Spazi vuoti – Seamus Heaney

Foto di Mario Giacomelli

in memoriam M.K.H., 1911-1984
Lei mi insegnò quello che suo zio un tempo le insegnò:
Che il pezzo di carbone più grosso si rompe facilmente
Se trovi la venatura e martelli con l’angolo giusto.
Il suono di quel colpo rilassato e lusinghiero,
La sua cooptata e obliterata eco,
Mi hanno insegnato a colpire, insegnato a smettere,
Insegnato tra il martello e il pezzo di carbone
A far fronte alla musica. Mi insegni ora ad ascoltare,
A dare i colpi giusti dietro il nero lineare.
1

Un sasso lanciato cento anni or sono
Mi viene sempre in mente, la prima pietra
Lanciata in fronte a un’ava voltagabbana.
Il cavallo s’impenna ed è sommossa.
Lei è rannicchiata in fondo al calesse
E passa una corsia di oltraggi quella prima domenica
Galoppando in panico a messa giù per il pendio.
Lui frusta attraverso il paese tra grida di «Lundy!»

Chiamiamola «La Convertita». «La Sposa Esogama».
Comunque, è un pezzo d’epoca
Ereditato da parte di mia madre
Mio e ne dispongo ora che se n’è andata lei.
Al posto di argento o merletto vittoriano,
Quella pietra discolpata, che discolpa.

2

Là brillava linoleum lustro. Brillavano rubinetti d’ottone.
Le tazze di porcellana erano molto bianche e grandi –
Un servizio non sbreccato con bricco e zuccheriera.
Il bollitore fischiava. Tartine e paste da tè
C’erano e come si deve. Se no si scioglie,
Il burro si deve tenere via dal sole.
E non fare briciole. Non ballare con la sedia.
Non prendere. Non puntare il dito. Non far rumore quando giri.

È il numero 5, New Row, Terra dei Morti,
Dove il nonno ora si alza dal suo posto
Con gli occhiali indietro su una testa tutta pelata
Per accogliere una figlia sbigottita che torna a casa
Ancor prima che lei bussi. «Cosa c’è? Cosa c’è?»
E si siedono nella stanza tutta lustra insieme.

3

Quando tutti gli altri erano fuori a messa
Io ero tutto suo mentre pelavamo patate.
Rompevano il silenzio, lasciate cadere una a una
Come lacrime di stagno colanti dal saldatore:
Magre consolazioni poste fra noi, cose da condividere
Luccicanti in un secchio di acqua chiara.
E cadevano una dopo l’altra. Piccoli piacevoli tonfi
Del lavoro di entrambi ci facevano tornare in noi.

Così mentre il parroco al suo capezzale
Recitava vigorosamente le preghiere dei morenti
E qualcuno rispondeva e qualcuno piangeva
Io ricordavo la sua testa chinata verso la mia testa,
Il suo respiro nel mio, i nostri fluidi coltelli immersi –
Mai tanto vicini per tutto il resto della nostra vita.

4

La paura di ostentazione le faceva ostentare
Inadeguatezza ogni volta che le capitava
Di pronunciare parole «oltre la sua portata». Bertold Brek.
Riusciva a tirar fuori qualcosa di impacciato e storto
Ogni volta, come se potesse tradire
L’impacciato e l’inadeguato con un troppo
Ben appropriato vocabolario.
Con più sfida che orgoglio, mi diceva: «Tu
Le sai tutte quelle cose». Così governavo la mia lingua
Davanti a lei, un genuinamente ben
Appropriato adeguato tradimento
Di quel che ben sapevo. Dicevo naw e aye
Ed educatamente ricadevo in errori
Di grammatica che ci tenevano in stallo e alleati.

5

Il fresco che usciva dalle lenzuola appena giù dal filo
Mi faceva pensare che ci fosse ancora umido dentro
Ma quando prendevo i miei angoli del lenzuolo
E tiravo insieme a lei, prima dritto lungo l’orlo
E poi in diagonale, e poi si sbatteva e si scuoteva
Il tessuto come una vela contro vento,
Mandavano uno schiocco ondulante ben asciutto.
Così tirando e piegando si finiva mano contro mano
Per una frazione di secondo come se nulla fosse successo
Perché nulla era successo che non fosse sempre successo
Precedentemente, giorno per giorno, toccarsi e separarsi,
Ritornando ancora vicini tenendosi indietro
In mosse dove io ero la X e lei era la O
Iscritte in lenzuola che cuciva con sacchi da farina aperti.

6

Nel primo impeto delle festività pasquali
Le cerimonie durante la Settimana Santa
Erano il culmine della nostra fase Figli e amanti.
Il fuoco di mezzanotte. Il candelabro pasquale.
Gomito a gomito, contenti di essere in ginocchio
Accanto uno all’altra là davanti nelle prime file
Della chiesa piena, seguivamo il testo
E le letture per la benedizione del fonte.
Come anela una cerva alla fonte, così l’anima mia…
Abluzioni. Asciugature. L’alito sull’acqua.
L’acqua mescolata al crisma e all’olio.
Tintinno di ampolla. Cerimonia dell’incenso
E il grido del salmista ripreso con orgoglio:
Di giorno e di notte mi è stato pane il mio pianto.

7

Negli ultimi minuti lui le disse quasi
Più che in tutta la loro vita insieme.
«Tu sarai a New Row la notte di lunedì
E io verrò da te e tu sarai contenta
Quando entrerò dalla porta… Non è vero?»
La sua testa era china sulla testa sorretta.
Lei non poteva sentire ma noi esultavamo.
La chiamava brava e ragazza. Poi era morta,
La ricerca delle pulsazioni abbandonata
E noi tutti essendo là sapevamo una cosa.
Lo spazio attorno a cui stavamo si era svuotato
In noi da conservare, aveva penetrato
Vuoti che improvvisamente si erano aperti.
Abbattuti gli alti pianti venne un puro mutamento.

8

Pensavo di camminare girando e girando uno spazio
Assolutamente vuoto, assolutamente una sorgente
Dove il castagno adorno aveva perso il suo posto
Nella nostra siepe sul davanti sopra le violacciocche.
Schegge bianche saltavano e saltavano e schizzavano alte.
Sentivo il taglio accurato e differenziato
Dell’accetta, lo schianto, il sospiro
E il crollo di quello che era stato lussureggiante
Attraverso i percossi resti e frantumi di tutto quanto.
Piantato a fondo e da molto andato, mio coetaneo
Castagno da un vasetto di marmellata in un buco,
La sua massa e quiete diventate un lucente non luogo,
Un’anima ramificante e per sempre
Silenziosa, oltre ascoltato silenzio.

Seamus Heaney

1972

(Traduzione di Francesca Romana Paci)

da “La lanterna di biancospino”, Guanda, Parma, 1999

***

Clearances

in memoriam M.K.H., 1911-1984
She taught me what her uncle once taught her:
How easily the biggest coal block split
If you got the grain and hammer angled right.
The sound of that relaxed alluring blow,
Its co-opted and obliterated echo,
Taught me to hit, taught me to loosen,
Taught me between the hammer and the block
To face the music. Teach me now to listen,
To strike it rich behind the linear black.
1

A cobble thrown a hundred years ago
Keeps coming at me, the first stone
Aimed at a great-grandmother’s turncoat brow.
The pony jerks and the riot’s on.
She’s crouched low in the trap
Running the gauntlet that first Sunday
Down the brae to Mass at a panicked gallop.
He whips on through the town to cries of ‘Lundy!’

Call her ‘The Convert’. ‘The Exogamous Bride’.
Anyhow, it is a genre piece
Inherited on my mother’s side
And mine to dispose with now she’s gone.
Instead of silver and Victorian lace,
The exonerating, exonerated stone.

2

Polished linoleum shone there. Brass taps shone.
The china cups were very white and big –
An unchipped set with sugar bowl and jug.
The kettle whistled. Sandwich and teascone
Were present and correct. In case it run,
The butter must be kept out of the sun.
And don’t be dropping crumbs. Don’t tilt your chair.
Don’t reach. Don’t point. Don’t make noise when you stir.

It is Number 5, New Row, Land of the Dead,
Where grandfather is rising from his place
With spectacles pushed back on a clean bald head
To welcome a bewildered homing daughter
Before she even knocks. ‘What’s this? What’s this?’
And they sit down in the shining room together.

3

When all the others were away at Mass
I was all hers as we peeled potatoes.
They broke the silence, let fall one by one
Like solder weeping off the soldering iron:
Cold comforts set between us, things to share
Gleaming in a bucket of clean water.
And again let fall. Little pleasant splashes
From each other’s work would bring us to our senses.

So while the parish priest at her bedside
Went hammer and tongs at the prayers for the dying
And some were responding and some crying
I remembered her head bent towards my head,
Her breath in mine, our fluent dipping knives –
Never closer the whole rest of our lives.

4

Fear of affectation made her affect
Inadequacy whenever it came to
Pronouncing words «beyond her». Bertold Brek.
She’d manage something hampered and askew
Every time, as if she might betray
The hampered and inadequate by too
Well-adjusted a vocabulary.
With more challenge than pride, she’d tell me, ‘You
Know all them things.’ So I governed my tongue
In front of her, a genuinely well-
adjusted adequate betrayal
Of what I knew better. I’d naw and aye
And decently relapse into the wrong
Grammar which kept us allied and at bay.

5

The cool that came off sheets just off the line
Made me think the damp must still be in them
But when I took my corners of the linen
And pulled against her, first straight down the hem
And then diagonally, then flapped and shook
The fabric like a sail in a cross-wind,
They made a dried-out undulating thwack.
So we’d stretch and fold and end up hand to hand
For a split second as if nothing had happened
For nothing had that had not always happened
Beforehand, day by day, just touch and go,
Coming close again by holding back
In moves where I was X and she was O
Inscribed in sheets she’d sewn from ripped-out flour sacks.

6

In the first flush of the Easter holidays
The ceremonies during Holy Week
Were highpoints of our Sons and Lovers phase.
The midnight fire. The paschal candlestick.
Elbow to elbow, glad to be kneeling next
To each other up there near the front
Of the packed church, we would follow the text
And rubrics for the blessing of the font.
As the hind longs for the streams, so my soul…
Dippings. Towellings. The water breathed on.
The water mixed with chrism and with oil.
Cruet tinkle. Formal incensation
And the psalmist’s outcry taken up with pride:
Day and night my tears have been my bread.

7

In the last minutes he said more to her
Almost than in all their life together.
‘You’ll be in New Row on Monday night
And I’ll come up for you and you’ll be glad
When I walk in the door… Isn’t that right?’
His head was bent down to her propped-up head.
She could not hear but we were overjoyed.
He called her good and girl. Then she was dead,
The searching for a pulsebeat was abandoned
And we all knew one thing by being there.
The space we stood around had been emptied
Into us to keep, it penetrated
Clearances that suddenly stood open.
High cries were felled and a pure change happened.

8

I thought of walking round and round a space
Utterly empty, utterly a source
Where the decked chestnut tree had lost its place
In our front hedge above the wallflowers.
The white chips jumped and jumped and skited high.
I heard the hatchet’s differentiated
Accurate cut, the crack, the sigh
And collapse of what luxuriated
Through the shocked tips and wreckage of it all.
Deep planted and long gone, my coeval
Chestnut from a jam jar in a hole,
Its heft and hush become a bright nowhere,
A soul ramifying and forever
Silent, beyond silence listened for.

Seamus Heaney

da “The Haw Lantern”, Faber and Faber Limited, London, 1987

Sorelle, a voi non dispiace… – Antonia Pozzi

Rimel Neffati Photography, 2014

 

Sorelle, a voi non dispiace
ch’io segua anche stasera
la vostra via?
Cosí dolce è passare
senza parole
per le buie strade del mondo –
per le bianche strade dei vostri pensieri –
cosí dolce è sentirsi
una piccola ombra
in riva alla luce –
cosí dolce serrarsi
contro il cuore il silenzio
come la vita piú fonda
solo ascoltando le vostre anime andare –
solo rubando
con gli occhi fissi
l’anima delle cose –
Sorelle, se a voi non dispiace –
io seguirò ogni sera
la vostra via
pensando ad un cielo notturno
per cui due bianche stelle conducano
una stellina cieca
verso il grembo del mare.

Antonia Pozzi

Milano, 6 dicembre 1930

da “Parole: diario di poesia”, “Lo Specchio” Mondadori, 1964

Due corpi – Octavio Paz

Maria Gamundi, Embrace II

 

Due corpi fronte a fronte
sono a volte due onde
e la notte l’oceano.

Due corpi fronte a fronte
sono a volte due pietre
e la notte deserto.

Due corpi fronte a fronte
sono a volte radici
nella notte allacciate.

Due corpi fronte a fronte
sono a volte due lame
e la notte baleno.

Due corpi fronte a fronte
son due stelle cadenti
nel firmamento vuoto.

Octavio Paz

(Traduzione di Maria Pia Lamberti)

dalla rivista “Poesia”, Anno IX, Novembre 1996, N. 100, Crocetti Editore

∗∗∗

Dos cuerpos

Dos cuerpos frente a frente
son a veces dos olas
y la noche es océano.

Dos cuerpos frente a frente
son a veces dos piedras
y la noche desierto.

Dos cuerpos frente a frente
son a veces rafees
en la noche enlazadas.

Dos cuerpos frente a frente
son a veces navajas
y la noche relámpago.

Dos cuerpos frente a frente
son dos astros que caen
en un cielo vado.

Octavio Paz

da “Condición de nube”, 1944

Il quinto Inno alla notte – Novalis

Friedrich Eduard Eichens, Portrait of Novalis, 1906

 

Sulle stirpi degli uomini infinite,
regnava un giorno ferreo Destino
in muta violenza.

Una pesante benda tenebrosa
intorno si avvolgeva
alle angosciate anime loro.
Immensa era la Terra: e avean gli Dei,
quivi, dimora e patria.
Misterioso, il magico edificio
si ergea da sempiterne eternità.
Oltre le cime rosse dell’aurora,
entro il divino grembo dell’Oceano,
soggiornava la Luce onnivivente,
che tutto accende.

Un Veglio gigantesco sosteneva
il giubilo del mondo.
Incatenati ai visceri dei monti
stavano i figli della Terra antichi,
in furor vano di sterminio contro
la nuova razza degli Dei stupenda
e i suoi congiunti: gli uomini felici.

Il verdecupo baratro del mare
era un grembo di Dea.
In grotte di cristallo, pullulava
una folla di spiriti beata.
Gli alberi, l’acque, i fiori e gli animali
aveano umani sensi.
Sapea piú dolce il vino,
poi che gli sguardi lo scorgean donato
da un rigoglioso Nume giovinetto
entro i grappoli infuso,
come cresceva in piene spighe d’oro
una materna ed amorosa Iddia.

Era la sacra ebbrezza dell’amore,
anch’essa, un santo rito
della piú bella tra le Dee piú belle.

Cosí, la Vita avea lo scroscio eterno
per i secoli via, primaverile,
di variopinta festa
tra gli Eterni e gli umani.

E le stirpi adoravano concordi,
con ingenua credenza,
nella tenera Fiamma multiforme
il Vertice del mondo.

Solo un pensiero,
solo un fantasma atroce,
sopravvenendo a quel convivio lieto,
di sfrenata paura i cuori avvolse.
E i Numi stessi non sapeano come
donar conforto all’anime sgomente.
Per vie segrete era disceso il Mostro
cui non placavan né preci né doni.
Morte, il suo nome… E interruppe il festino
con l’angoscia, le lagrime, il dolore.

Ora, in eterno disgiunto da tutto
che i sensi accende di soave ebbrezza;
strappato a’ suoi diletti, che rimangono
in vano pianto al mondo e in lunga pena,
un sogno scialbo ed un imbelle anelito
al defunto parean toccati in sorte.
Infranti erano i flutti del Piacere
contro la rupe di un Cordoglio immane.

Con mente audace e con accesi sensi,
l’uomo abbelliva quell’orrenda larva.
Spenge la torcia un bello Efebo, e dorme.
La morte è dolce come un soffio d’arpa.
La memoria si stempra in flutti d’ombra.
Cosí, nel canto redimeva il Fato.
Ma un enigma restò la Notte eterna,
di remota Potenza infausto segno.

Ed ora si avviò, lento, al tramonto
il vecchio mondo.
Appassiva il giardino di delizie,
beato asilo alla progenie nuova.
Gli uomini, non piú bimbi, nel fatale
crescer degli anni,
di salire anelavano d’un balzo
in piú liberi spazii e piú deserti.

Scomparsi i Numi coi loro corteggi,
inanimata e sola
la Natura restò. Legò con ferrea
catena, stretti, il Numero ed il Ritmo:
arido l’uno e l’altro inesorabile.
In pulviscolo aereo di parole
oscure al senso, cadde giú dissolto
lo smisurato fiore della Vita.

Scomparsa era la Fede, che dal nulla
suscita i mondi;
scomparsa la divina Fantasia,
che tutti li trasforma e li affratella.
Infesto, un boreal vento soffiava
sui campi assiderati;
e la terra stupenda, intirizzita,
per l’ètere svaní.

I remoti del cielo immensi spazii
s’empiron tutti di fulgenti stelle.
In piú profondo santuario, in cima
alle piú alte vette dello Spirito,
l’anima della Vita si ritrasse
con le potenze sue,
per dominare quivi in sino all’alba
del tempo nuovo, in cui risorgerebbe
lo splendore del mondo.

Non piú la Luce era soggiorno eletto
dai Numi in terra;
non piú, divino segno.
Di un velame notturno, Essi, si cinsero.
E da quest’attimo,
fu la Notte il possente alvo capace
delle Rivelazioni.

Quivi gli Dei tornarono, cadendo
in un presago sonno,
 a uscirne in nuove e piú splendenti forme
sul rinnovato mondo.

… Ed ecco: in mezzo al popolo
che, a tutti inviso, s’era fatto adulto
precocemente in estraniato sdegno
contro i beati sogni
del giovanil candore,
con vólto non mai visto apparve, adesso,
il Nuovo Mondo…
Nella capanna della Povertà,
immateriale asilo.
Il Figlio della prima
Vergine e Madre insieme!
Misterioso amplesso,
ed infinito Frutto!
La florida sapienza d’Oriente,
prima d’ogni altra, ravvisò, presaga,
l’alba del Nuovo Tempo.
Un astro le insegnò la buona via
alla dimessa culla
del piú potente Re.
E nel nome dei secoli a venire,
giunse l’offerta a Lui
d’oro d’incenso e mirra;
Fulgore e Olezzo: i massimi
doni della Natura.

Il suo divino solitario cuore
in un florido calice si aprí
d’onnipotente Amore.
Il Pargolo celeste al nobil vólto
si protendea del Padre,
riposando tranquillo, Egli, nel grembo
preveggente e beato
della sua Madre sorridente e austera.
Con profetico sguardo,
si affissava, pei secoli venturi,
nei diletti germogli del suo tronco,
noncurante di sé, della sua propria
sorte terrena.

Subitamente, i piú candidi spiriti,
affascinati dal profondo amore,
gli si strinsero attorno. E accanto a Lui,
siccome la campagna a primavera,
germinava fiorendo una novella
non mai comparsa Vita.
Parole inesauribili
di giocondi messaggi,
come faville d’un mondo celeste,
cadevan via dalle amorose labbra.

Nato laggiú, sotto il cielo sereno
dell’Ellade felice,
dalle coste lontane, in Palestina
venne un Araldo.
Ed al Fanciullo prodigioso, tutto
donava egli il suo cuore:

« Sei tu, l’Efebo che da lungo tempo
stava pensoso sulle nostre tombe,
il Segno consolante nella Tenebra,
l’Alba di una piú alta Umanità.
Quel che c’immerse in un lutto profondo,
in un soave anelito c’innalza.
Nella Morte, apparí la Vita eterna;
E la Morte sei tu, — che ci guarisce ».

Verso l’Indostan, poi, trasse l’Araldo.
Di un dolce amor gli traboccava il cuore.
Ed in focosi canti
egli cosí sotto quei miti cieli
lo riversava,
che mille e mille cuori innanzi a Lui
piegaron proni. E la Buona Novella
súbito rameggiò, crescendo in alto.
Scomparve, quindi. E la preziosa vita
del rivelato Iddio
subitamente s’immolava, offerta
al rovinar della progenie umana.

Morí,
giovane d’anni,
strappato via dalla diletta terra,
dalla sua Madre in lagrime,
dai Fedeli sgomenti.
Un tenebroso calice vuotava
d’inaudite sofferenze,
quell’amorosa bocca.
Terrificante angoscia,
l’Alba gli s’appressò dell’Era nuova.
Duramente, lottò contro i terrori
della Morte primeva. Il Vecchio Mondo
gravò su Lui con il peso schiacciante.
Anche una volta si affissò, spirando
tenero ardore,
verso la Madre sua. Liberatrice,
quindi la mano scese
del sempiterno Amore;
ed Ei si addormentò.

Pochi giorni soltanto, un velo buio
sugli ululanti mari
posò: sovra le terre tremebonde.
Lagrime innumerevoli
sparsero sull’avello i suoi Fedeli…
Dissuggellato, apparve, indi, il Mistero.
Spiriti giú dal cielo
risollevaron la vetusta pietra
via dall’oscura tomba.
Accanto al Dormiente,
sedean, formati dall’aereo spiro
de’ sogni suoi, Angeli belli. Ed Egli,
risuscitato in un fulgente Iddio,
divinamente al vertice saliva
del neonato Mondo.

Nell’Antro abbandonato,
con le sue mani, seppellí le spoglie
del mondo antico:
e vi posò, con gesto onnipotente,
la pietra che mai piú Forza veruna
solleverà nei secoli.

Versano ancóra i tuoi fedeli lagrime,
per Te, di gaudio e di commossa eterna
riconoscenza, presso il tuo sepolcro.
Ti veggon sempre
risuscitare in giubilo sgomento,
e si ammirano in Te risuscitati.
Dirottamente piangere Ti vedono
un pianto dolce al seno della Madre;
austeramente camminar,  guidando
i discepoli amati;
parole pronunciar simili a foglie
strappate al tronco della Vita immenso;
con impeto balzar gonfio di aneliti
nelle braccia del Padre,
a Lui la nuova umanità recando,
la coppa inesauribile
onde sgorga il Domani in flutti d’oro.

E ti seguía subitamente
in trionfo pei cieli,
la Madre tua.
Si assise, prima, accanto a Te beata
nella tua patria nuova.
Da quel tempo, scorrean secoli molti:
e in sempre piú fulgente
magnificenza,
il tuo Creato si animò di vita.

Dai tormentosi abissi del Dolore,
trassero a Te miriadi
d’umani spiriti
colmi di fede in un perpetuo anelito.
Regnan con Te, con la celeste Vergine,
nel regno dell’Amore.
Servono al tempio della Morte santa:
sono i tuoi figli, per l’eternità.

La pietra è sollevata;
l’umanità risorta;
infrante le catene.
Ora, siam tuoi, Signore!
Nell’ultimo convivio,
col mondo e con la vita,
sparve ogni affanno innanzi
alla tua coppa d’oro.

La morte a nozze invoca:
ardon le chiare lampade;
le Vergini son pronte;
l’olio divino abbonda.
Risuonino gli spazii
del giunger tuo, Signore!
E noi le stelle chiamino,
squilli di voci umane.

Si levan già, Maria,
a mille in alto i cuori;
dal tenebroso mondo,
non bramano che Te.
In estasi presaga
speran che guariranno,
se tu li accogli, o Madre,
misericorde al seno.

Cosí, (consunti, alcuni,
in fiamme di dolore),
evasi al triste mondo,
ebber rifugio in Te.
Consolatrice santa
d’ogni travaglio umano!
Prendi anche noi fra quelli;
danne l’eterna pace!

Ora, a nessuna tomba
piange chi crede ed ama.
Dolce retaggio, a tutti,
resta il divino Amore;
balsamo d’ogni affanno,
la Notte incantatrice.
Cuori beati in cielo
veglian sui nostri cuori.

L’umanità procede
verso la Vita eterna.
Intimo ardore, l’anima
rischiara e ci dilata.
In aureo filtro stemprasi
la costellata vòlta.
Noi lo sorbiamo: e in chiari
astri ci muteremo.

Sciolto è l’Amore: e al mondo
non v’ha distacco piú.
La Vita ondeggia in piena
come un immenso mare.
Unica Notte-Ebbrezza,
poema sempiterno.
E di noi tutti è il sole,
Vólto di Luce, — Dio.

Novalis

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Inni alla notte”, riduzione in versi italiani e introduzione di Vincenzo Errante, Gruppo Editoriale Domus, Milano, 1942

Dall’altra parte degli occhi – Marco Luppi

Foto di Jonas Hafner

 

Io non sono tra i miei complici
se non dentro gli occhi tuoi chiusi

con vespri car (di) nali
nel nostro (in) chiostro il cedere
del non sempre nella cenere.
Fatti ancora un po’ più vicina
così da leccarti l’anima
assente, prima della terza stanza.
Quanto il male inutile quanto il male
colonia del sangue e delle ossa,
si credeva si scherzasse
nella saliva che scendeva.
Nell’incavo della fuga rimane
acacia. Polve di miele le lune.

Estradizione al contrario,
spaesamento di un luccichìo.
In bocca il sapore tuo
è il sapere del mio Dio.

Marco Luppi

da “Dalla parte della radice”, Eretica Edizioni, 2016

Marco Luppi, Dalla parte della radice, Eretica Edizioni, 2016
Introduzione
    di Pier Damiano Ori
     Poesia di pensiero e di indignazione. “Dalla parte della radice” inizia con un autentico manifesto intellettuale e civile direttamente rivolto, senza timori in un gioco di idiosincrasie e più caute e laterali adozioni, al giorno presente: “Non mi stupisco/ dell’arroganza diventata/ più contagiosa della tristezza” e ancora “di chi fa finta di niente/ facendo finta di fare”. Osservazioni sociali, antropologiche che danno vita a un elenco, tristemente sofisticato di ciò che ha deragliato, soprattutto dall’inizio del nuovo millennio.
     Da qui parte un viaggio interiore e stilistico fra i più complessi nella poesia italiana 2.0 che alterna l’indignazione civile, a volte proprio la protesta, alla riflessione filosofica, dove i due filoni non solo si amalgamano, ma si nutrono e si rafforzano l’un l’altro: Dall’orditura incostante/ dell’orologio fermo/ di luce lacrima/ l’occhio prosciugato”.
Una poesia che nella sua versificazione robusta, veloce e appropriata nello stesso tempo diventa l’obiettivo con cui riprendere il mondo. In questo modo l’oggetto diventa sempre soggetto “da non riuscire più a scrivere/ il proprio nome/ rispettando lo spazio”.
     Il pensiero poetico di Luppi non rispetta la gara, “teme il vincitore sempre banale”. Si pone invece, come dice il titolo del libro, che è da prendere alla lettera, “dalla parte della radice”. Lo fa riflettendo sulla poesia, spiazzando; l’autore sceglie questo terreno, la riflessione estetico-etica, per introdurci al catalogo dei propri strumenti linguistici, che sono vari: compreso il gioco di parole o meglio il gioco dei versi a volte quasi enigmistico; l’uso della lirica per esprimere, però, più pensiero che sensazione o sentimento; una rima libera od occasionale ma sempre stringente fino ad arrivare a “un solo verso”.
Luppi non teme di perdersi se non “nell’oceano/ reciso/ della traduzione”; governa il labirinto che nelle sue mani diventa un percorso, solo più ricco di sorprese, di agguati alla nostra pigrizia dietro i suoi angoli. Così coraggio e consapevolezza portano a un esito alto, fra i più alti nella poesia contemporanea sia dal punto di vista dei temi, dei contenuti, sia nella scelta stilistica che è quella di perseguire il movimento oltre il limite naturale del linguaggio: “Il limite è nella lingua di chi legge/ e nella rima degli occhi di chi scrive”.
     Nelle composizioni finali prevale l’atteggiamento estetico fondante della poetica di Luppi, la sua “diciamo” radice che è la poesia che si fa pensiero o naturalmente il pensiero che si fa poesia: “significante è il ruolo/ non significativo”.
     Con un versificare sciolto, al servizio di un’etica ferita e di un pensiero profondamente solidale con l’umano, usando sofisticati strumenti culturali, Marco Luppi ha composto un libro che arriva dritto dritto al lettore consapevole, dritto ed efficace come una freccia.
Pier Damiano Ori