Tredici rondò su Praga – Jaroslav Seifert

Josef Sudek, Zimní Praha, 1958

DA « MOZART A PRAGA »
I.

Ah, se quel flauto io sapessi sonare
come so mettere i miei versi in rima!
Perché la parola? Che vuoi che esprima
per lei che prende voglia di danzare

quando sente il vento appena spirare
nel lungo silenzio del freddo clima?
Ah, se quel flauto io sapessi sonare
come so mettere i miei versi in rima!

Salgo alla tomba. Il cancello mi appare,
ma è buio, hanno chiuso forse la cima.
No, ancora no! Restai lí a guardare,
bisbigliando per i morti la rima:

Ah, se quel flauto io sapessi sonare!

II.

Che cosa resta qui della visione,
di quella bara tra le porte stretta?
Nulla. L’acqua sull’edera che getta
nelle fessure aperte d’un lastrone.

E quello che segnò la perdizione
ha per vestito solo una giacchetta.
Che cosa resta qui della visione,
di quella bara tra le porte stretta?

E i morti? Solo una croce che espone
a tratti le braccia ricurve e aspetta,
mentre l’angelo ha già rotto l’alone
del suo lume sul filo dell’accetta.

Che cosa resta qui della visione?

III.

Svegliare la morta, andarle vicino,
se pur da cent’anni già fosse morta
e dal muro del nulla sia risorta,
come un’ombra uscita da un manichino.

Vederne i capelli e poi l’orecchino,
e gli occhi, che la morte non riporta;
svegliare la morta, andarle vicino,
se pur da cent’anni già fosse morta.

Cent’anni, e poi ancora qualche mattino,
se solo io sapessi dov’era assorta
nascondendo il suo canto nel giardino,
finché la bocca alla fronda s’è attorta;

svegliare la morta, andarle vicino.

IV.

Ogni memoria il tempo ormai ha spento
e i vivi soffrono questa rapina,
è murata la voce da calcina,
e la terra ha scordato quell’accento.

Nessuno porge notizia o lamento
dove si giace morta Josefina,
ogni memoria il tempo ormai ha spento
e i vivi soffrono questa rapina.

Tuttavia ho ricordo del frammento:
qui crescevi in grappoli, o uva spina,
e colui che a coglierti stava intento
pensava ai baci della sua regina;

ogni memoria il tempo ormai ha spento.

V.

Usa l’unghie il tempo per disegnare,
la pioggia scioglie i segni in pantano.
Vedo il golfo di Napoli, il vulcano,
il fumo che sale, sotto c’è il mare.

Roma è vicina, le vigne a filare,
e il profumo dei fiori fa baccano.
Usa l’unghie il tempo per disegnare,
e la pioggia scioglie i segni in pantano.

La canzone? Chissà! Si può provare.
Ma la signora leverà la mano.
Oggi il respiro potrebbe gelare,
qualunque cosa guardi, tutto è vano,

usa l’unghie il tempo per disegnare.

VI.

Bella mia fiamma, addio!
Leggera l’aria le sfiorò la fronte,
e tacque lei, che ne era stata fonte,
ciò che non dice neppure il leggio.

Non accendete, no! La sera è oblio,
le parole lascian piú lievi impronte.
Bella mia fiamma, addio!
Leggera l’aria le sfiorò la fronte.

Mossi dal medesimo turbinío,
aprí lei finestre con dita pronte.
Scendeva notte dentro il solatío.
Lontano, Praga, rosa all’orizzonte.

Bella mia fiamma, addio!

VII.

Miserere mei se dico Praga,
subito accendersi io vedo i vostri occhi;
qui, fra questi rintocchi,
guarisce ogni mia piaga.

E se dal tuo il mio sguardo si divaga,
i suoni del mondo si fanno sciocchi.
Miserere mei se dico Praga,
subito accendersi io vedo i vostri occhi.

Io tornerò, non so da quale plaga,
dovessi nel gelo strisciare i ginocchi,
né darei un giaciglio di questa maga
per un palazzo di Roma e tre cocchi.

Miserere mei se dico Praga!

VIII.

Non ha voglia di intraprendere il viaggio,
l’hanno stancato queste corse vuote.
Tutta Praga è ricolma di sue note
come una brocca e ogni goccia è un raggio.

Verrà l’uomo grigio col suo messaggio?
Fissa un volto dalle sembianze note;
non ha voglia di intraprendere il viaggio,
l’hanno stancato queste corse vuote.

Ma s’infilò nell’ingombro equipaggio,
tirò la tenda, mossero le ruote,
partí. Lo minaccia come d’oltraggio
la campana, e questa volta lo scuote.

Non ha voglia di intraprendere il viaggio.

IX.

Avanza il funerale, il morto è solo.
E Vienna? Balla sempre e senza fine.
Per la fretta, esequie solo meschine,
e ancora oggi non sanno in quale suolo.

E il ballo spumeggia. Pigliano il volo
a quel suono le dame e le scarpine.
Avanza il funerale, il morto è solo.
E Vienna? Balla sempre e senza fine.

Il lutto si giacque come un lenzuolo
sopra altri tetti, dalla voce affine.
Con un suono solo qui mi consolo:
conoscete campane piú divine?

Avanza il funerale, il morto è solo.

 X.

Sa morire cosí solo un uccello,
e cade a piombo dentro la rugiada.
Nessuno racconta come gli accada,
e non sanno di questo né di quello.

Forse cadde ad alte nubi, un anello
di fiamma da una làvica contrada.
Sa morire cosí solo un uccello,
e cade a piombo dentro la rugiada.

Di cenere era il terreno mantello,
fra i mendicanti una carcassa brada,
ma varcò il buio ed ebbe il suggello,
la gloria e la luce che mai dirada.

Sa morire cosí solo un uccello.

XI.

Cominciamone un’altra, non c’è fretta,
anche se tre la campana misura.
Lo specchio prende ogni volta paura
quando qualcuno sale la scaletta.

Hanno schiarito la voce ed è schietta,
ma non canzone; nessuna sciagura,
cominciamone un’altra, non c’è fretta,
anche se tre la campana misura.

Quante canzoni su questa spinetta,
un velo ora copre su tutte le mura.
S’aggira ancora qui nella saletta
chi il giaciglio amava d’uva matura;

cominciamone un’altra, non c’è fretta.

XII.

Qualche uccello intirizzito su un ramo
verrà in volo al suo nome un bel giorno.
Divelta è la vite senza ritorno
e la neve copre il pozzo ormai gramo.

Di qui cantilenava il suo ricamo
un altro fratellino, quello storno,
qualche uccello intirizzito su un ramo
verrà in volo al suo nome un bel giorno.

Il gioioso riso che ricordiamo
una volta disse al tetto: Non torno.
Nella casa entrò il vuoto e uscí il richiamo,
dietro l’eco si cela ora qui intorno

qualche uccello intirizzito su un ramo.

XIII.

Invero, sono di piombo i miei versi,
ho desiderato invano la musa,
sempre io la seguo, ma quasi m’accusano
i passi, sempre al cimitero spersi.

Nell’arco a sette colori diversi
se ne sta nascosta forse confusa;
invero, sono di piombo i miei versi,
ho desiderato invano la musa.

Mi fuggono i piedi, nel rosa immersi,
e li guardo alzarsi, senz’altra scusa,
sopra le parole, negli universi,
dove nessuna via al passo è chiusa;

invero, sono di piombo i miei versi.

Jaroslav Seifert

(Traduzione di Sergio Corduas)

da “Mozart a Praga” (1951), in “Jaroslav Seifert, Vestita di luce”, Einaudi, Torino, 1986

I lamenti I. – Giorgio Caproni

Giorgio Caproni

I.

Ahi i nomi per l’eterno abbandonati
sui sassi! Quale voce, quale cuore
è negli émpiti lunghi – nei velati
soprassalti dei cani? Dalle gole
deserte sugli spalti dilavati
dagli anni, un soffio tronca le parole
morte – sono nel sangue gli ululati
miti che cercano invano un amore
fra le pietre dei monti. E questo è il lutto
dei figli? E chi si salverà dal vento
muto sui morti – da tanto distrutto
pianto, mentre nel petto lo sgomento
della vita piú insorge?… Unico frutto,
oh i nomi senza palpito – oh il lamento.

Giorgio Caproni

1944.

da “Il passaggio d’Enea” (1943- 1955), in “Giorgio Caproni, L’opera in versi”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

Notte di pioggia – Juana de Ibarbourou

Juana de Ibarbourou

 

Piove… Aspetta, non dormire,
Ascolta bene ciò che dice il vento
E ciò che dice l’acqua mentre batte
Con le dita minute contro i vetri.

Tutto il mio cuore diventa orecchio
Per ascoltare l’ammaliata sorella,
Che ha dormito nel cielo,
Che ha visto il sole da vicino,

E adesso scende elastica e allegra
Dalla mano del vento,
Come una viaggiatrice
Che torna dal regno delle meraviglie.

Come sarà felice il grano morbido!
Con quanta avidità s’offrirà l’erba!
Quanti diamanti penderanno adesso
Dal fogliame profondo nei pineti!

Aspetta, non dormire. Ascoltiamo
Il ritmo della pioggia
Appoggia tra i miei seni
La fronte silenziosa.

Io sentirò pulsare le tue tempie
Palpitanti e tiepide
Come fossero dei martelli vivi
Battendo sulla mia carne.

Aspetta, non dormire. Questa notte
Noi due siamo un mondo,
Isolato dal vento e dalla pioggia
Dentro il tiepido rifugio dell’alcova.

Aspetta, non dormire. Questa notte
Siamo forse la radice sublime
Dalla quale germinerà domani
Il tronco bello di una stirpe nuova.

Juana de Ibarbourou

(Traduzione di Martha Canfield)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVIII, Dicembre 2005, N. 200, Crocetti Editore

***

Noche de lluvia

Llueve… Espera, no te duermas,
Estáte atento a lo que dice el viento
Y a lo que dice el agua que golpea
Con sus dedos menudos en los vidrios.

Todo mi corazón se vuelve oídos
Para escuchar a la hechizada hermana,
Que ha dormido en el cielo,
Que ha visto al sol de cerca,

Y baja ahora elástica y alegre
De la mano del viento,
Igual que una viajera
Que toma de un país de maravilla.

¡Cómo estará de alegre el trigo ondeante!
¡Con qué avidez se esponjará la hierba!
¡Cuántos diamantes colgarán ahora
Del ramaje profundo de los pinos!

Espera, no te duermas. Escuchemos
El ritmo de la lluvia.
Apoya entre mis senos
Tu frente taciturna.

Yo sentiré el latir de tus dos sienes
Palpitantes y tibias,
Como si fueran dos martillos vivos
Que golpearan mi carne.

Espera, no te duermas. Esta noche
Somos los dos un mundo
Aislados por el viento y por la lluvia
Entre la cuenca tibia de una alcoba.

Espera, no te duermas. Esta noche
Somos acaso la raíz suprema
De donde debe germinar mañana
El tronco bello de una raza nueva

Juana de Ibarbourou

da “Obras escogidas”, Andres Bello, 1998

Labirinto – Wisława Szymborska

Foto di Chema Madoz

 

– e ora qualche passo
da parete a parete,
su per questi gradini
o giù per quelli,
e poi un po’ a sinistra,
se non a destra,
dal muro in fondo al muro
fino alla settima soglia,
da ovunque, verso ovunque
fino al crocevia,
dove convergono,
per poi disperdersi
le tue speranze, errori, dolori,
sforzi, propositi e nuove speranze.

Una via dopo l’altra,
ma senza ritorno.
Accessibile soltanto
ciò che sta davanti a te,
e laggiù, a mo’ di conforto,
curva dopo curva,
e stupore su stupore,
e veduta su veduta.
Puoi decidere
dove essere o non essere,
saltare, svoltare
pur di non farti sfuggire.
Quindi di qui o di qua
magari per di lì,
per istinto, intuizione,
per ragione, di sbieco,
alla cieca,
per scorciatoie intricate.
Attraverso infilate di file
di corridoi, di portoni,
in fretta, perché nel tempo
hai poco tempo,
da luogo a luogo,
fino a molti ancora aperti,
dove c’è buio ed incertezza
ma insieme chiarore, incanto
dove c’è gioia, benché il dolore
sia pressoché lì accanto
e altrove, qua e là,
in un altro luogo e ovunque
felicità nell’infelicità
come parentesi dentro parentesi,
e così sia
e d’improvviso un dirupo,
un dirupo, ma un ponticello,
un ponticello, ma traballante,
traballante, ma solo quello,
perché un altro non c’è.

Deve pur esserci un’uscita,
è più che certo.
Ma non tu la cerchi,
è lei che ti cerca,
e lei fin dall’inizio
che ti insegue,
e il labirinto
altro non è
se non la tua, finché è possibile,
la tua, finché è tua
fuga, fuga –

Wisława Szymborska

(Traduzione di Pietro Marchesani)

da “Due punti / Qui”, Libri Scheiwiller, 2010

∗∗∗

Labirynt

− a teraz kilka kroków
od ściany do ściany,
tymi schodkami w górę,
czy tamtymi w dół,
a potem trochę w lewo,
jeżeli nie w prawo,
od muru w głębi muru
do siódmego progu,
skądkolwiek, dokądkolwiek
aż do skrzyżowania,
gdzie się zbiegają,
żeby się rozbiegnąć
twoje nadzieje, pomyłki, porażki,
próby, zamiary i nowe nadzieje.

Droga za drogą,
ale bez odwrotu.
Dostępne tylko to,
co masz przed sobą,
a tam, jak na pociechę,
zakręt za zakrętem,
zdumienie za zdumieniem,
za widokiem widok.
Możesz wybierać
gdzie być albo nie być,
przeskoczyć, zboczyć
byle nie przeoczyć.
Więc tędy albo tędy,
chyba że tamtędy,
na wyczucie, przeczucie,
na rozum, na przełay,
na chybił trafił,
na splątane skróty.
Przez któreś z rzędu rzędy
korytarzy, bram,
prędko, bo w czasie
niewiele masz czasu,
z miejsca na miejsce
do wielu jeszcze otwartych,
gdzie ciemność i rozterka
ale prześwit, zachwyt,
gdzie radość, choć nieradość
nieomal opodal,
a gdzie indziej, gdzieniegdzie,
ówdzie i gdzie bądź
szczęście w nieszczęściu
jak w nawiasie nawias,
i zgoda na to wszystko
i raptem urwisko,
urwisko, ale mostek,
mostek, ale chwiejny,
chwiejny, ale jedyny,
bo drugiego nie ma.

Gdzieś stąd musi być wyjście,
to więcej niż pewne.
Ale nie ty go szukasz,
to ono cię szuka,
to ono od początku
w pogoni za tobą,
a ten labirynt
to nic innego jak tylko,
jak tylko twoja, dopóki się da,
twoja, dopóki twoja,
ucieczka, ucieczka −

Wisława Szymborska

da “Dwukropek”, Wydawnictwo a5, Kraków, 2005

«Non so se sei vivo» – Anna Andreevna Achmatova

69

Non so se sei vivo
o sei perduto per sempre,
se posso ancora cercarti nel mondo
o ti debbo piangere mestamente
come morto nei pensieri della sera.
Ti ho dato tutto: la quotidiana preghiera
e l’illanguidente febbre dell’insonnia,
lo stormo bianco dei miei versi
e l’azzurro incendio degli occhi.
Nessuno mi è stato più intimo di te,
nessuno mi ha reso più triste,
nemmeno chi mi ha tradita fino al tormento,
nemmeno chi mi ha lusingata e poi dimenticata.

Anna Andreevna Achmatova

Slepnevo, estate 1915

(Traduzione di Gene Immediato)

da “Lo Stormo Bianco”, Edizioni San Paolo, 1995

∗∗∗

69

Я не знаю, ты жив или умер, –
На земле тебя можно искать
Или только в вечерней думе
По усопшем светло горевать.

Все тебе: и молитва дневная,
И бессонницы млеющий жар,
И стихов моих белая стая,
И очей моих синий пожар.

Мне никто сокровенней не был,
Так меня никто не томил,
Даже тот, кто на муку предал,
Даже тот, кто ласкал и забыл.

Анна Андреевна Ахматова

Слепнево, Лето, 1915

da “Анна Ахматова, Белая стая”, Петроград, 1917