardenti e dagli ingenui «per sempre!».
E i treni ci gridavano: «Non si deve promettere!».
E i fili fischiavano: «Non si deve promettere!».

I rami che s’incrinavano e il cielo annerito dal fumo
ci avvertivano, ignoranti presuntuosi,
che è ignoranza l’ottimismo totale,
che per la speranza c’è più posto senza grandi speranze.

È meno crudele agire con sensatezza e giudiziosamente soppesare gli anelli
prima di infilarseli, secondo il principio dei penitenti incatenati.
È meglio non promettere il cielo e dare almeno la terra,
non impegnarsi fino alla morte, ma offrire almeno l’amore d’un momento.

È meno crudele non ripetere «ti amo», quando tu ami.
È terribile dopo, da quelle stesse labbra
sentire un suono vuoto, la menzogna, la beffa, la volgarità
quando il mondo falsamente pieno, apparirà falsamente vuoto.

Non bisogna promettere… L’amore è inattuabile.
Perché condurre all’inganno, come a nozze?
La visione è bella finché non svanisce.
È meno crudele non amare, quando dopo viene la fine.

Guaisce come impazzito il nostro povero cane,
raspando con la zampa ora la mia, ora la tua porta.
Non ti chiedo perdono per non amarti più.
Perdonami d’averti amato.

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

1966

(Traduzione di Sandra Grotoff)

da “Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, Poesie”, Newton Compton, 1972

∗∗∗

Я разлюбил тебя…

Я разлюбил тебя… Банальная развязка.
Банальная, как жизнь, банальная, как смерть.
Я оборву струну жестокого романса,
гитару пополам — к чему ломать комедь!

Лишь не понять щенку — лохматому уродцу,
чего ты так мудришь, чего я так мудрю.
Его впущу к себе — он в дверь твою скребётся,
а впустишь ты его — скребётся в дверь мою.

Пожалуй, можно так с ума сойти, метаясь…
Сентиментальный пёс, ты попросту юнец.
Но не позволю я себе сентиментальность.
Как пытку продолжать — затягивать конец.

Сентиментальным быть не слабость — преступленье,
когда размякнешь вновь, наобещаешь вновь
и пробуешь, кряхтя, поставить представленье
с названием тупым «Спасённая любовь».

Спасать любовь пора уже в самом начале
от пылких «никогда!», от детских «навсегда!».
«Не надо обещать!» — нам поезда кричали,
«Не надо обещать!» — мычали провода.

Надломленность ветвей и неба задымлённость
предупреждали нас, зазнавшихся невежд,
что полный оптимизм — есть неосведомлённость,
что без больших надежд — надёжней для надежд.

Гуманней трезвым быть и трезво взвесить звенья,
допрежь чем их надеть,— таков закон вериг.
Не обещать небес, но дать хотя бы землю.
До гроба не сулить, но дать хотя бы миг.

Гуманней не твердить «люблю…», когда ты любишь.
Как тяжело потом из этих самых уст
услышать звук пустой, враньё, насмешку, грубость,
и ложно полный мир предстанет ложно пуст.

Не надо обещать… Любовь — неисполнимость.
Зачем же под обман вести, как под венец?
Виденье хорошо, пока не испарилось.
Гуманней не любить, когда потом — конец.

Скулит наш бедный пёс до умопомраченья,
то лапой в дверь мою, то в дверь твою скребя.
За то, что разлюбил, я не прошу прощенья.
Прости меня за то, что я любил тебя.

Евгений Александрович Евтушенко

1966

da “Евгений Александрович Евтушенко, Стихотворения и поэмы”, Volume 1, Советская Россия, 1987

Congedi – Gesualdo Bufalino

Foto di Nastya Kaletkina

1.

L’angelo cieco ha gridato
sulla tua fronte acerba, si dibatte
l’erba nel vento come un mare.

O statura delusa, e la foglia
guasta t’adorna, il tribolo confina
col tuo capo murato.

Inutile eri e stupenda,
guardavi sulle selci rosse del greto
forsennato il cavallo splendere.

Ora non ho che la tua voce
che folta trasogna e si dispera
nel mio sonno, talvolta.

2.

Passerà sul tuo petto il ferro dei convogli,
e uomini, cantando: è dolce
questa fine d’annata che si spoglia
adagio sulla tua bocca sepolta.

Dolce è la pioggia, ma tu non la senti,
tu piú non senti né pioggia né sole:
come un giornale invecchi e inutilmente
io vado fra me stesso di te dicendo parole.

3.

Venire nel tuo povero reame
quest’inverno, senza rumore,
sentendo d’un tratto nel cuore
la morte come una fame.

Fra i tanti occhi algidi e brulli
trovare i tuoi che mi trovano,
indovinare le tue labbra nuove
sulle mie labbra di terra e di nulla.

E insieme ancora aspettare laggiú,
al traghetto d’un fiume bruno,
come una volta nel quarantuno,
chissà dove, chi lo sa piú.

4.

Oggi d’uccelli cosí spoglio il cielo
parla soltanto con voce di vento,
soffio randagio di foglie infelici,
forestiero lamento che mi cerca.
Sei tu? Non è già tardi per dischiudere
come una volta il mio stipite freddo
al tuo viso che adagio disimparo,
dai grandi occhi di cieca, che precipita
sempre piú giú, per una cruna grigia
di caligine e sonno? Non rispondi,
nemmeno sei quest’alito che torna
a scompigliare inatteso lo sciame
di percalli e di sciarpe; e si scancella
l’alterigia soave del tuo sangue
in un velario di ruggine, funebri
esosi orpelli macchiano gli specchi.
Cosí s’adempie il patto. Piú nessuno
saprà di te ch’era la luna il lembo
della tua veste verde e ne balzavi
con la nuca di luce e il grembo tiepido
rapita al grido dei binari. Io solo
resto per poco al tuo nome d’allora.
Tu dormi, fioca isola di carne,
nella terra nemica e non rammenti.

5.

Una foglia fugace mi si posi sul volto,
e io ripenso un giorno senza sole,
e noi stanchi d’amarci e pieni di parole,
come chi recita la prima volta.

Andavamo nel vento allacciati e furenti
fra due filari di scialbo mattino,
odiandoci e piangendo come bambini.
Volevamo morire, te ne rammenti?

E ora dove sei, che ne è stato di noi,
dei tuoi capelli lisci che il vento turbava?
Io non so piú ritrovare la strada,
dove tu sottoterra dolcemente t’annoi.

6.

Fra croce e croce di pietra nera
un battito di rondine
se s’adira fuggiasco fa bufera
di cielo al buio che ti fascia gli occhi.
Ne tremi, poi piú sordo
odi crescere il rombo di frana
sul tuo capo, e il ricordo come un mare.

7.

Fu una donna nel tempo sereno
che mi venne con mani di demente,
e mi perse la mente sul suo seno.

Di roccia e d’aria passavano nuvole
sul nostri corpi congiunti, dormivo
nei suoi capelli chiusi
come entro un inutile diluvio.

Ancora le sue labbra ascolto,
falce barbara e nuda;
diaccio come uno scudo,
il suo volto mi guarda.

8.

E da te m’accomiato,
piccolo viso di donna, e la voce
che sul mio cuore curvavi
piú non udrò come un prato
stormire, e la strada non ha
che muri muri e logori asfodeli
nel territorio dove non ti trovo.

Ritorna a piovere sulle tue labbra,
sulle tue povere ali recise,
sulle domeniche verdi e perdute…
Un elenco di numeri mi resta:
21 luglio, 13 agosto,
K. 304 ad occhi chiusi;
e cartoline morte in un cassetto.

Ah donna donna, dovunque tu sia,
dalla tua stella d’eterno fumo,
dimmi il tuo nome, sii di nuovo un nome,
rovescia il senso della ruota, scavalca
mille leghe di niente con un sorriso,
ripassa il fiume, torna accanto a me,
quando annotta ritrovami la mano…

Gesualdo Bufalino

da “Annali del malanno”, in “Gesualdo Bufalino, Opere: 1 [1981, 1988]”, Bompiani, 2006