Sporco, malvestito – Roberto Bolaño

Roberto Bolaño

 

Sulla strada dei cani la mia anima incontrò
il mio cuore. A pezzi, ma vivo,
sporco, malvestito e pieno d’amore.
Sulla strada dei cani, là dove non vuole andar nessuno.
Una strada che prendono solo i poeti
quando non gli resta altro da fare.
Ma io avevo ancora tante cose da fare!
Eppure ero lì: a farmi ammazzare
dalle formiche rosse e anche
dalle formiche nere, a girare per i villaggi
vuoti: lo spavento che saliva
fino a toccare le stelle.
Un cileno formato in Messico può sopportare di tutto,
pensavo, ma non era vero.
Di notte il mio cuore piangeva. Il fiume dell’essere, dicevano
due labbra febbricitanti che poi scoprii erano le mie,
il fiume dell’essere, il fiume dell’essere, l’estasi
che si ripiega sulla riva di questi villaggi abbandonati.
Sommolisti e teologi, indovini
e briganti di strada emersero
come realtà acquatiche in mezzo a una realtà metallica.
Solo la febbre e la poesia danno le visioni.
Solo l’amore e la memoria.
Non queste strade né queste pianure.
Non questi labirinti.
Poi la mia anima finalmente incontrò il mio cuore.
Era malato, è vero, ma era vivo.
Sognai dei detective gelati nel grande
frigorifero di Los Angeles
nel grande frigorifero di Città del Messico.

Roberto Bolaño

(Traduzione di Ilide Carmignani)

da “I cani romantici”, Edizioni SUR, 2018

∗∗∗

Sucio, mal vestido

En el camino de los perros mi alma encontró
a mi corazón. Destrozado, pero vivo,
sucio, mal vestido y lleno de amor.
En el camino de los perros, allí donde no quiere ir nadie.
Un camino que sólo recorren los poetas
cuando ya no les queda nada por hacer.
¡Pero yo tenía tantas cosas que hacer todavía!
Y sin embargo allí estaba: haciéndome matar
por las hormigas rojas y también
por las hormigas negras, recorriendo las aldeas
vacías: el espanto que se elevaba
hasta tocar las estrellas.
Un chileno educado en México lo puede soportar todo,
pensaba, pero no era verdad.
Por las noches mi corazón lloraba. El río del ser, decían
unos labios afiebrados que luego descubrí eran los míos,
el río del ser, el río del ser, el éxtasis
que se pliega en la ribera de estas aldeas abandonadas.
Sumulistas y teólogos, adivinadores
y salteadores de caminos emergieron
como realidades acuáticas en medio de una realidad metálica.
Sólo la fiebre y la poesía provocan visiones.
Sólo el amor y la memoria.
No estos caminos ni estas llanuras.
No estos laberintos.
Hasta que por fin mi alma encontró a mi corazón.
Estaba enfermo, es cierto, pero estaba vivo.
Soñé con detectives helados en el gran
refrigerador de Los Ángeles
en el gran refrigerador de México D.F.

Roberto Bolaño

da “Los perros románticos”, Barcelona, Acantilado, 2006

Cima – Gabriela Mistral

Joseph Mallord Turner, Sunset, 1835

 

L’ora del tramonto, l’ora che riversa
il suo sangue sulle montagne.

Qualcuno in quest’ora sta soffrendo;
piena d’angoscia, una donna sta perdendo
in questo crepuscolo il solo petto
a cui s’abbandonava.

C’è qualche cuore nel quale annega
la sera quella cima insanguinata.

La valle riposa già nell’ombra
e si colma di sereno.
Ma dal profondo guarda
accendersi di rosso la montagna.

Sempre, in quest’ora, intono
la mia immutabile canzone di dolore.
Sarò io forse che inondo
la cima di scarlatto?

Poggio la mano sul cuore, e sento
che gronda il mio costato.

Gabriela Mistral

(Traduzione di Dante Maffia)

dalla rivista “Poesia”, Anno IX, Novembre 1996, N. 100, Crocetti Editore

***

Cima

La hora de la tarde, la que pone
su sangre en las montañas.

Alguien en esta hora está sufriendo;
una pierde, angustiada,
en este atardecer el solo pecho
contra el cual estrechaba.

Hay algún corazón en donde moja
la tarde aquella cima ensangrentada.

El valle ya está en sombra
y se llena de calma.
Pero mira de lo hondo que se enciende
de rojez la montaña.

Yo me pongo a cantar siempre a esta hora
mi invariable canción atribulada.

¿Será yo la que baño
la cumbre de escarlata?

Llevo a mi corazón la mano, y siento
que mi costado mana.

Gabriela Mistral

1922

da “Poesía y prosa”, Fundacion Biblioteca Ayacuch, 1993

Mattino – Roberto Bolaño

Roberto Bolaño

 

Credimi, sono al centro della mia stanza
in attesa che piova. Sono solo. Non m’importa
di finire o meno la mia poesia. Aspetto la pioggia,
bevendo il caffè e guardando dalla finestra un bel paesaggio
di cortili interni, con panni stesi e immobili,
silenziosi panni di marmo nella città, dove non esiste
il vento e in lontananza si sente solo il ronzio
di una televisione a colori, guardata da una famiglia
che a quest’ora, come me, beve il caffè riunita intorno
a un tavolo: credimi: i tavoli di plastica gialla
si moltiplicano fino alla linea dell’orizzonte e oltre:
verso le periferie dove si costruiscono palazzi
di appartamenti, e un ragazzo di 16 anni seduto su
mattoni rossi osserva il movimento dei macchinari.
Il cielo nell’ora del ragazzo è un’enorme
vite cava con cui gioca la brezza. E il ragazzo
gioca con le idee. Con le idee e con scene bloccate.
L’immobilità è una nebbia trasparente e dura
che gli spunta dagli occhi.
Credimi: non sarà l’amore ad arrivare,
ma la bellezza con la sua stola di albe morte.

Roberto Bolaño

(Traduzione di Ilide Carmignani)

da “L’Università Sconosciuta”, SUR, 2020

∗∗∗

Amenecer

Créeme, estoy en el centro de mi habitación
esperando que llueva. Estoy solo. No me importa
terminar o no mi poema. Espero la lluvia,
tomando café y mirando por la ventana un bello paisaje
de patios interiores, con ropas colgadas y quietas,
silenciosas ropas de mármol en la ciudad, donde no existe
el viento y a lo lejos sólo se escucha el zumbido
de una televisión en colores, observada por una familia
que también, a esta hora, toma café reunida alrededor
de una mesa: créeme: las mesas de plástico amarillo
se desdoblan hasta la línea del horizonte y más allá:
hacia los suburbios donde construyen edificios
de departamentos, y un muchacho de 16 sentado sobre
ladrillos rojos contempla el movimiento de las máquinas.
El cielo en la hora del muchacho es un enorme
tornillo hueco con el que la brisa juega. Y el muchacho
juega con ideas. Con ideas y escenas detenidas.
La inmovilidad es una neblina transparente y dura
que sale de sus ojos.
Créeme: no es el amor el que va a venir,
sino la belleza con su estola de albas muertas.

Roberto Bolaño

da “La Universidad Desconocida”, Editorial Anagrama, 2007

Una passeggiata nella letteratura – Roberto Bolaño

a Rodrigo Pinto e Andrés Neuman

1. Ho sognato che Georges Perec aveva tre anni e veniva a trovarmi a casa. Lo abbracciavo, lo baciavo, gli dicevo che era un bambino bellissimo.

2. Siamo rimasti a metà, padre, né cotti né crudi, persi nella grandezza di questa discarica interminabile, errando e sbagliando, ammazzando e chiedendo perdono, maniaco-depressivi nel tuo sogno, padre, il tuo sogno che non aveva limiti e che abbiamo sviscerato mille volte e poi altre mille, come detective latinoamericani persi in un labirinto di cristallo e fango, viaggiando sotto la pioggia, vedendo film dove c’erano vecchi che gridavano tornado! tornado!, guardando le cose per l’ultima volta, ma senza vederle, come spettri, come rane in fondo a un pozzo, padre, persi nella miseria del tuo sogno utopico, persi nella varietà delle tue voci e dei tuoi abissi, maniaco-depressivi nell’immensa sala dell’Inferno dove si cucina il tuo Umore.

3. A metà, né crudi né cotti, bipolari capaci di cavalcare l’uragano.

4. In queste desolazioni, padre, dove della tua risata rimanevano solo resti archeologici.

5. Noi, quelli nec spes nec metus.

6. E qualcuno disse:

Sorella della nostra memoria feroce,
del coraggio è meglio non parlare.
Chi ha saputo vincere la paura
è diventato coraggioso per sempre.
Balliamo, allora, mentre passa la notte
come una gigantesca scatola da scarpe
sopra la scogliera e la terrazza,
in una piega della realtà, del possibile,
lì dove la gentilezza non è un’eccezione.
Balliamo nel riflesso incerto
dei detective latinoamericani,
una pozza di pioggia dove si riflettono i nostri volti
ogni dieci anni.

Poi è arrivato il sogno.

7. Allora ho sognato che facevo visita al palazzo di Alonso de Ercilla. Avevo sessant’anni ed ero a pezzi per la malattia (cadevo letteralmente a pezzi). Ercilla ne aveva una novantina e agonizzava in un enorme letto a baldacchino. Il vecchio mi guardava sprezzante e poi mi chiedeva un bicchiere d’acquavite. Io cercavo e cercavo l’acquavite ma trovavo solo finimenti per cavalli.

8. Ho sognato che stavo camminando sul lungomare di New York e vedevo in lontananza la figura di Manuel Puig. Aveva una camicia celeste e dei pantaloni di tela leggera, blu chiaro o blu scuro, dipende.

9. Ho sognato che Macedonio Fernández appariva nel cielo di New York sotto forma di nuvola: una nuvola senza naso né orecchie, ma con occhi e bocca.

10. Ho sognato che ero su una strada africana che di colpo si trasformava in una strada messicana. Seduto su un faraglione, Efraín Huerta giocava a dadi con i poeti mendicanti del DF.

11. Ho sognato che in un cimitero africano dimenticato trovavo la tomba di un amico di cui non riuscivo più a ricordare il volto.

12. Ho sognato che un pomeriggio bussavano alla porta di casa mia. Stava nevicando. Io non avevo né stufa né soldi. Credo che stessero per tagliarmi anche la luce. E chi c’era alla porta? Enrique Lihn con una bottiglia di vino, un pacchetto di roba da mangiare e un assegno dell’Università Sconosciuta.

13. Ho sognato che leggevo Stendhal nella Centrale Nucleare di Civitavecchia: un’ombra scivolava sopra la ceramica dei reattori. È il fantasma di Stendhal, diceva un giovane con gli stivali e a torso nudo. E tu chi sei?, gli chiedevo. Sono il tossico della ceramica, l’ussaro della ceramica e della merda, diceva lui.

14. Ho sognato che stavo sognando, avevamo perso la rivoluzione ancora prima di farla e decidevo di tornare a casa. Quando volevo mettermi a letto ci trovavo De Quincey che dormiva. Si svegli, don Tomás, gli dicevo, è quasi l’alba, deve andarsene. (Come se De Quincey fosse un vampiro.) Ma nessuno mi ascoltava e uscivo di nuovo nelle strade buie di Città del Messico.

15. Ho sognato che vedevo Aloysius Bertrand nascere e morire lo stesso giorno, quasi senza interruzione, come se vivessimo entrambi in un calendario di pietra perso nello spazio.

16. Ho sognato che ero un detective vecchio e malato. Così malato che cadevo letteralmente a pezzi. Ero sulle tracce di Gui Rosey. Camminavo per i quartieri di un porto che poteva essere Marsiglia oppure no. Alla fine un vecchio cinese affabile mi portava in un seminterrato. Ecco cosa resta di Rosey, diceva. Un mucchiettino di cenere. Così com’è, potrebbe essere Li Po, gli rispondevo.

17. Ho sognato che ero un detective vecchio e malato e che cercavo gente scomparsa da tempo. A volte mi vedevo per caso in uno specchio e riconoscevo Roberto Bolaño.

18. Ho sognato che Archibald McLeish piangeva – appena tre lacrime – sulla terrazza di un ristorante di Cape Cod. Era mezzanotte passata e benché io non sapessi come rientrare finivamo a bere e a brindare all’Indomito Nuovo Mondo.

19. Ho sognato i Cadaveri e le Spiagge Dimenticate.

20. Ho sognato che il morto tornava alla Terra Promessa in sella a una Legione di Tori Meccanici.

21. Ho sognato che avevo quattordici anni e che ero l’ultimo essere umano dell’Emisfero Sud a leggere i fratelli Goncourt.

22. Ho sognato che incontravo Gabriela Mistral in un villaggio africano. Era un po’ dimagrita e aveva preso l’abitudine di dormire seduta per terra con la testa sulle ginocchia. Perfino le zanzare sembravano conoscerla.

23. Ho sognato che tornavo dall’Africa su un pullman pieno di animali morti. A una qualche frontiera compariva un veterinario senza volto. La faccia era come gas, ma io sapevo chi era.

24. Ho sognato che Philip K. Dick passeggiava per la Centrale Nucleare di Civitavecchia.

25. Ho sognato che Archiloco attraversava un deserto di ossa umane. Si incoraggiava da solo: «Su, Archiloco, non ti perdere d’animo, avanti, avanti».

26. Ho sognato che avevo quindici anni e che andavo a casa di Nicanor Parra per dirgli addio. Lo trovavo in piedi, appoggiato a una parete nera. Dove vai, Bolaño?, diceva. Lontano dall’Emisfero Sud, gli rispondevo.

27. Ho sognato che avevo quindici anni e che, in effetti, me ne andavo dall’Emisfero Sud. Quando mettevo nello zaino l’unico libro che avevo (Trilce, di Vallejo), questo prendeva fuoco. Erano le sette di sera e gettavo il mio zaino bruciacchiato fuori dalla finestra.

28. Ho sognato che avevo sedici anni e che Martín Adán mi dava lezioni di piano. Le dita del vecchio, lunghe come quelle di Mister Fantastic, l’Uomo di Gomma, sprofondavano nel terreno e suonavano i tasti di una catena di vulcani sotterranei.

29. Ho sognato che traducevo Virgilio con una pietra. Ero nudo su una grande lastra di basalto e il sole, come dicono i piloti dei caccia, fluttuava pericolosamente a ore cinque.

30. Ho sognato che stavo morendo in un cortile africano e che un poeta di nome Paulin Joachim mi parlava in francese (capivo solo frammenti come «la consolazione», «il tempo», «gli anni che verranno») mentre una scimmia impiccata dondolava dal ramo di un albero.

31. Ho sognato che era la fine del mondo. E che l’unico essere umano a osservarla era Franz Kafka. Nel cielo i Titani lottavano fino alla morte. Da una panchina di ferro battuto nel parco di New York Kafka vedeva ardere il mondo.

32. Ho sognato che stavo sognando e che tornavo a casa troppo tardi. Nel letto trovavo Mario de Sá-Carneiro che dormiva col mio primo amore. Quando sollevavo le coperte vedevo che erano morti e mordendomi le labbra fino a farle sanguinare tornavo sulle strade secondarie.

33. Ho sognato che Anacreonte costruiva il suo castello sulla cima di una collina brulla e poi lo distruggeva.

34. Ho sognato che ero un detective latinoamericano molto vecchio. Vivevo a New York e Mark Twain mi ingaggiava per salvare la vita a uno che non aveva volto. Sarà un caso maledettamente difficile, signor Twain, gli dicevo.

35. Ho sognato che mi innamoravo di Alice Sheldon. Lei non mi amava. Così cercavo di farmi ammazzare in tre continenti. Passavano gli anni. Alla fine, quando ormai ero molto vecchio, lei appariva in fondo al lungomare di New York e a gesti (come quelli che si fanno sulle portaerei per far atterrare i piloti) mi diceva che mi aveva sempre amato.

36. Ho sognato che facevo un 69 con Anaïs Nin sopra un un’enorme lastra di basalto.

37. Ho sognato che nella primavera del 1981 scopavo con Carson McCullers in una stanza in penombra. Ed eravamo irrazionalmente felici.

38. Ho sognato che tornavo nel mio vecchio liceo e che Alphonse Daudet era il mio professore di francese. Qualcosa di impercettibile ci faceva capire che stavamo sognando. Daudet guardava in continuazione fuori dalla finestra e fumava la pipa di Tartarino.

39. Ho sognato che mi addormentavo mentre i miei compagni di liceo cercavano di liberare Robert Desnos dal campo di concentramento di Terezín. Quando mi svegliavo una voce mi ordinava di muovermi. Svelto, Bolaño, svelto, non c’è tempo da perdere. Quando arrivavo c’era solo un vecchio detective a frugare nelle rovine fumanti dell’assalto.

40. Ho sognato che una tempesta di numeri spettrali era l’unica cosa che restava degli esseri umani tremila milioni di anni dopo che la Terra aveva cessato di esistere.

41. Ho sognato che stavo sognando e che nei tunnel dei sogni trovavo il sogno di Roque Dalton: il sogno dei coraggiosi che erano morti per una chimera di merda.

42. Ho sognato che avevo diciott’anni e vedevo il mio migliore amico di allora, diciottenne anche lui, che faceva l’amore con Walt Whitman. Lo facevano su una poltrona, contemplando il tramonto burrascoso di Civitavecchia.

43. Ho sognato che ero in carcere e che il mio compagno di cella era Boezio. Guarda, Bolaño, diceva allungando la mano e la penna nella semioscurità: non tremano!, non tremano! (Dopo un po’ aggiungeva con voce tranquilla: ma tremeranno appena riconoscono quello stronzo di Teodorico.)

44. Ho sognato che traducevo il marchese de Sade a colpi d’ascia. Ero impazzito e vivevo in un bosco.

45. Ho sognato che Pascal parlava della paura con parole cristalline in un’osteria di Civitavecchia: «I miracoli non servono a convertire, ma a condannare», diceva.

46. Ho sognato che ero un vecchio detective latinoamericano e che una Fondazione misteriosa mi incaricava di trovare i certificati di morte dei Sudacas Voladores. Andavo in tutto il mondo: ospedali, campi di battaglia, rivendite di pulque, scuole abbandonate.

47. Ho sognato che Baudelaire faceva l’amore con un’ombra in una stanza dove era stato commesso un delitto. Ma a Baudelaire non importava. È sempre così, diceva.

48. Ho sognato che un’adolescente di sedici anni entrava nel tunnel dei sogni e ci svegliava con due tipi di bastone. La ragazzina viveva in un manicomio e diventava via via sempre più pazza.

49. Ho sognato che sulle diligenze che entravano e uscivano da Civitavecchia vedevo il volto di Marcel Schwob. La visione era fugace. Un volto quasi traslucido, con gli occhi stanchi, pieno di felicità e di dolore.

50. Ho sognato che dopo la tempesta uno scrittore russo e anche i suoi amici francesi optavano per la felicità. Senza domandare né chiedere nulla. Come chi crolla privo di sensi sul suo tappeto preferito.

51. Ho sognato che i sognatori erano partiti per la guerra fiorita. Nessuno era più tornato. Nelle bacheche di caserme dimenticate sulle montagne riuscivo a leggere alcuni nomi. Da un luogo remoto una voce trasmetteva più volte le consegne per cui erano stati condannati.

52. Ho sognato che il vento muoveva l’insegna cadente di un’osteria. Dentro, James Matthew Barrie giocava a dadi con cinque signori minacciosi.

53. Ho sognato che ritornavo sulle strade, stavolta però non avevo quindici anni ma più di quaranta. Possedevo soltanto un libro, che portavo nel mio zainetto. Di colpo, mentre camminavo, il libro andava a fuoco. Albeggiava e quasi non passavano automobili. Mentre gettavo lo zaino bruciacchiato in un fosso sentivo che la schiena mi pizzicava come se avessi le ali.

54. Ho sognato che le strade d’Africa erano piene di cercatori d’oro, bandeirantes, sommolisti.

55. Ho sognato che nessuno muore alla vigilia.

56. Ho sognato che un uomo voltava lo sguardo indietro, sul paesaggio anamorfico dei sogni, e che il suo sguardo era duro come l’acciaio ma si frammentava lo stesso in sguardi multipli sempre più innocenti, sempre più inermi.

57. Ho sognato che Georges Perec aveva tre anni e piangeva sconsolatamente. Io cercavo di calmarlo. Lo prendevo in braccio, gli compravo dei dolciumi, dei libri da colorare. Poi andavamo sul lungomare di New York e mentre lui giocava sullo scivolo io mi dicevo: non sono buono a nulla, ma saprò prendermi cura di te, nessuno ti farà del male, nessuno cercherà di ucciderti. Poi si metteva a piovere e tornavamo tranquillamente a casa. Ma dov’era la nostra casa?

BLANES, 1994

 Roberto Bolaño 

(Traduzione di Ilide Carmignani)

da “Tre”, Sur, 2017

∗∗∗

Un paseo por la literatura

para Rodrigo Pinto y Andrés Neuman

1. Soñé que Georges Perec tenía tres años y visitaba mi casa. Lo abrazaba, lo besaba, le decía que era un niño precioso.

2. A medio hacer quedamos, padre, ni cocidos ni crudos, perdidos en la grandeza de este basural interminable, errando y equivocándonos, matando y pidiendo perdón, maniacos depresivos en tu sueño, padre, tu sueño que no tenía límites y que hemos desentrañado mil veces y luego mil veces más, como detectives latinoamericanos perdidos en un laberinto de cristal y barro, viajando bajo la lluvia, viendo películas donde aparecían viejos que gritaban ¡tornado! ¡tornado!, mirando las cosas por última vez, pero sin verlas, como espectros, como ranas en el fondo de un pozo, padre, perdidos en la miseria de tu sueño utópico, perdidos en la variedad de tus voces y de tus abismos, maniacos depresivos en la inabarcable sala del Infierno donde se cocina tu Humor.

3. A medio hacer, ni crudos ni cocidos, bipolares capaces de cabalgar el huracán.

4. En estas desolaciones, padre, donde de tu risa sólo quedaban restos arqueológicos.

5. Nosotros, los nec spes nec metus.

6. Y alguien dijo:

Hermana de nuestra memoria feroz,
sobre el valor es mejor no hablar.
Quien pudo vencer el miedo
se hizo valiente para siempre.
Bailemos, pues, mientras pasa la noche
como una gigantesca caja de zapatos
por encima del acantilado y la terraza,
en un pliegue de la realidad, de lo posible,
en donde la amabilidad no es una excepción.
Bailemos en el reflejo incierto
de los detectives latinoamericanos,
un charco de lluvia donde se reflejan nuestros rostros
cada diez años.
Después llegó el sueño.

7. Soñé entonces que visitaba la mansión de Alonso de Ercilla. Yo tenía sesenta años y estaba despedazado por la enfermedad (literalmente me caía a pedazos). Ercilla tenía unos noventa y agonizaba en una enorme cama con dosel. El viejo me miraba desdeñoso y después me pedía un vaso de aguardiente. Yo buscaba y rebuscaba el aguardiente pero sólo encontraba aperos de montar.

8. Soñé que iba caminando por el Paseo Marítimo de Nueva York y veía a lo lejos la figura de Manuel Puig. Llevaba una camisa celeste y unos pantalones de lona ligera, azul claro o azul oscuro, depende.

9. Soñé que Macedonio Fernández aparecía en el cielo de Nueva York en forma de nube: una nube sin nariz ni orejas, pero con ojos y boca.
 
10. Soñé que estaba en un camino de África que de pronto se transformaba en un camino de México. Sentado en un farellón, Efraín Huerta jugaba a los dados con los poetas mendicantes del DF.

11. Soñé que en un cementerio olvidado de África encontraba la tumba de un amigo cuyo rostro ya no podía recordar.

12. Soñé que una tarde golpeaban la puerta de mi casa. Estaba nevando. Yo no tenía estufa ni dinero. Creo que hasta la luz me iban a cortar. ¿Y quién estaba al otro lado de la puerta? Enrique Lihn con una botella de vino, un paquete de comida y un cheque de la Universidad Desconocida.
 
13. Soñé que leía a Stendhal en la Estación Nuclear de Civitavecchia: una sombra se deslizaba por la cerámica de los reactores. Es el fantasma de Stendhal decía un joven con botas y desnudo de cintura para arriba. ¿Y tú quién eres?, le pregunté. Soy el yonqui de la cerámica, el húsar de la cerámica y de la mierda, dijo.
 
14. Soñé que estaba soñando, habíamos perdido la revolución antes de hacerla y decidía volver a casa. Al intentar meterme en la cama encontraba a De Quincey durmiendo. Despierte, don Tomás, le decía, ya va a amanecer, tiene que irse. (Como si De Quincey fuera un vampiro.) Pero nadie me escuchaba y volvía a salir a las calles oscuras de México DF.
 
15. Soñé que veía nacer y morir a Aloysius Bertrand el mismo día, casi sin intervalo de tiempo, como si los dos viviéramos dentro de un calendario de piedra perdido en el espacio.

16. Soñé que era un detective viejo y enfermo. Tan enfermo que literalmente me caía a pedazos. Iba tras las huellas de Gui Rosey. Caminaba por los barrios de un puerto que podía ser Marsella o no. Un viejo chino afable me conducía finalmente a un sótano. Esto es lo que queda de Rosey, decía. Un pequeño montón de cenizas. Tal como está, podría ser Li Po, le contestaba.

17. Soñé que era un detective viejo y enfermo y que buscaba gente perdida hace tiempo. A veces me miraba casualmente en un espejo y reconocía a Roberto Bolaño.
 
18. Soñé que Archibald McLeish lloraba – apenas tres lágrimas – en la terraza de un restaurante de Cape Code. Era más de medianoche y pese a que yo no sabía cómo volver terminábamos bebiendo y brindando por el Indómito Nuevo Mundo.

19. Soñé con los Fiambres y las Playas Olvidadas.

20. Soñé que el cadáver volvía a la Tierra Prometida montado en una Legión de Toros Mecánicos.
 
21. Soñé que tenía catorce años y que era el último ser humano del Hemisferio Sur que leía a los hermanos Goncourt.

22. Soñé que encontraba a Gabriela Mistral en una aldea africana. Había adelgazado un poco y adquirido la costumbre de dormir sentada en el suelo con la cabeza sobre las rodillas. Hasta los mosquitos parecían conocerla.

23. Soñé que volvía de África en un autobús lleno de animales muertos. En una frontera cualquiera aparecía un veterinario sin rostro. Su cara era como un gas, pero yo sabía quién era.
 
24. Soñé que Philip K. Dick paseaba por la Estación Nuclear de Civitavecchia.

25. Soñé que Arquíloco atravesaba un desierto de huesos humanos. Se daba ánimos a sí mismo: «Vamos, Arquíloco, no desfallezcas, adelante, adelante».
 
26. Soñé que tenía quince años y que iba a la casa de Nicanor Parra a despedirme. Lo encontraba de pie, apoyado en una pared negra. ¿Adónde vas, Bolaño?, decía. Lejos del Hemisferio Sur, le contestaba.

27. Soñé que tenía quince años y que, en efecto, me marchaba del Hemisferio Sur. Al meter en mi mochila el único libro que tenía (Trilce, de Vallejo), éste se quemaba. Eran las siete de la tarde y yo arrojaba mi mochila chamuscada por la ventana.
 
28. Soñé que tenía dieciséis y que Martín Adán me daba clases de piano. Los dedos del viejo, largos como los del Fantástico Hombre de Goma, se hundían en el suelo y tecleaban sobre una cadena de volcanes subterráneos.
 
29. Soñé que traducía a Virgilio con una piedra. Yo estaba desnudo sobre una gran losa de basalto y el sol, como decían los pilotos de caza, flotaba peligrosamente a las 5.

30. Soñé que estaba muriéndome en un patio africano y que un poeta llamado Paulin Joachim me hablaba en francés (sólo entendía fragmentos como «el consuelo», «el tiempo», «los años que vendrán») mientras un mono ahorcado se balanceaba de la rama de un árbol.
 
31. Soñé que la Tierra se acababa. Y que el único ser humano que contemplaba el final era Franz Kafka. En el cielo los Titanes luchaban a muerte. Desde un asiento de hierro forjado del parque de Nueva York Kafka veía arder el mundo.

32. Soñé que estaba soñando y que volvía a mi casa demasiado tarde. En mi cama encontraba a Mario de Sá-Carneiro durmiendo con mi primer amor. Al destaparlos descubría que estaban muertos y mordiéndome los labios hasta hacerme sangre volvía a los caminos vecinales.

33. Soñé que Anacreonte construía su castillo en la cima de una colina pelada y luego lo destruía.
 
34. Soñé que era un detective latinoamericano muy viejo. Vivía en Nueva York y Mark Twain me contrataba para salvarle la vida a alguien que no tenía rostro. Va a ser un caso condenadamente difícil, señor Twain, le decía.

35. Soñé que me enamoraba de Alice Sheldon. Ella no me quería. Así que intentaba hacerme matar en tres continentes. Pasaban los años. Por fin, cuando ya era muy viejo, ella aparecía por el otro extremo del Paseo Marítimo de Nueva York y mediante señas (como las que hacían en los portaaviones para que los pilotos aterrizaran) me decía que siempre me había querido.
 
36. Soñé que hacía un 69 con Anaïs Nin sobre una enorme losa de basalto.

37. Soñé que follaba con Carson McCullers en una habitación en penumbras en la primavera de 1981. Y los dos nos sentíamos irracionalmente felices.
 
38. Soñé que volvía a mi viejo Liceo y que Alphonse Daudet era mi profesor de francés. Algo imperceptible nos indicaba que estábamos soñando. Daudet miraba a cada rato por la ventana y fumaba la pipa de Tartarín.

39. Soñé que me quedaba dormido mientras mis compañeros de Liceo intentaban liberar a Robert Desnos del campo de concentración de Terezin. Cuando despertaba una voz me ordenaba que me pusiera en movimiento. Rápido, Bolaño, rápido, no hay tiempo que perder. Al llegar sólo encontraba a un viejo detective escarbando en las ruinas humeantes del asalto.
 
40. Soñé que una tormenta de números fantasmales era lo único que quedaba de los seres humanos tres mil millones de años después de que la Tierra hubiera dejado de existir.

41. Soñé que estaba soñando y que en los túneles de los sueños encontraba el sueño de Roque Dalton: el sueño de los valientes que murieron por una quimera de mierda.
 
42. Soñé que tenía dieciocho años y que veía a mi mejor amigo de entonces, que también tenía dieciocho, haciendo el amor con Walt Whitman. Lo hacían en un sillón, contemplando el atardecer borrascoso de Civitavecchia.

43. Soñé que estaba preso y que Boecio era mi compañero de celda. Mira, Bolaño, decía extendiendo la mano y la pluma en la semioscuridad: ¡no tiemblan!, ¡no tiemblan! (Después de un rato, añadía con voz tranquila: pero temblarán cuando reconozcan al cabrón de Teodorico.)

44. Soñé que traducía al Marqués de Sade a golpes de hacha. Me había vuelto loco y vivía en un bosque.
 
45. Soñé que Pascal hablaba del miedo con palabras cristalinas en una taberna de Civitavecchia: «Los milagros no sirven para convertir, sino para condenar», decía.
 
46. Soñé que era un viejo detective latinoamericano y que una Fundación misteriosa me encargaba encontrar las actas de defunción de los Sudacas Voladores. Viajaba por todo el mundo: hospitales, campos de batalla, pulquerías, escuelas abandonadas.

47. Soñé que Baudelaire hacía el amor con una sombra en una habitación donde se había cometido un crimen. Pero a Baudelaire no le importaba. Siempre es lo mismo, decía.
 
48. Soñé que una adolescente de dieciséis años entraba en el túnel de los sueños y nos despertaba con dos tipos de vara. La niña vivía en un manicomio y poco a poco se iba volviendo más loca.

49. Soñé que en las diligencias que entraban y salían de Civitavecchia veía el rostro de Marcel Schwob. La visión era fugaz. Un rostro casi translúcido, con los ojos cansados, apretado de felicidad y de dolor.
 
50. Soñé que después de la tormenta un escritor ruso y también sus amigos franceses optaban por la felicidad. Sin preguntar ni pedir nada. Como quien se derrumba sin sentido sobre su alfombra favorita.

51. Soñé que los soñadores habían ido a la guerra florida. Nadie había regresado. En los tablones de cuarteles olvidados en las montañas alcancé a leer algunos nombres. Desde un lugar remoto una voz transmitía una y otra vez las consignas por las que ellos se habían condenado.
 
52. Soñé que el viento movía el letrero gastado de una taberna. En el interior James Matthew Barrie jugaba a los dados con cinco caballeros amenazantes.

53. Soñé que volvía a los caminos, pero esta vez ya no tenía quince años sino más de cuarenta. Sólo poseía un libro, que llevaba en mi pequeña mochila. De pronto, mientras iba caminando, el libro comenzaba a arder. Amanecía y casi no pasaban coches. Mientras arrojaba la mochila chamuscada en una acequia sentí que la espalda me escocía como si tuviera alas.
 
54. Soñé que los caminos de África estaban llenos de gambusinos, bandeirantes, sumulistas.

55. Soñé que nadie muere la víspera.
 
56. Soñé que un hombre volvía la vista atrás, sobre el paisaje anamórfico de los sueños, y que su mirada era dura como el acero pero igual se fragmentaba en múltiples miradas cada vez más inocentes, cada vez más desvalidas.

57. Soñé que Georges Perec tenía tres años y lloraba desconsoladamente. Yo intentaba calmarlo. Lo tomaba en brazos, le compraba golosinas, libros para pintar. Luego nos íbamos al Paseo Marítimo de Nueva York y mientras él jugaba en el tobogán yo me decía a mí mismo: no sirvo para nada, pero serviré para cuidarte, nadie te hará daño, nadie intentará matarte. Después se ponía a llover y volvíamos tranquilamente a casa. ¿Pero dónde estaba nuestra casa?

BLANES, 1994

Roberto Bolaño

da “Tres”, Acantilado, 2000

Canto general de Chile (Fragmentos) – Pablo Neruda

 

Inno e ritorno

Patria, mia patria, a te volgo il mio sangue.
Ma t’invoco, come fa con la madre il bambino
pieno di pianto.
Accogli questa chitarra cieca
e questa fronte perduta.

Andai a cercarti figli per la terra,
andai a sollevare i caduti col tuo nome di neve,
andai a fare una casa col tuo legno puro,
andai a portare la tua stella a eroi feriti.

E ora voglio dormire nella tua sostanza.
Dammi la tua chiara notte di penetranti corde
la tua notte di nave, la tua altezza di stella.

Patria mia: voglio mutare d’ombra.
Patria mia: voglio cambiare di rosa.
Voglio mettere il mio braccio sulla tua esile cintura
e sedermi sulle pietre calcinate dal mare
per fermare il grano e guardarlo dentro.

Vado a scegliere la magra flora del nitrato,
vado a filare lo stame glaciale della campana,
e guardando la tua nobile e solitaria schiuma,
tesserò un ramo marino alla tua bellezza.

Patria, mia patria
tutta circondata d’acqua in lotta
e neve combattuta,
in te si unisce l’aquila allo zolfo,
e nella tua mano antartica d’ermellino e di zaffiro
una goccia di pura luce umana
brilla bruciando il cielo nemico.

Salva la tua luce, o patria, mantieni
la tua dura spiga di speranza
in mezzo alla cieca aria temibile.

Nella tua remota terra è caduta
tutta questa difficile luce,
questo destino degli uomini,
che ti fa difendere un fiore misterioso,
solo, nell’immensità dell’America addormentata.

 

Atacama

Voce insopportabile, disseminato
sale, mutata
cenere, ramo nero
alla cui estrema perla appare la luna
cieca, per i corridoi anneriti di rame.
Che sostanza, che cigno concavo
affonda nella sabbia il nudo d’agonia
e fa dura la sua luce liquida e lenta?
Che aspro raggio rompe lo smeraldo
delle sue pietre indomabili
e addensa il sale perduto?
Terra, terra
sopra il mare, sopra l’aria, sul galoppo
dell’amazzone carica di coralli,
cantina dove il grano a mucchi
dorme nel tremulo inizio della campana:
oh, madre dell’oceano, che produci
il cieco diaspro e la dorata silice!
Sulla tua pura scorza di pane, lontano dal bosco
solo le tue linee di segreto,
solo la tua fronte di sabbia,
solo le notti e i giorni dell’uomo,
ma vicino alla sete del cardo,
là dove una carta sommersa e dimenticata, una pietra
segna le profonde culle della spada e della coppa,
indica i piedi addormentati del calcio.

 

Ode invernale al fiume Mapocho

O neve labile,
tremante in pieno fior di neve,
o palpebra boreale, piccolo raggio ghiacciato,
chi fu a chiamarti fino alla grigia valle,
chi ti rotolò dal picco dell’aquila
giú fin dove le tue acque pure
toccano gli orrendi stracci della mia patria?
O fiume, perché muovi
gelida acqua segreta,
acqua che la dura alba delle pietre
tenne nella sua cattedrale inaccessibile,
fino ai piedi feriti del mio popolo?
Torna, torna alla tua cima di neve, fiume amaro,
torna alla tua cima di brina spaziosa,
affonda la tua radice d’argento nella segreta origine,
o precipita e spézzati in altro mare senza lacrime!
O fiume Mapocho, quando la notte
viene e come abbattuta nera statua
dorme sotto i tuoi ponti con un grappolo scuro
di teste colpite dal freddo e dalla fame
come da due aquile enormi, o fiume,
o aspro fiume nato dalla neve,
perché non ti sollevi come un fantasma immenso
o come nuova croce di stelle per i dimenticati?
No, la tua pungente cenere continua a correre
insieme al singhiozzo gettato all’acqua nera,
alla manica rotta che il vento indurito
fa tremare sotto le foglie di ferro;
fiume Mapocho dove porti
piume di ghiaccio per sempre ferite,
sempre stretto alla tua livida sponda
nascerà il fiore selvaggio morso dai pidocchi
e la tua lingua di freddo roderà le gote
della mia patria nuda?
                                         Oh, mai non sia,
oh, mai non sia che una goccia della tua schiuma nera
salga dal limo al fiore del fuoco
e precipiti il seme dell’uomo!

 

Voglio tornare nel Sud

Qui infermo a Veracruz, ricordo un giorno
del Sud, mia terra, un giorno d’argento
come un rapido pesce nell’acqua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, sparsi
giú dall’alto, serrati da silenzio e da radici,
sui loro troni di cuoio e di legno.
Il Sud è un cavallo lanciato a precipizio
coronato d’alberi lenti e rugiade;
quando alza il verde muso cadono le gocce,
l’ombra della sua coda bagna l’arcipelago immenso,
nel suo ventre cresce il carbone venerato.
Mai piú, dimmi, ombra, mai piú, dimmi, mano,
mai piú, dimmi, piede, porta, gamba, lotta,
agiterai tu la selva, la strada, la spiga,
la nebbia, il freddo che azzurro guidava
ogni tuo passo continuamente disperso?
Lasciami, o cielo, andare di stella in stella
un giorno calpestando luce e polvere,
gettando il mio sangue fino al nido della pioggia!
                                                                    Voglio andare
su un tronco, lungo la corrente del Toltén
odoroso, voglio uscire dalle segherie,
entrare nelle taverne con i piedi pieni d’acqua,
farmi guidare dalla luce dell’avellano elettrico,
sdraiarmi vicino allo sterco delle vacche,
morire e rivivere mordendo grano.
                                                      Portami, Oceano,
un giorno del Sud, un giorno aggrappato alle tue onde,
un giorno d’albero umido, trascina un vento
azzurro polare alla mia fredda bandiera!

 

Cavaliere sotto la pioggia

Acque come fondo, muri d’acqua,
trifoglio e avena lottata,
cordami uniti alla rete d’una notte
umida, grondante, selvaggiamente filata,
goccia che strazia ripetuta in lamento,
furia diagonale che taglia il cielo.
Galoppano i cavalli di profumo che cola,
sotto l’acqua che batte l’acqua
divisa dalla rete di rami rossi di pelo,
pietra e acqua: e il vapore segue come folle latte
l’acqua inasprita con colombe in fuga.
Non v’è giorno senza rovesci di cisterne
del clima inesorabile, del verde movimento,
e le zampe annodano veloci terra e tempo
fra bestiale odore di cavallo e pioggia.
Mantelli, finimenti, gualdrappe di pelle
serrate in cupe melagrane
sugli ardenti fianchi di zolfo
che battono e piegano la selva.
                                     Piú in là, piú in là, piú in là, piú in là,
piú in là, piú in là, piú in là, piú in làaaaaa,
i cavalieri rompono la pioggia, i cavalieri
passano sotto aspri nocciòli, la pioggia
tesse in tremuli raggi il suo grano eterno.
Ecco la luce dell’acqua, il lampo confuso
dirama sulle foglie, e dal tonfo del galoppo
salta un’acqua senz’ala, ferita a terra.
Umide redini, arco di rami,
passo di passi, pianta notturna
di stelle spezzate come ghiaccio o luna, cavallo
vorticoso coperto di frecce come freddo spettro,
pieno di nuove zampe nate nella furia,
galoppante quartiere assediato dalla paura,
e dal suo grande re dal temibile stendardo.

 

Mari del Cile

In lontane regioni
i tuoi piedi di schiuma, la tua distesa riva
bagnai con pianto d’esilio e forsennato.
Vengo oggi alla tua bocca, oggi alla tua fronte.
Non al corallo di sangue, non all’arsa stella,
a incandescenti e rovesciate acque
consegnai l’umile segreto o la parola.
Serbai la tua voce infuriata, un petalo
d’arena tutelare,
tra i mobili e i vecchi panni.
Una polvere di campane, una rosa umida.
E molte volte era proprio l’acqua
d’Arauco, l’acqua dura:
ma io conservavo la mia sommersa pietra
e, in essa, l’oscillante suono della tua ombra.
O mare del Cile, o acqua
alta e stretta come acuto falò,
impulso e tuono e unghie di zaffiro,
o terremoto di sale e di leoni!
Declivio, origine, costa
del pianeta, le tue palpebre
aprono il mezzogiorno della terra
assalendo l’azzurro delle stelle!
Il sale e il movimento si liberano da te
e diramano l’oceano alle grotte dell’uomo
finché al di là delle isole il tuo peso
rompe e sparpaglia un ramo di sostanze totali.
Mare del Nord deserto, mare che batte il rame
e anticipa il sale sulla mano
dell’abitante solitario e aspro,
tutto uccelli marini e rocce di freddo sole e sterco,
costa bruciata dal passo d’un’aurora non umana,
mar di Valparaíso, onda
di luce solitaria e notturna,
finestra dell’oceano
dove s’affaccia
la statua della mia patria
e guarda con occhi ancora ciechi,
mare del Sud, mar oceano,
mare, luna misteriosa,
lungo Imperial pauroso di roveri,
e Chiloé legato al sangue,
e da Magellano al confine,
tutto il sibilo del sale, tutta la folle luna,
e lo stellare cavallo sfrenato del ghiaccio.

Pablo Neruda

(Traduzione di Salvatore Quasimodo)

da “Pablo Neruda, Poesie”, Einaudi, Torino, 1952

∗∗∗

Canto general de Chile (Fragmentos)

 

Himno y regreso

Patria, mi patria, vuelvo hacia ti la sangre.
Pero te pido, como a la madre el niño
lleno de llanto.
Acoge esta guitarra ciega
y esta frente perdida.

Salí a encontrarte hijos por la tierra,
salí a cuidar caídos con tu nombre de nieve,
salí a hacer una casa con tu madera pura,
salí a llevar tu estrella a los héroes heridos.

Ahora quiero dormir en tu substancia.
Dame tu clara noche de penetrantes cuerdas,
tu noche de navío, tu estatura estrellada.

Patria mía: quiero mudar de sombra.
Patria mía: quiero cambiar de rosa.
Quiero poner mi brazo en tu cintura exigua
y sentarme en tus piedras por el mar calcinadas,
a detener el trigo y mirarlo por dentro.

Voy a escoger la flora delgada del nitrato,
voy a hilar el estambre glacial de la campana,
y mirando tu ilustre y solitaria espuma
un ramo litoral tejeré a tu belleza.

Patria, mi patria
toda rodeada de agua combatiente
y nieve combatida,
en ti se junta el águila al azufre,
y en tu antártica mano de armiño y de zafiro
una gota de pura luz humana
brilla encendiendo el enemigo cielo.

Guarda tu luz, oh patria!, mantén
tu dura espiga de esperanza en medio
del ciego aire temible.

En tu remota tierra ha caído toda esta luz difícil,
este destino de los hombres,
que te hace defender una flor misteriosa
sola, en la immensidad de América dormida.

 

Atacama

Voz insufrible, diseminada
sal, substituída
ceniza, ramo negro
en cuyo extremo aljófar, aparece la luna
ciega, por corredores enlutados de cobre.
Qué material, qué cisne hueco
hunde en la arena su desnudo agónico
y endurece su luz líquida y lenta?
Qué rayo duro rompe su esmeralda
entre sus piedras indomables hasta
cuajar la sal perdida?
Tierra, tierra
sobre el mar, sobre el aire, sobre el galope
de la amazona llena de corales:
bodega amontonada donde el trigo
duerme en la temblorosa raíz de la campana:
oh madre del océano!, productora
del ciego jaspe y la dorada sílice:
sobre tu pura piel de pan, lejos del bosque
nada sino tus líneas de secreto,
nada sino tu frente de arena,
nada sino las noches y los días del hombre,
pero junto a la sed del cardo, allí
donde un papel hundido y olvidado, una piedra
marca las hondas cunas de la espada y la copa,
indica los dormidos pies del calcio.

 

Oda de invierno al Río Mapocho

Oh, sí, nieve imprecisa,
oh, sí, temblando en plena flor de nieve,
párpado boreal, pequeño rayo helado
quién, quién te llamó hacia el ceniciento valle,
quién, quién te arrastró desde el pico del águila
hasta donde tus aguas puras tocan
los terribles harapos de mi patria?
Río, por qué conduces
agua fría y secreta,
agua que el alba dura de las piedras
guardó en su catedral inaccesible,
hasta los pies heridos de mi pueblo?
Vuelve, vuelve a tu copa de nieve, río amargo,
vuelve, vuelve a tu copa de espaciosas escarchas,
sumerge tu plateada raíz en tu secreto origen
o despéñate y rómpete en otro mar sin lágrimas!
Río Mapocho cuando la noche llega
y como negra estatua echada
duerme bajo tus puentes con un racimo negro
de cabezas golpeadas por el frío y el hambre
como por dos inmensas águilas, oh río,
oh duro río parido por la nieve,
por qué no te levantas como inmenso fantasma
o como nueva cruz de estrellas para los olvidados?
No, tu brusca ceniza corre ahora
junto al sollozo echado al agua negra,
junto a la manga rota que el viento endurecido
hace temblar debajo de las hojas de hierro,
Río Mapocho, adónde llevas
plumas de hielo para siempre heridas,
siempre junto a tu cárdena ribera
la flor salvaje nacerá mordida por los piojos
y tu lengua de frío raspará las mejillas
de mi patria desnuda?
                                 Oh, que no sea,
oh, que no sea, y que una gota de tu espuma negra
salte del légamo a la flor del fuego
y precipite la semilla del hombre!

 

Quiero volver al Sur

Enfermo en Veracruz, recuerdo un día
del Sur, mi tierra, un día de plata
como un rápido pez en el agua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, desde arriba
esparcidos, rodeados por silencio y raíces,
sentados en sus tronos de cueros y maderas.
El Sur es un caballo echado a pique
coronado con lentos árboles y rocío,
cuando levanta el verde hocico caen las gotas,
la sombra de su cola moja el gran archipiélago
y en su intestino crece el carbón venerado.
Nunca más, dime, sombra, nunca más, dime, mano,
nunca más, dime, pie, puerta, pierna, combate,
trastornarás la selva, el camino, la espiga,
la niebla, el frío, lo que, azul, determinaba
cada uno de tus pasos sin cesar consumidos?
Cielo, déjame un día de estrella a estrella irme
pisando luz y pólvora, destrozando mi sangre
hasta llegar al nido de la lluvia!
                                                  Quiero ir
detrás de la madera por el río
Toltén fragante, quiero salir de los aserraderos,
entrar en las cantinas con los pies empapados,
guiarme por la luz del avellano eléctrico,
tenderme junto al excremento de las vacas,
morir y revivir mordiendo trigo.
                                                 Océano, tráeme
un día del Sur, un día agarrado a tus olas,
un día de árbol mojado, trae un viento
azul polar a mi bandera fría!

 

Jinete en la lluvia

Fundamentales aguas, paredes de agua, trébol
y avena combatida,
cordelajes ya unidos a la red de una noche
húmeda, goteante, salvajemente hilada,
gota desgarradora repetida en lamento,
cólera diagonal cortando cielo.
Galopan los caballos de perfume empapado,
bajo el agua, golpeando el agua, interviniéndola
con sus ramajes rojos de pelo, piedra y agua:
y el vapor acompaña como una leche loca
el agua endurecida con fugaces palomas.
No hay día sino los cisternales
del clima duro, del verde movimiento
y las patas anudan veloz tierra y transcurso
entre bestial aroma de caballo con lluvia.
Mantas, monturas, pellones agrupados
en sombrías granadas sobre los
ardientes lomos de azufre que golpean
la selva decidiéndola.
                                  Más allá, más allá, más allá, más allá,
más allá, más allá, más allá, más alláaaaaa,
los jinetes derriban la lluvia, los jinetes
pasan bajo los avellanos amargos, la lluvia
tuerce en trémulos rayos su trigo sempiterno.
Hay luz del agua, relámpago confuso
derramado en la hoja, y del mismo sonido del galope
sale un agua sin vuelo, herida por la tierra.
Húmeda rienda, bóveda enramada,
pasos de pasos, vegetal nocturno
de estrellas rotas como hielo o luna, ciclónico caballo
cubierto por las flechas como un helado espectro,
lleno de nuevas manos nacidas en la furia,
galopante manzana rodeada por el miedo
y su gran monarquía de temible estandarte.

 

Mares de Chile

En lejanas regiones
tus pies de espuma, tu esparcida orilla
regué con llanto desterrado y loco.
Hoy a tu boca vengo, hoy a tu frente.
No al coral sanguinario, no a la quemada estrella,
ni a las incandescentes y derribadas aguas
entregué el respetuoso secreto, ni la sílaba.
Guardé tu voz enfurecida, un pétalo
de tutelar arena,
entre los muebles y los viejos trajes.
Un polvo de campanas, una mojada rosa.
Y muchas veces era el agua misma
de Arauco, el agua dura:
pero yo conservaba mi sumergida piedra
y en ella, el palpitante sonido de tu sombra.
Oh, mar de Chile, oh, agua
alta y ceñida como aguda hoguera,
presión y trueno y uñas de zafiro,
oh, terremoto de sal y leones!
Vertiente, origen, costa
del pianeta, tus párpados
abren el mediodía de la tierra
atacando el azul de las estrellas!
La sal y el movimiento se desprenden de ti
y reparten océano a las grutas del hombre
hasta que más allá de las islas tu peso
rompe y extiende un ramo de substancias totales.
Mar del desierto Norte, mar que golpea el cobre
y adelanta la sal hacia la mano
del habitante solitario y áspero,
todo alcatraz y rocas de frío sol y estiércol,
costa quemada al paso de una aurora inhumana
Mar de Valparaíso, ola
de luz sola y nocturna,
ventana del océano
en que se asoma
la estatua de mi patria
mira con ojos todavía ciegos,
mar del Sur, mar océano,
mar, luna misteriosa,
por Imperial aterrador de robles,
por Chiloé a la sangre asegurado
y desde Magallanes hasta el límite
todo el silbido de la sal, toda la luna loca,
y el estelar caballo desbocado del hielo.

Pablo Neruda

da “Canto General”, Buenos Aires, Editorial Losada, 1950