
Foto di Jerry Uelsmann
CANTATA
1
Fra la notte e il giorno
c’è un territorio indeciso.
Non è luce né ombra:
è tempo.
Ora, pausa precaria.
Pagina che si oscura,
pagina su cui scrivo,
lentamente, queste parole.
La sera
è una brace che si consuma.
Il giorno gira e si sfoglia.
Lima i confini delle cose
un fiume oscuro.
Ostinato e morbido
le trascina, non so dove.
La realtà si allontana.
Io scrivo:
parlo con me
– parlo con te.
Vorrei parlarti
come parlano ora,
quasi cancellati dalle ombre,
l’alberello e l’aria;
come l’acqua che scorre,
soliloquio sonnambulo;
come la pozzanghera muta,
che riflette istantanei simulacri;
come il fuoco:
lingue di fiamma, ballo di scintille,
racconti di fumo.
Parlarti
con parole visibili e palpabili,
con peso, sapore e odore
come le cose.
Mentre lo dico
le cose, impercettibilmente,
si distaccano da se stesse
e fuggono verso altre forme,
verso altri nomi.
Mi rimangono
queste parole: con loro ti parlo.
Le parole sono ponti.
Sono anche trappole, gabbie, pozzi.
Io ti parlo: tu non mi ascolti.
Non parlo con te:
parlo con una parola.
Quella parola sei tu,
quella parola
ti conduce da te stessa a te stessa.
La formammo tu, io, il destino.
La donna che sei
è la donna a cui parlo:
queste parole sono il tuo specchio,
sei te stessa e l’eco del tuo nome.
Anch’io,
parlandoti,
divento un mormorìo,
aria e parole, un soffio,
un fantasma che nasce da queste lettere.
Le parole sono ponti:
l’ombra delle colline di Meknès
su un campo di girasoli estatici
è un golfo viola.
Sono le tre del pomeriggio,
hai nove anni e ti sei addormentato
le braccia fresche della bionda mimosa.
Innamorato della geometria
uno sparviere disegna un cerchio.
Trema all’orizzonte
la mole rame delle colline.
Fra rupi vertiginose
i cubi bianchi di un villaggio.
Una colonna di fumo sale dalla pianura
e a poco a poco si dissipa, aria nell’aria,
come il canto del muezzin
che perfora il silenzio, ascende e fiorisce
in un altro silenzio.
Sole immobile,
immenso spazio di ali aperte;
sopra pianure di riflessi
la sete innalza minareti trasparenti.
Tu non sei addormentata né sveglia:
tu fluttui in un tempo senza ore.
Un soffio appena suscita
remoti paesi di menta e sorgenti.
Lasciati portare da queste parole
verso te stessa.
2
Le parole sono incerte
e dicono cose incerte.
Ma dicano questo o quello,
ci dicono.
Amore è una parola equivoca,
come tutte.
Non è parola,
disse il Fondatore:
è visione,
inizio e corona
della scala della contemplazione
– e il fiorentino:
è un accidente
– e l’altro:
non è la virtù
ma nasce da quello che è la perfezione
– e gli altri:
una febbre, una pena,
una battaglia, una frenesia, uno stupore,
una chimera.
Il desiderio lo inventa,
lo ravvivano i digiuni e le lacerazioni,
la gelosia lo stimola,
l’abitudine lo uccide.
Un dono,
una condanna.
Furia, beatitudine.
È un nodo: vita e morte.
Una piaga
che è rosa di resurrezione.
È una parola:
dicendola, ci dice.
L’amore inizia nel corpo
dove termina?
Se è fantasma,
si incarna in un corpo;
se è corpo,
al toccarlo si dissipa.
Fatale specchio:
l’immagine desiderata svanisce,
tu ti affoghi nei tuoi stessi riflessi.
Festino di spettri.
Apparizione:
l’istante ha corpo e occhi,
mi guarda.
Alla fine la vita ha volto e nome.
Amare:
fare di un’anima un corpo,
fare di un corpo un’anima,
fare un tu di una presenza.
Amare:
aprire la porta proibita,
passaggio
che ci porta all’altro lato del tempo.
Istante:
rovescio della morte,
nostra fragile eternità.
Amare è perdersi nel tempo,
essere specchio fra specchi.
È idolatria:
divinizzare una creatura
e ciò che è temporale chiamare eterno.
Tutte le forme di carne
sono figlie del tempo,
simulacri.
Il tempo è il male,
l’istante
è la caduta;
amare è precipitarsi:
cadere interminabilmente,
il nostro compagno
è il nostro abisso.
L’abbraccio:
geroglifico della distruzione.
Lascivia: maschera della morte.
Amare: una variazione,
appena un momento
nella storia della cellula primigenia
e delle sue innumerevoli scissioni.
Asse
su cui ruotano le generazioni.
Invenzione, trasfigurazione:
la ragazza diventa fonte,
i capelli costellazione,
isola la donna addormentata.
Il sangue:
musica nel diramarsi delle vene;
il tatto:
luce nella notte dei corpi.
Trasgressione
della fatalità naturale,
cerniera
che allaccia destino e libertà,
domanda
incisa sulla fronte del desiderio:
accidente o predestinazione?
Memoria, cicatrice:
– da dove siamo stati strappati?,
cicatrice,
memoria: sete di presenza,
ricerca
della metà perduta.
L’Uno
è il prigioniero di se stesso,
è,
solamente è,
non ha memoria,
non ha cicatrice:
amare è due,
sempre due,
abbraccio e lotta,
due è voler essere uno
ed essere l’altro, l’altra;
due non riposa,
non è mai completo,
gira
intorno alla sua ombra,
cerca
ciò che perdemmo nascendo;
la cicatrice si apre:
fonte di visioni;
due: arco sopra il vuoto,
ponte di vertigini;
due:
specchio delle mutazioni.
3
Amore, isola senza ore,
isola circondata di tempo,
chiarore
assediato dalla notte.
Cadere
è ritornare,
cadere è salire.
Amare è avere occhi nelle gemme,
palpare il nodo in cui si annodano
quiete e movimento.
L’arte di amare
è arte di morire?
Amare
è morire e rivivere e rimorire:
è la vivacità.
Ti amo
perché sono mortale
e tu lo sei.
Il piacere ferisce,
la ferita fiorisce.
Nel giardino delle carezze
tagliai il fiore di sangue
per adornare i tuoi capelli.
Il fiore divenne parola.
La parola arde nella mia memoria.
Amore:
riconciliazione con il Gran tutto
e con gli altri,
i minuscoli tutti
innumerevoli.
Tornare al giorno dell’inizio.
Al giorno d’oggi.
La sera è colata a picco.
Fari e riflettori
perforano la notte.
Io scrivo:
parlo con te:
parlo con me.
Con parole d’acqua, di fiamma, d’aria e di terra
inventammo il giardino degli sguardi.
Miranda e Ferdinand si guardano,
interminabilmente, negli occhi
– fino a pietrificarsi.
Un modo di morire
come gli altri.
In alto
le costellazioni scrivono sempre
la stessa parola;
noi,
qui in basso, scriviamo
i nostri nomi mortali.
La coppia
è coppia perché non ha Eden.
Siamo gli espulsi dal Giardino,
siamo condannati a inventarlo
e a coltivare i suoi fiori deliranti,
gioielli vivi che tagliamo
per adornare un collo.
Siamo condannati
ad abbandonare il Giardino:
davanti a noi
sta il mondo.
Coda
Forse amare è imparare
a camminare per questo mondo.
Imparare a rimanere quieti
come il tiglio e la quercia della favola.
Imparare a guardare.
Il tuo sguardo semina.
Piantò un albero.
Io parlo
perché tu raccolga le foglie.
Octavio Paz
(Traduzione di Ernesto Franco)
da “Albero interiore“, 1976-1987, in “Octavio Paz, Il fuoco di ogni giorno”, Garzanti, 1992
***
Carta de creencia
CANTATA
1
Entre la noche y el día
hay un territorio indeciso.
No es luz ni sombra:
es tiempo.
Hora, pausa precaria.
Página que se obscurece,
página en la que escribo,
despacio, estas palabras.
La tarde
es una brasa que se consume.
El día gira y se deshoja.
Lima los confines de las cosas
un río obscuro.
Terco y suave
las arrastra, no sé adónde.
La realidad se aleja.
Yo escribo:
hablo conmigo
– hablo contigo.
Quisiera hablarte
como hablan ahora,
casi borrados por las sombras
el arbolito y el aire;
como el agua corriente,
soliloquio sonámbulo;
como el charco callado,
reflector de instantáneos simulacros;
como el fuego:
lenguas de llama, baile de chispas,
cuentos de humo.
Hablarte
con palabras visibles y palpables,
con peso, sabor y olor
como las cosas.
Mientras lo digo
las cosas, imperceptiblemente,
se desprenden de sí mismas
y se fugan hacia otras formas,
hacia otros nombres.
Me quedan
estas palabras: con ellas te hablo.
Las palabras son puentes.
También son trampas, jaulas, pozos.
Yo te hablo: tú no me oyes.
No hablo contigo:
hablo con una palabra,
Esa palabra eres tú,
esa palabra
te lleva de ti misma a ti misma.
La hicimos tú, yo, el destino.
La mujer que eres
es la mujer a la que hablo:
estas palabras son tu espejo,
eres tú misma y el eco de tu nombre.
Yo también,
al hablarte,
me vuelvo un murmullo,
aire y palabras, un soplo,
un fantasma que nace de estas letras.
Las palabras son puentes:
la sombra de las colinas de Meknès
sobre un campo de girasoles estáticos
es un golfo violeta.
Son las tres de la tarde,
tienes nueve años y te has adormecido
entre los brazos frescos de la rubia mimosa.
Enamorado de la geometría
un gavilán dibuja un círculo.
Tiembla en el horizonte
la mole cobriza de los cerros.
Entre peñascos vertiginosos
los cubos blancos de un poblado.
Una columna de humo sube del llano
y poco a poco se disipa, aire en el aire,
como el canto del muecín
que perfora el silencio, asciende y florece
en otro silencio.
Sol inmóvil,
inmenso espacio de alas abiertas;
sobre llanuras de reflejos
la sed levanta alminares transparentes.
Tú no estás dormida ni despierta:
tú flotas en un tiempo sin horas.
Un soplo apenas suscita
remotos países de menta y manantiales.
Déjate llevar por estas palabras
hacia ti misma.
2
Las palabras son inciertas
y dicen cosas inciertas.
Pero digan esto o aquello,
nos dicen.
Amor es una palabra equívoca,
como todas.
No es palabra,
dijo el Fundador:
es visión,
comienzo y corona
de la escala de la contemplación
– y el florentino:
es un accidente
– y el otro:
no es la virtud
pero nace de aquello que es la perfección
—y los otros:
una fiebre, una dolencia,
un combate, un frenesí, un estupor,
una quimera.
El deseo lo inventa,
lo avivan ayunos y laceraciones,
los celos lo espolean,
la costumbre lo mata.
Un don,
una condena.
Furia, beatitud.
Es un nudo: vida y muerte.
Una llaga
que es rosa de resurrección.
Es una palabra:
al decirla, nos dice.
El amor comienza en el cuerpo
¿dónde termina?
Si es fantasma,
encarna en un cuerpo;
si es cuerpo,
al tocarlo se disipa.
Fatal espejo:
la imagen deseada se desvanece,
tú te ahogas en tus propios reflejos.
Festín de espectros.
Aparición:
el instante tiene cuerpo y ojos,
me mira.
Al fin la vida tiene cara y nombre.
Amar:
hacer de un alma un cuerpo,
hacer de un cuerpo un alma,
hacer un tú de una presencia.
Amar:
abrir la puerta prohibida,
pasaje
que nos lleva al otro lado del tiempo.
Instante:
reverso de la muerte,
nuestra frágil eternidad.
Amar es perderse en el tiempo,
ser espejo entre espejos.
Es idolatría:
endiosar una criatura
y a lo que es temporal llamar eterno.
Todas las formas de carne
son hijas del tiempo,
simulacros.
El tiempo es el mal,
el instante
es la caída;
amar es despeñarse:
caer interminablemente,
nuestra pareja
es nuestro abismo.
El abrazo:
jeroglífico de la destrucción.
Lascivia: máscara de la muerte.
Amar: una variación,
apenas un momento
en la historia de la célula primigenia
y sus divisiones incontables.
Eje
de la rotación de las generaciones.
Invención, transfiguración:
la muchacha convertida en fuente,
la cabellera en constelación,
en isla la mujer dormida.
La sangre:
música en el ramaje de las venas;
el tacto:
luz en la noche de los cuerpos.
Trasgresión
de la fatalidad natural,
bisagra
que enlaza destino y libertad,
pregunta
grabada en la frente del deseo:
¿accidente o predestinación?
Memoria, cicatriz:
– ¿de dónde fuimos arrancados?,
cicatriz,
memoria: sed de presencia,
querencia
de la mitad perdida.
El Uno
es el prisionero de sí mismo,
es,
solamente es,
no tiene memoria,
no tiene cicatriz:
amar es dos,
siempre dos,
abrazo y pelea,
dos es querer ser uno mismo
y ser el otro, la otra;
dos no reposa,
no está completo nunca,
gira
en torno a su sombra,
busca
lo que perdimos al nacer;
la cicatriz se abre:
fuente de visiones;
dos: arco sobre el vacío,
puente de vértigos;
dos:
espejo de las mutaciones.
3
Amor, isla sin horas,
isla rodeada de tiempo,
claridad
sitiada de noche.
Caer
es regresar,
caer es subir.
Amar es tener ojos en las yemas,
palpar el nudo en que se anudan
quietud y movimiento.
El arte de amar
¿es arte de morir?
Amar
es morir y revivir y remorir:
es la vivacidad.
Te quiero
porque yo soy mortal
y tú lo eres.
El placer hiere,
la herida florece.
En el jardín de las caricias
corté la flor de sangre
para adornar tu pelo.
La flor se volvió palabra.
La palabra arde en mi memoria.
Amor:
reconciliación con el Gran todo
y con los otros,
los diminutos todos
innumerables.
Volver al día del comienzo.
Al día de hoy.
La tarde se ha ido a pique.
Lámparas y reflectores
perforan la noche.
Yo escribo:
hablo contigo:
hablo conmigo.
Con palabras de agua, llama, aire y tierra
inventamos el jardín de las miradas.
Miranda y Fernand se miran,
interminablemente, en los ojos
– hasta petrificarse.
Una manera de morir
como las otras.
En la altura
las constelaciones escriben siempre
la misma palabra;
nosotros,
aquí abajo, escribimos
nuestros nombres mortales.
La pareja
es pareja porque no tiene Edén.
Somos los expulsados del Jardín,
estamos condenados a inventarlo
y cultivar sus flores delirantes,
joyas vivas que cortamos
para adornar un cuello.
Estamos condenados
a dejar el Jardín:
delante de nosotros
está el mundo.
Coda
Tal vez amar es aprender
a caminar por este mundo.
Aprender a quedarnos quietos
como el tilo y la encina de la fábula.
Aprender a mirar.
Tu mirada es sembradora.
Plantó un árbol.
Yo hablo
porque tú meces los follajes.
Octavio Paz
da “Árbol adentro” (1976-1987), Barcelona: Seix Barral, 1987
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