Dedica – Ol’ga Sedakova

Vlada Roslyakova by Paolo Roversi

 

Tu ricorda, io dico, ricorda
tu ricorda, ti dico e piango:
ogni cosa scompare e muta
e la stessa speranza uccide.

Non v’è oceano che torni nel fiume,
né fiume che risalga alle fonti,
né a chi il tempo sia misericorde –

ma ti amo, ti amo come
se tutto questo fosse stato e sia.

Ol’ga Sedakova

(Traduzione di Adalberto Mainardi)

Da Appendice ai ‘Vecchi canti’ (1980-1981)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXIV, Luglio/Agosto 2011, N. 262, Crocetti Editore

Scena muta – Milo De Angelis

Foto di Alex Pardi

 

Ci teniamo vicini
all’urlo, mentre passa il dodici
e l’attimo separato
dal suo vortice resta qui, nel cuore
buio dell’estate, nell’annuncio
di una volta sola. Tu
non ci sei. Resta la tua assoluta
voce nella segreteria, questa
morte che non ha luogo.

 *

L’essenza della carne ferita
vagava tra due muri,
l’amore usciva
dal presente e il lenzuolo
dei volti era lì, ed era cemento
tra le dita ed era buio
tutta la luce era chiusa
nel petto, tutte le parvenze
della rosa, tutta la forza
dell’ora persa.

*

Sotto i cavi sospesi
chiedemmo una costanza,
tra gli allucinogeni chiedemmo
di sapere il codice terrestre,
il canto sotterraneo che bussava
alle vertebre.
Vattene
nulla morente,
vattene ferita
dei minuti che tornano qui.

*

Dove ondeggiava il sangue, dove il perfetto
insieme era più nostro, c’è l’ombra
del geranio, le sostanze crocifisse,
un metro d’asfalto e di nulla
e il respiro è d’asfalto, le labbra d’asfalto,
il silenzio e l’andarsene
sono d’asfalto. L’ultimatum, anche quello,
ce l’ha dato l’asfalto, l’asfalto.

*

Un improvviso ci porta nel dolore
che tutto ha preparato in noi, nell’attimo
strappato al suo ritmo, nel suono
dei tacchi, nel respiro
che si estingue: era un pomeriggio
d’agosto tra le ombre della tangenziale,
il nostro niente
da dire, filo di voce, scena muta.

*

Eri l’ultima
donna della vita, eri il temporale
e la quiete, il luogo
dove la luce è insanguinata
e il sangue fiorisce: pochi minuti,
pochi metri, sempre lì,
nel cemento che parla, nella città
degli amanti, nel silenzio
dei lavandini, il bacio
avvenne
e noi non abbiamo
voluto più uscire.

Si muore così, all’ingresso
di una scuola, un cerchio perfetto.

*

Lungo una strada di Roserio
e di ombra, cammino, resto accanto
a te, ai tuoi sandali
che l’asfalto bruciava, l’asfalto
di ogni estate, l’asfalto
che penetra nel seno, finché appare
la ferita, finché la vista
è silenziosa come la sua fine.

*

Noi che abbiamo conosciuto
il cuore di ogni giorno e il cuore senza età,
l’idea che illumina la carne,
la sapienza delle misure
e il lampo, noi ci lasciamo
qui, in due metri di cemento, con un atto
di presenza, un battito
estivo, uno scambio di persona.

Milo De Angelis

da “Tema dell’addio”, “Lo Specchio” Mondadori, 2005

Sete di te m’incalza… – Pablo Neruda

Camille Claudel, La valse, 1891

 

Sete di te m’incalza nelle notti affamate.
Tremula mano rossa che si leva fino alla tua vita.
Ebbra di sete, pazza di sete, sete di selva riarsa.
Sete di metallo ardente, sete di radici avide.
Verso dove, nelle sere in cui i tuoi occhi non vadano
in viaggio verso i miei occhi, attendendoti allora.

Sei piena di tutte le ombre che mi spiano.
Mi segui come gli astri seguono la notte.
Mia madre mi partorì pieno di domande sottili.
Tu a tutte rispondi. Sei piena di voci.
Àncora bianca che cadi sul mare che attraversiamo.
Solco per il torbido seme del mio nome.
Esista una terra mia che non copra la tua orma.
Senza i tuoi occhi erranti, nella notte, verso dove.

Per questo sei la sete e ciò che deve saziarla.
Come poter non amarti se per questo devo amarti.
Se questo è il legame come poterlo tagliare, come.
Come, se persino le mie ossa hanno sete delle tue ossa.
Sete di te, sete di te, ghirlanda atroce e dolce.
Sete di te, che nelle notti mi morde come un cane.
Gli occhi hanno sete, perché esistono i tuoi occhi.
La bocca ha sete, perché esistono i tuoi baci.
L’anima è accesa di queste braccia che ti amano.
Il corpo, incendio vivo che brucerà il tuo corpo.
Di sete. Sete infinita. Sete che cerca la tua sete.
E in essa si distrugge come l’acqua nel fuoco.

Pablo Neruda

(Traduzione di Giuseppe Bellini)

da “Il fromboliere entusiasta”, in “Pablo Neruda, Poesie d’amore”, Newton Compton, Roma, 1975 

∗∗∗

Sed de ti me acosa… 

Sed de ti me acosa en las noches hambrientas.
Trémula mano roja que hasta tu vida se alza.
Ebria sed, loca sed, sed de selva en sequía.
Sed de metal ardiendo, sed de raíces ávidas.
Hacia dónde, en las tardes que no vayan tus ojos
en viaje hacia los ojos, esperándote entonces.

Estás llena de todas las sombras que me acechan.
Me sigues como siguen los astros a la noche.
Mi madre me dio lleno de preguntas agudas.
Tú las contestas todas.
Eres llena de voces.
Ancla blanca que cae sobre el mar que cruzamos.
Surco para la turbia semilla de mi nombre.
Que haya una tierra mía que no cubra tu huella.
Sin tus ojos viajeros, en la noche, hacia dónde.

Por eso eres la sed y lo que ha de saciarla.
Cómo poder no amarte si he de amarte por eso.
Si esa es la amarra cómo poder cortarla, cómo.
Cómo si hasta mis huesos tienen sed de tus huesos.
Sed de ti, sed de ti, guirnalda atroz y dulce.
Sed de ti que en las noches me muerde como un perro.
Los ojos tienen sed, para qué están tus ojos.
La boca tiene sed, para qué están tus besos.
El alma está encendida de estas brasas que te aman.
El cuerpo incendio vivo que ha de quemar tu cuerpo.
De sed.
Sed infinita.
Sed que busca tu sed.
Y en ella se aniquila como el agua en el fuego.

Pablo Neruda

da “El hondero entusiasta (1933)”, in “Pablo Neruda, Obra poética”, Volume 2, Cruz del Sur, 1947

La canoa – Roberto Mussapi

Mario Giacomelli, Caroline Branson, da “Omaggio a Spoon River”, 1971 – ’72 – ’73

 

Ricordi le galassie? E noi moltiplicati
e scissi in infiniti atomi di luce, nel cielo,
lo stesso dove oggi guardiamo la luna,
ricordi la pantera, l’orso, il cavallo, il bisonte,
i primi dèi?
E la mano, la mano che li dipinse nella parete
della caverna per accendere fuochi,
per iniziare i cacciatori, pregare,
ricordi quelle giovani preghiere?
Ricordi il buio, la grotta, la paura,
la paura che ci mutò in specie, specie abbracciata,
e il fuoco, e oltre il fuoco i primi confini?

Ricordi come piangevamo vedendo un cavallo
sentendo nella sua corsa la forza del dio?
E come volevamo correre in lui,
e superare la vita, non morire?
Ricordi quando scendemmo a terra, primati, come guardavamo
come dalle fronde guardavamo il cielo?
Ricordi che eravamo caduti e nuovi,
e piangevamo quando calava la sera che respiravamo
e al mattino la luce ci svegliava e avevamo fame…
Ricordi quando costruimmo la prima canoa, seguire il fiume,
verso quel mare che ci appariva in sogno?
Ricordi quel baule, secoli dopo, nella stiva?
Brillava nel buio, sentivi lo sciacquio,
ricordi quello scrigno, il suo mistero?
Che cosa conterrà, ci chiedevamo.
Ora, migliaia di anni dopo quell’aurora
e secoli dalla lunga navigazione (le Indie, le isole d’oro,
le infinite barriere coralline,
e il tramonto improvviso, Maracaibo,
Giamaica, Panama, Guadalupa
sillabe risalite dai fondali)
ricordo, all’improvviso, ricordo ora
che conteneva la mia vita e la tua
e i nostri sogni affidati al fiume
sfociante ora qui in questo braccio di mare
qui e ora e per sempre da prima di allora.

Roberto Mussapi

da “La stoffa dell’ombra e delle cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 2007

«A cosa mi è servito correre per tutto il mondo» – Maria do Rosário Pedreira

Edward Drimsdale, Road, East of England, Autumn 1997

 

A cosa mi è servito correre per tutto il mondo,
trascinare, di città in città, un amore
che pesava più di mille valigie; mostrare
a mille uomini il tuo nome scritto in mille
alfabeti e un’immagine del tuo volto
che io giudicavo felice? A cosa mi è servito

respingere questi mille uomini, e gli altri mille
che fecero di tutto perché mi fermassi, mille
volte pettinando le pieghe del mio vestito
stanco di viaggi, o dicendo il tuo nome
così bello in mille lingue che io mai
avrei compreso? Perché era solo dietro te

che correvo il mondo, era con la tua voce
nelle mie orecchie che io trascinavo il fardello
dell’amore di città in città, il tuo nome
sulle mie labbra di città in città, il tuo
volto nei miei occhi durante tutto il viaggio,

ma tu partivi sempre la sera prima del mio arrivo.

Maria do Rosário Pedreira

(Traduzione di Mirella Abriani)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXV, Ottobre 2012, N. 275, Crocetti Editore

***

«De que me serviu ir correr mundo»

De que me serviu ir correr mundo,
arrastar, de cidade em cidade, um amor
que pesava mais do que mil malas; mostrar
a mil homens o teu nome escrito em mil
alfabetos e uma estampa do teu rosto
que eu julgava feliz? De que me serviu

recusar esses mil homens, e os outros mil
que fizeram de tudo para eu parar, mil
vezes me penteando as pregas do vestido
cansado de viagens, ou dizendo o seu nome
tão bonito em mil línguas que eu nunca
entenderia? Porque era apenas atrás de ti

que eu corri o mundo, era com a tua voz
nos meus ouvidos que eu arrastava o fardo
do amor de cidade em cidade, o teu nome
nos meus lábios de cidade em cidade, o teu
rosto nos meus olhos durante toda a viagem,

mas tu partias sempre na véspera de eu chegar.

Maria do Rosário Pedreira

da “Nenbum Nome Depois”, Gótica, Lisboa, 2004