Candele – Costantino Kavafis

Foto di Hengki Koentijoro

 

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese −
dorate, calde, e vivide.

Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le piú vicine dànno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.

Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.

Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

Costantino Kavafis

(Traduzione di Filippo Maria Pontani)

 da “Poesie”, “Lo Specchio” Mondadori, 1961

∗∗∗

Κεριά

Του μέλλοντος η μέρες στέκοντ’ εμπροστά μας
σα μια σειρά κεράκια αναμένα —
χρυσά, ζεστά, και ζωηρά κεράκια.

Η περασμένες μέρες πίσω μένουν,
μια θλιβερή γραμμή κεριών σβυσμένων·
τα πιο κοντά βγάζουν καπνόν ακόμη,
κρύα κεριά, λυωμένα, και κυρτά.

Δεν θέλω να τα βλέπω· με λυπεί η μορφή των,
και με λυπεί το πρώτο φως των να θυμούμαι.
Εμπρός κυττάζω τ’ αναμένα μου κεριά.

Δεν θέλω να γυρίσω να μη διω και φρίξω
τι γρήγορα που η σκοτεινή γραμμή μακραίνει,
τι γρήγορα που τα σβυστά κεριά πληθαίνουν.

Κωνσταντίνος Καβάφης

da “Από τα Ποιήματα 1897-1933”, Ίκαρος, 1984

da «Amorgo» – Nikos Gatsos

Foto di Allan Grant

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[VI]

Quanto ti ho amata lo so soltanto io
Io che una volta ti sfiorai con gli occhi delle Pleiadi
Ti abbracciai con la criniera della luna e danzammo
nei campi d’estate
Sul canneto falciato e mangiammo insieme il trifoglio reciso
Grande mare nero con tanti ciottoli attorno al collo
tante pietruzze colorate nei tuoi capelli.
Una nave entra nel lido rimbomba una noria arrugginita
Un ciuffo di fumo azzurro dentro il rosa dell’orizzonte
Uguale all’ala della gru che si dibatte
Eserciti di rondini aspettano di dare il benvenuto ai prodi
Braccia nude si levano con àncore graffite sull’ascella
Urla di bimbi si confondono
con il gorgheggio del ponentino
Api vanno e vengono nelle narici delle mucche
Sventolano fazzoletti di Kalamata
E una campana in lontananza tinge il cielo d’indaco
Come la voce di un crepitàcolo che viaggia tra le stelle
Per tanti secoli in fuga
Dall’anima dei Goti e dalle cupole di Baltimora
E da Santa Sofia perduta il grande monastero.

[…]

Nikos Gatsos

(Traduzione di Filippomaria Pontani)

da “Amorgo”, 1943

da “Poeti greci del Novecento”, “I Meridiani” Mondadori, 2010

∗∗∗

[ΣT]

Πόσο πολύ σέ έγάπησα ἐγώ μονάχα τό ξέρω
Ἐγώ πού ϰάποτε σ᾿ ἄγγιξα μέ τά μάτια τῆς πούλιας
Καί μέ τή χαίτη τοῦ φεγγαριοῦ σ᾿ έγϰάλιασα ϰαί
χορέψαμε μές στούς ϰαλοϰαιριάτιϰους ϰάμπους
Πάνω στή θερισμένη ϰαλαμιά ϰαί φάγαμε μαζί τό ϰομμένο τριφύλλι
Μαύρη μεγάλη θάλασσα μέ τόσα βότσαλα τριγύρω στό
λαιμό τόσα χρωματιστά πετράδια στά μαλλιά σου.
Ἕνα ϰαράβι μπαίνει στό γιαλό ἕνα μαγγανοπήγαδο σϰουριασμένο βογγάει
Μιά τούφα γαλανός ϰαπνός μές στό τριανταφυλλί τοῦ ὁρίζοντα
Ἴδιος μέ τή φτερούγα τοῦ γερανοῦ πού σπαράζει
Στρατιές χελιδονιῶν περιμένουνε νά ποῦν στούς έντρειωμένους τό ϰαλωσόρισες
Μπράτσα σηϰώνουνται γυμνά μέ χαραγμένες ἄγϰυρες στή μασχάλη
Μπερδεύουνται ϰραυγές παιδιῶν μέ τό ϰελάδημα τοῦ πουνέντε
Μέλισσες μπαινοβγαίνουνε μές στά ρουθούνια τῶν έγελάδων
Μαντήλια ϰαλαματιανά ϰυματίζουνε
Καί μιά ϰαμπάνα μαϰρινή βάφει τόν οὐρανό μέ λουλάϰι
Σάν τή φωνή ϰάποιου σήμαντρου πού ταξιδεύει μέσα στ᾿έστέρια
Τόσους αἰῶνες φευγάτο
Ἀπό τῶν Γότθων τήν ψυχή ϰι έπό τούς τρούλους τῆς Βαλτιμόρης
Κι έπ᾿τή χαμένη Ἁγια-Σοφιά τό μέγα μοναστήρι.

[…]

Νίϰος Γϰάτσος

da “Ἀμοργός”, 1943

Elsa – Jorge Luis Borges

Brassaï, The Hands of Léon-Paul Fargue and Louise de Vilmorin, 1935

 

Notti penose della lunga insonnia
che anelavano all’alba e la temevano,
giorni che vanamente ripetevano
gli ieri, uguali. Oggi li benedico.
Potevo mai presentire in quegli anni
di deserto d’amore che le atroci
favole della febbre e le feroci
aurore fossero solo i gradini
incerti, le vaganti gallerie
per i quali sarei giunto alla pura
vetta azzurra che nell’azzurro dura
della sera d’un giorno, dei miei giorni?
Nella mia è la tua mano, Elsa. Guardiamo
lenta nell’aria la neve e l’amiamo.

Jorge Luis Borges

Cambridge, 1967

(Traduzione di Francesco Tentori Montalto)

da “Elogio dell’ombra”, Einaudi, Torino, 1971

***

Elsa

Noches de largo insomnio y de castigo
que anhelaban el alba y la temían,
días de aquel ayer que repetían
otro inútil ayer. Hoy los bendigo.
¿Cómo iba a presentir que en esos años
de soledad de amor que las atroces
fábulas de la fiebre y las feroces
auroras no eran más que los peldaños
torpes y las errantes galerías
que me conducirían a la pura
cumbre de azul, que el azul perdura
de esta tarde de un día y de mis días?
Elsa, en mi mano está tu mano. Vemos
en el aire la nieve y la queremos.

Jorge Luis Borges

Cambridge, 1967

da “Elogio de la sombra”, Emecé Editores, Buenos Aires, 1969

«A volte sono velo a volte specchio» – Bidel Dehlavi

Inbearable lightness of Being by Liudmila Wilchevskaya

 

A volte sono velo a volte specchio
del tuo splendore, e trasalisco attonito
dell’immagine tua nel mio pensiero.¹

Non dell’acqua né della terra
del conforto s’impasta e foggia
l’essenza della mia passione:
sono la folle polvere
di malinconia che il fremito solleva
della tua gazzella fuggitiva.

Io volo e sfiora il cielo l’orlo
del mio cappello, più in alto ancora
proprio perché umiliati io e il desiderio
le ali spezzate abbiamo a causa tua.

Davanti al sommo bisogno s’incurva
la mia schiena come l’anello
da schiavo del mio orecchio,
e se ascendo più in alto fino al cielo
la falce divento della tua luna.

Non distinguo più alcuna differenza
tra il farsi niente e il permanere eterno,
ma vedo bene che un atomo sono
dell’infinito tuo eterno sole.

Che importa se questo mio tempo
me non riconosce! Il tuo specchio anch’io
ormai son diventato: specchio
della Bellezza tua sulle altre eccelsa.

Come potrebbe non gloriarsi il nero
incenso² mio che è stato acceso ed arde?
Arde il respiro e ardono i sospiri
cercando il nero neo del volto tuo.

Che mai sia colpito nessuno
dalle invidie dell’emula contesa!
Riarse l’henné dei tuoi piedi vedendo
anche me dal tuo piede calpestato.

Non per le mie lacrime rugiada
sarò della tua primavera:
eccomi invece venditore che offre
il succo del sudore del suo volto
acceso di vergogna
al mostrarsi davanti agli occhi tuoi.

Neanche me stesso col pensiero
mio imperfetto so raggiungere.
Oh, strano mio desiderio! Io desidero
in te la perfezione tua raggiungere.

È qui nel sommo che mirabilmente
terrore e pace posano insieme:
sia nel chiuso del nido che nel volo
sono tue le ali che mi coprono.

Non so nulla di me se non per poco.
So che ero solo sguardo di passione,
e sono adesso solo la visione
che il volto tuo immagina e figura.

Il terreno dell’alta gnosi è mondo
dalle radici della dualità.
Perché non esco ormai fuori di me?
Non sono che il tuo arbusto a sé alienato.

M’arde, o Bidel l’Amantesenzacuore,³
la vergogna d’esser privo di un cuore!
No, non posseggo il cuore: ma mi strugge
lo stesso di te la malinconia
per la mancanza e per il desiderio.

Mawlānā Abul-Ma’āni Mirzā Abdul-Qādir Bēdil

(Traduzione di Carla De Bellis e Iman Mansub Basiri)

da “A volte velo a volte specchio”, Liriche persiane (secc. IX-XIX), Editore San Marco dei Giustiniani, 2014

¹L’elegante ḡazal di Bidel rappresenta l’immaginario raffinato e complicato tipico dello stile indiano. La figura dello “specchio”, che appare nel primo verso, è molto diffusa nelle poesie di Bidel. Il ritornello (radif) del ḡazal, che contiene il pronome “tu”, indicato nella traduzione italiana tramite il possessivo “tuo”, mette in evidenza la concentrazione continua del poema sull’oggetto d’amore.
² Questo incenso nero in persiano viene chiamato “(e)sepand” o  “esfand”, che letteralmente significa “santo”. Esso viene tratto dalla Peganum harmala: i semi secchi di questa pianta, spesso mischiati con altri ingredienti, vengono posti sul fuoco ed esplodono rumorosamente. Il “sepand” tradizionalmente si ritiene utile contro il malocchio.
³ II verso è basato sulla paronomasia fra Bidel (pseudonimo poetico ovvero taḵallos del poeta)  e “bi-del” che significa “invaghito”: letteralmente “senza cuore”, “chi ha perso il cuore nell’amore”.

Ma il mio amore non smette – Maria Grazia Calandrone

Pierre Houcmant, Veronique Comme une Statue

 

Non toccarmi, non sono questa cenere
né la salvezza
della carne viva
non la rosa
ma il canto
di una cosa.

Non toccarmi, non sento più dolore
dell’oggetto composto in tutti i sensi
da superfici: strati
di bianco
fino nel buio della profondità, steli d’aria
dal cuore che è
statue in elevazione
uno stato di cose senza sguardo.

Non toccarmi, non ho più intelligenza
dell’albero che ciecamente frutta.
Ho sentito qualcosa che sovrastava.
Ho sentito che siamo incorruttibili.
Ecco allora i bambini
monumenti alla gioia
del corpo quando è forte
più del dolore, monumenti su coppe di silenzio
e un rumore di botole su lastre bianche.

Non toccarmi, sono la pietra bianca
e l’animale sotto la sua luce senza oggetto
e la parte profonda del cielo come una tunica di rovi
e il ruotare dei rovi.
Sotto il sasso c’è un rivolo di sangue, un insetto
senza speranza
e senza dolore
ma il suo canto si spegnerà per ultimo.

Non toccarmi, ho sognato che in cielo
ruotavano i pianeti e io tra quelli
portavo il cuore
esposto, perché la terra è piccola per il dolore
ma qualcosa perdeva sangue, ancora.

Maria Grazia Calandrone

testo tratto dalla rivista “Caffè Michelangiolo”, anno XVI, n. 1, gennaio-aprile 2011, Mauro Pagliai Editore