Mia madre – Attila József

André Kertész, La lavandaia, 1928

 

Con due mani reggeva la tazza:
al calar della sera una domenica
in silenzio sorrise; si sedette
nella penombra un poco.

Si era portata in un casserolino
dalle Eccellenze, a casa, la sua cena;
ci siamo messi a letto, mi stupivo:
essi mangiano pentole piene.

Era mia madre, piccola, moriva presto:
le lavandaie muoiono presto;
le loro gambe si piegano per il gran peso,
la testa fa male dallo stirare.

È là il bucato, la loro montagna.
Ed è un giuoco di nuvole il vapore,
che calma i nervi: per cambiar aria,
c’è la soffitta per la lavandaia.

Vedo, si ferma col ferro da stiro;
il capitale ha infranto il suo fragile corpo;
sempre più esile divenne:
pensateci, proletari.

Lavare l’ha resa un po’ curva:
e non sapevo che era una donna giovane,
nel suo sogno portava un grembiule pulito,
e allora il postino la salutava.

Attila József

(Traduzione di Umberto Albini)

da “Attila József, Poesie”, Lerici editore, Milano, 1957

∗∗∗

Anyám

A bögrét két kezébe fogta,
úgy estefelé egy vasárnap
csöndesen elmosolyodott
s ült egy kicsit a félhomályban —

Kis lábaskában hazahozta
kegyelmesektől vacsoráját,
lefeküdtünk és eltűnődtem,
hogy ők egész fazékkal esznek —

Anyám volt, apró, korán meghalt,
mert a mosónők korán halnak,
a cipeléstől reszket lábuk
és fejük fáj a vasalástól —

S mert hegyvidéknek ott a szennyes!
Idegnyugtató felhőjáték
a gőz s levegőváltozásul
a mosónőnek ott a padlás —

Látom, megáll a vasalóval.
Törékeny termetét a tőke
megtörte, mindig keskenyebb lett —
gondoljátok meg, proletárok —

A mosástól kicsit meggörnyedt,
én nem tudtam, hogy ifjú asszony,
álmában tiszta kötényt hordott,
a postás olyankor köszönt néki.

Attila József

da “Összes művei: Versek 1929-1937; Zsengék töredékek rögtönzések”, Akademiai Kiadó, 1952, Volume 2

L’avevo fatto nascere… – Angela Botta

René Magritte, La Mémoire, 1948

 

L’avevo fatto nascere,
come si fa nascere l’amore.
Era freddo per aver troppo atteso,
troppo aveva voluto.
Un libro bruciato giaceva nel fondo
dolce sparava alla mia sete,
alla potenza della mia dispersa voce.
Troppo sangue mi dissero.
Eppure era finito da tanto
il tempo degli aironi,
della giovinezza delle violente rose.
Saliva dagli occhi il tuo pensiero
e mi coglieva attonita
mentre disperdevo la bocca
e i denti per l’ultimo respiro.
E ti amavo a bordo del nulla
perché nulla eri.
Eri solo il mio sguardo
che inseguiva me ancora in vita.

Angela Botta

Testo inedito, 21/06/2016

All rights reserved – © Angela Botta

An den Aether. – Friedrich Hölderlin

Dirk Wüstenhagen

 

Treu und freundlich, wie du, erzog der Götter und Menschen
Keiner, o Vater Aether! mich auf; noch ehe die Mutter
In die Arme mich nahm und ihre Brüste mich tränkten,
Faßtest du zärtlich mich an und gossest himmlischen Trank mir,
Mir den heiligen Othem zuerst in den keimenden Busen.
 
Nicht von irdischer Kost gedeihen einzig die Wesen,
Aber du nährst sie all mit deinem Nektar, o Vater!
Und es drängt sich und rinnt aus deiner ewigen Fülle
Die beseelende Luft durch alle Röhren des Lebens.
Darum lieben die Wesen dich auch und ringen und streben
Unaufhörlich hinauf nach dir in freudigem Wachstum.
 
Himmlischer! sucht nicht dich mit ihren Augen die Pflanze,
Streckt nach dir die schüchternen Arme der niedrige Strauch nicht?
Daß er dich finde, zerbricht der gefangene Same die Hülse,
Daß er belebt von dir in deiner Welle sich bade,
Schüttelt der Wald den Schnee wie ein überlästig Gewand ab.
Auch die Fische kommen herauf und hüpfen verlangend
Über die glänzende Fläche des Stroms, als begehrten auch diese
Aus der Wiege zu dir; auch den edeln Tieren der Erde
Wird zum Fluge der Schritt, wenn oft das gewaltige Sehnen,
Die geheime Liebe zu dir, sie ergreift, sie hinaufzieht.
 
Stolz verachtet den Boden das Roß, wie gebogener Stahl strebt
In die Höhe sein Hals, mit der Hufe berührt es den Sand kaum.
Wie zum Scherze, berührt der Fuß der Hirsche den Grashalm,
Hüpft, wie ein Zephyr, über den Bach, der reißend hinabschäumt,
Hin und wieder und schweift kaum sichtbar durch die Gebüsche.
 
Aber des Aethers Lieblinge, sie, die glücklichen Vögel,
Wohnen und spielen vergnügt in der ewigen Halle des Vaters!
Raums genug ist für alle. Der Pfad ist keinem bezeichnet,
Und es regen sich frei im Hause die Großen und Kleinen.
Über dem Haupte frohlocken sie mir und es sehnt sich auch mein Herz
Wunderbar zu ihnen hinauf; wie die freundliche Heimat
Winkt es von oben herab und auf die Gipfel der Alpen
Möcht ich wandern und rufen von da dem eilenden Adler,
Daß er, wie einst in die Arme des Zeus den seligen Knaben,
Aus der Gefangenschaft in des Aethers Halle mich trage.
 
Töricht treiben wir uns umher; wie die irrende Rebe,
Wenn ihr der Stab gebricht, woran zum Himmel sie aufwächst,
Breiten wir über dem Boden uns aus und suchen und wandern
Durch die Zonen der Erd, o Vater Aether! vergebens,
Denn es treibt uns die Lust, in deinen Gärten zu wohnen.
In die Meersflut werfen wir uns, in den freieren Ebnen
Uns zu sättigen, und es umspielt die unendliche Woge
Unsern Kiel, es freut sich das Herz an den Kräften des Meergotts.
Dennoch genügt ihm nicht; denn der tiefere Ozean reizt uns,
Wo die leichtere Welle sich regt – o wer dort an jene
Goldnen Küsten das wandernde Schiff zu treiben vermöchte!
 
Aber indes ich hinauf in die dämmernde Ferne mich sehne,
Wo du fremde Gestad umfängst mit der bläulichen Woge,
Kömmst du säuselnd herab von des Fruchtbaums blühenden Wipfeln,
Vater Aether! und sänftigest selbst das strebende Herz mir,
Und ich lebe nun gern, wie zuvor, mit den Blumen der Erde.

Friedrich Hölderlin

Prima pubblicazione in Musen-Almanach für das Jahr 1798, a cura di F. Schiller, Cotta, Tübingen 1797, pp.131-6; siglata D.

da “Gedichte 1784-1800”, Stuttgart, J.G. Cotta, 1847

∗∗∗

All’Etere    

Nessuno fra gli Dei e fra gli uomini, padre Etere!
Mi allevò come te, amico e leale; ancor prima che la madre
Mi prendesse tra le braccia e i suoi seni mi allattassero,
Con tenerezza mi abbracciasti, instillandomi una celeste bevanda,
Instillando nel mio petto nascente per primo il sacro respiro.

Non di cibo terreno soltanto prosperano le creature,
Ma tu col tuo nettare, padre! tutte le nutri.
E dalla tua eterna dovizia stilla e si spinge
In tutte le cavità della vita l’aura che anima.
Per questo le creature ti amano e lottano e anelano
In lieta crescita verso di te, con ritmo incessante.

Celeste! non ti cerca la pianta con i suoi occhi,
A te non tende il basso cespuglio le sue timide braccia?
Per trovarti il seme rompe la scorza che lo imprigiona,
Per bagnarsi nella tua onda, nella vita che doni,
Il bosco si scrolla di dosso la neve, come una veste opprimente.
Anche i pesci affiorano e guizzano desiderosi
Sulla superficie splendente del fiume, come se anch’essi
Agognassero a te dalla culla; anche ai nobili animali terrestri
Si invola il passo, quando il desiderio possente,
L’amore segreto di te li coglie, sollevandoli in alto.
Fiero sprezza il suolo il destriero, come acciaio ricurvo
Tende in alto il suo collo, lo zoccolo sfiora appena la sabbia.

Sfiora lo stelo il piede del cervo, quasi per scherzo,
Salta, come uno zefiro, oltre il ruscello che corre schiumando
Da una parte e dall’altra e vaga, quasi invisibile, in mezzo ai cespugli.
Ma i prediletti dall’Etere, loro, gli uccelli felici
Abitano e giocano lieti nella volta eterna del padre!
Spazio abbastanza è per tutti. A nessuno è tracciato un sentiero,
E nella casa si muovono liberi i piccoli e i grandi.
Esultano sul mio capo e anche il cuore desidera
Ascendere a loro, mirabilmente; come dal gentile paese natale,
Scende un cenno dall’alto, e sulle vette delle Alpi
Vorrei andare e da lassù chiamare l’aquila veloce,
Perché, come un tempo tra le braccia di Zeus il beato fanciullo
Dalla prigione mi tragga, alla volta dell’Etere,
Folli in lungo e in largo giriamo; come la vite che erra
Quando le si spezza il bastone, sul quale al cielo si arrampica,
Ci disperdiamo sul suolo e per le plaghe della terra,
Raminghi, andiamo in cerca, padre Etere! invano,
Giacché a spingerci è la voglia di abitare nei tuoi giardini.
Nei flutti del mare, nelle pianure più libere ci gettiamo
Per saziarci e l’onda infinita giocando lambisce
La nostra chiglia e il cuore gioisce della forza del Dio marino.
Ma ciò non gli basta, poiché il più profondo oceano ci attira
Dove più lieve l’onda si muove – e chi, chi potrebbe
Attraccare l’errante vascello a quella costa dorata!

Ma mentre in alto mi tendo nella lontananza che sfuma,
Dove con l’onda azzurra tu abbracci le rive straniere,
Dalle cime fiorite dell’albero scendi con un mormorio,
Padre Etere! e tu stesso lenisci il mio cuore che anela,
E, come un tempo, con i fiori della terra io vivo contento.

Friedrich Hölderlin

(Traduzione di Luigi Reitani)

Almanacco delle Muse 1798

da “Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche”, “I Meridiani” Mondadori, 2001

∗∗∗

       3.
ALL’ETERE

Nessuno fra gli Dei né fra i mortali
mi educò come te benignamente,
Etere padre! E prima già che al cuore
mi stringesse la madre e mi porgesse
il nutriente seno, mi accogliesti,
Etere, tu soavemente, il sacro
alito tuo nel germogliante petto
a riversarmi, fluido divino.

Non di cibo terreno unicamente,
le creature vivono. Ma tutte
con il nettare tuo, Padre, le nutri:
e dalla tua pienezza sempiterna
un soffio animatore, ecco, prorompe
scorrendo per le vene del creato.
Ti riaman, per ciò, gli esseri tutti:
per ciò, divincolandosi dal suolo,
urgono aneli verso l’alto, a te,
con inesausto giòlito di ascesa.

   Elisio Nume! Oh, non ti cerca forse
con gli sguardi la pianta? Oh, non ti stende
trepide braccia l’umile cespuglio?
Per ritrovarti, il seme prigioniero
rompe la buccia: ed a bagnar le chiome
ne’ tuoi flutti vitali, il bosco scuote
via la neve da sé, veste importuna.
Dal fondo, desiosi, i pesci salgono;
guizzan sul dosso lucido del fiume
quasi in grembo volessero balzarti,
abbandonata la natía dimora.

Volo diventa, ai nobili animali
che la terra nutrisce, il passo usato,
ove d’un tratto, impetuosa brama,
amor di te li investa e li sollevi.
Superbamente, il misero terreno
spregia il cavallo: e mentre il collo aderge
curvo scattante acciaio, appena tocca
la sabbia con gli zoccoli precipiti.
Come a trastullo, va sfiorando il cervo
gli esili steli: e con un balzo varca,
lieve qual lieve zefiro, e rivarca,
il rapinoso rivo che spumeggia.
Indi, appena visibile, divaga
per l’ombre della florida boscaglia.

Ma gli uccelli felici, essi, dell’Etere
i prediletti figli, ecco, riempiono
di lor garruli giuochi i non effimeri
atrii del Padre. E spazio è, qui, bastante
per ciascuno e per tutti: ed a nessuno
un sentiero tracciato il moto astringe.
Vengono tutti e van, liberamente,
grandi e piccini, per la casa immensa.

Giubilandomi alti, ora, sul capo,
n’odo il richiamo: e in prodigioso balzo
gli vola incontro l’émpito del cuore.
V’è qualcosa, lassú, che arride e invita
con un vólto di patria. Ed aggirarmi
vorrei sovra lo cuspidi dell’alpi,
di là chiamare l’aquila veloce,
che dal terreno carcere mi tragga
o mi rapisca, — come un dí rapiva
il fanciullo felice in braccio a Zeus, —
negli aprichi vestiboli paterni.

   Follemente, quaggiú, noi ci smarriamo
vagabondando. E come il tralcio greve
cade ed aberra, se si spezza il palo
onde al cielo cresceva, anche noi tutti
al suolo espansi trabocchiamo, Padre!
E cerchiamo, e vaghiamo senza posa
per le terre del mondo. Inutilmente,
ché de’ giardini tuoi cresce l’anelito.
A sodisfarlo in piú distesi spazii,
noi ci gettiamo per gli aperti oceani.
Scherzano con la chiglia, allora, l’onde
infinite d’intorno: e la potenza
del Dio marino ci rallegra il cuore.
Ma non si placa. Ché lo attrae, là in alto,
un piú profondo oceano, sommosso
dal mareggiar di piú leggieri flutti.
… E chi potrebbe a quelle rive d’oro
spingere, adesso, l’errabonda nave?

Mentre mi struggo in me di desiderio
per quelle lontananze che si sfumano
in crepuscoli eterni, e in cui recingi
ignote plaghe di azzurrini flutti,
ecco tu scendi susurrando lieve
dalle cime degli alberi frondosi,
Etere padre! Le tue mani
mi van placando I‘impeto dell’anima.
E pago corno un dí ritorno a vivere
rasserenato, sulla terra in fiore.

Friedrich Hölderlin

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Liriche della natura”, in “La lirica di Hoelderlin”, Vol. I, Riduzione in versi italiani e Saggio biografico critico a cura di Vincenzo Errante, Sansoni, 1943

∗∗∗

ALL’ETERE

Nessuno, tra uomini e Dei, fedele e amico mi crebbe
come te, Etere padre. E prima che la madre
mi prendesse tra le braccia e mi nutrisse al seno,
tenero mi avvolgevi versando bevanda di cielo,
il sacro alito primo sul cuore in germoglio.

Non del solo cibo terrestre è il rigoglio degli esseri,
ma tu li nutri tutti del tuo nettare, o Padre:
e l’aria animatrice per tutte le vene vitali
sgorga, scorre da te, dalla tua eterna pienezza.
Così le creature t’amano e lottano e anelano
a te, senza mai sosta, in un gioioso crescere.

E gli occhi della pianta cercano te, o celeste,
il cespuglio basso tende a te le braccia digiune,
il seme prigioniero infrange a trovarti il suo guscio,
per bagnarsi nell’onda tua colma di vita
la selva scuote via il manto gravoso di neve.
Anche i pesci risalgono e avidi balzano
oltre il piano lucente del fiume come bramassero
te uscendo dalla cuna, e si fa ala il passo
dei nobili animali terrestri se li solleva
spesso la voglia possente, l’amore segreto di te.

Il cavallo spregia fiero il suolo, leva il collo curvo
come d’acciaio, appena lo zoccolo tocca la sabbia,
il piede del cervo come per gioco sfiora gli steli,
balza oltre il ruscello schiumoso come lo zefiro,
vanno qua là i cervi visibili appena nel verde.

Ma i prediletti dell’Etere, gli uccelli felici
abitano paghi e giocosi l’eterna sala del Padre,
ricchi di spazio, tutti, e non hanno sentieri,
liberi nella casa, i piccoli e i grandi.
Salutano sul mio capo allegri e il mio cuore li cerca
meravigliosamente: è come la patria del cuore
che da lassù mi chiama, ed io vorrei sulle Alpi
di vetta in vetta andare invocando l’aquila pronta
che dalla prigionia mi levasse alla sala del Padre
come un tempo il felice ragazzo tra le braccia di Zeus. 

Ci trasciniamo, folli. Noi siamo la vite errabonda
a cui infranto è il sostegno per cui ascendeva nel cielo.
E noi ci estendiamo sul suolo, tentando, vagando,
di clima in clima, o Etere padre, invano. Ci spinge
desiderio di avere dimora nei tuoi giardini.
Ci gettiamo nel flusso, nei liberi piani del mare
per saziarci, e il gioco infinito dell’onda
ci avvolge le chiglie, la forza del mare ci allieta
eppure non ci basta. Ci chiama un Oceano più fondo,
che ha onde più leggere − o coste dorate, lassù,
chi potrà condurre a voi la sua nave errabonda!

Ma mentre io anelo a quelle penombre remote
dove le onde azzurre avvolgono rive straniere
tu scendi, e sulla cima dell’albero in fiore stormisci
o Etere padre, quietando il mio cuore bramoso;
lieta mi è la vita, come un tempo, tra i fiori terrestri.

Friedrich Hölderlin

(Traduzione di Enzo Mandruzzato)

da “Friedrich Hölderlin, Le liriche”, Adelphi Edizioni, 1977

«Piangere non è un sussulto di scapole» – Pierluigi Cappello

 

Piangere non è un sussulto di scapole
e adesso che ho pianto
non ho parole migliori di queste
per dire che ho pianto
le parole piú belle
le parole piú pure
non sono lo zampettío delle sillabe
sull’inverno frusciante dei fogli
stanno cosí come stanno
né fuoco né cenere
fra l’ultima parola detta
e la prima nuova da dire
è lí che abitiamo

Pierluigi Cappello

da “La misura dell’erba”, (1993-1998), in “Assetto di volo”, Crocetti Editore, 2006

Vigilia di restare – Juan Vicente Piqueras

Foto di Luigi Ghirri

 

Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.

Mi spolvero le palpebre.
Ho messo all’occhiello
la rosa dei venti.

Tutto è pronto: il mare, l’atlante, l’aria.

Mi manca solo il quando, il dove,
un diario di bordo, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.

La nave che non c’è, le mani attonite,
lo sguardo intento, le imboscate,
il filo ombelicale dell’orizzonte
che sottolinea questi versi sospesi…

Tutto è pronto. Sul serio. Invano.

Juan Vicente Piqueras

(Traduzione di Martha L. Canfield, Norbert Von Prellwitz, Lorenzo Blini o Juan Vicente Piqueras)

da “Palme”, Edizioni Empirìa, 2005, con CD (Poesie scritte e lette da Juan Vicente Piqueras, musiche di Jamal Ouassini)

Le copie sono tutte firmate dall’autore e numerate dalla mano dell’amata.

∗∗∗

Víspera de quedarse             

Todo está preparado: la maleta,
las camisas, los mapas, la fatua esperanza.

Me estoy quitando el polvo de los párpados.
Me he puesto en la solapa
la rosa de los vientos.

Todo está a punto: el mar, el aire, el atlas.

Sólo me falta el cuándo,
el adónde, un cuaderno de bitácora,
cartas de marear, vientos propicios,
valor y alguien que sepa
quererme como no me quiero yo.

El barco que no existe, la mirada,
los peligros, las manos del asombro,
el hilo umbilical del horizonte
que subraya estos versos suspensivos…

Todo está preparado: en serio, en vano.

Juan Vicente Piqueras

da “Presagios”, in “Palmeras”, Diputación Provincial de Málaga, 2007