Aiutiamo Poesia in Rete con il Crowdfunding

AIUTIAMO POESIA IN RETE

 

 

Ciao, mi chiamo Titti, e ho sempre amato follemente la poesia. Un caro amico mi ha suggerito di aprire un blog di poesia, che abbiamo chiamato semplicemente Poesia in Rete. Carlo Congia, che è un bravissimo informatico, l’ha creato, ed io ci ho lavorato per un numero incredibile di ore, imparando tutto quello che serviva, perché per fare un blog serio non occorre solo amare la poesia. Si devono imparare tante cose, ma la passione mi ha spinto a farlo, e naturalmente Carlo mi ha insegnato tutto, tranne la poesia, che era già mia 😉 Abbiamo visto subito che Poesia in Rete era molto apprezzato, forse perché tutte le poesie vengono prese dalle raccolte, quindi c’è sempre la fonte, o forse perché c’è quasi sempre il testo in lingua originale, ma soprattutto perché sono una persona maniacalmente precisa.
Adesso veniamo al dunque. Gestire un blog seriamente, che è il mio più grande sogno, richiede anche fondi… purtroppo la passione non basta.
Chi mi aiuta a realizzare il sogno più grande della mia vita?

AIUTIAMO POESIA IN RETE

Vorrei che questo articolo fosse professionale, ma non riesco a scovare Carlo… forse mettere una sua foto da ragazzo lo farà uscire allo scoperto.

😀 😀 😀

Caffè – Czesław Miłosz

Czesław Miłosz

 

Di questo tavolino al caffè,
dove nei pomeriggi invernali brillava  un giardino di brina,
sono rimasto io solo.
Potrei entrare, se volessi,
e tamburellando con le dita nel freddo vuoto
convocare le ombre.

La nebbia d’inverno sul vetro è la stessa,
ma non entra nessuno.
Il mucchietto di cenere,
la macchia di putredine coperta dalla calce
non si toglie il cappello, non dice allegramente:
Prendiamoci una vodka.

Incredulo tocco il marmo freddo,
incredulo tocco la mia mano:
è così – io sto nel divenire della storia
e loro sono chiusi ormai per tutti i secoli
nel loro ultimo detto, nel loro ultimo sguardo.
Lontani, come l’imperatore Valentiniano,
come i duci dei Massageti, di cui non si sa nulla –
sebbene sia passato solo un anno, o due, o tre.

Posso ancora fare il boscaiolo nel lontano nord,
parlare da una tribuna o girare un film
con metodi che loro non hanno conosciuto.
Posso scoprire il sapore che ha la frutta delle isole oceaniche,
farmi fotografare vestito come usa nella seconda metà del secolo.
Ma loro ormai per sempre sono ridotti a busti in jabot e frac
di un mostruoso Larousse.

Pure talvolta, quando il crepuscolo colora i tetti della povera via
e fisso il cielo – vedo là, tra le nuvole,
un tavolino che oscilla. Il cameriere volteggia col vassoio,
e loro mi guardano scoppiando a ridere.
Perché ancora non so come si muore per crudele mano di un uomo.
E loro lo sanno, lo sanno bene.

Czesław Miłosz

(Traduzione di Valeria Rosselli)

da “Salvezza”, in “Czesław Miłosz, La fodera del mondo”, Fondazione Piazzolla, Roma, 1966 

***

Kawiarnia

Z tego stolika w kawiarni,
Gdzie w zimowe południa błyszczał ogród szronu,
Zostałem ja sam.
Mógłbym tam wejść, gdybym chciał,
I bębniąc palcami w zimnej pustce
Przywoływać cienie.

Mgła zimowa na szybie ta sama.
Ale nie wejdzie nikt.
Garstka popiołu,
Plama zgnilizny wapnem przysypana
Nie zdejmie kapelusza, nie powie wesoło:
Chodźmyna wódkę.

Z niedowierzaniem dotykam zimnego marmuru,
Z niedowierzaniem dotykam własnej ręki:
To — jest i ja jestem w dziejących się dziejach,
A oni są zamknięci juŜ na wieki wieków
W ostatnim swoim słowie, w ostatnim spojrzeniu.
I dalecy jak cesarz Walentynian,
Jak wodzowie Massagetów, o których nie wie się nic —
Choć upłynął zaledwie rok, dwa albo trzy lata.

Mogę być jeszcze drwalem w lasach dalekiej północy,
Mogę przemawiać z trybuny albo nakręcić film
Sposobami, na których oni się nie znali.
Mogę doświadczyć smaku owoców z wysp oceanu
I mieć swoją fotografię w stroju z drugiej połowy stulecia.
A oni juŜ na zawsze jak popiersia w Ŝabotach i frakach
Z monstrualnego Larousse’a.

Ale czasami, kiedy wieczorna zorza barwi dachy ubogiej ulicy
I zapatrzę się w niebo — widzę tam, w obłokach,
Zataczający się stolik. Kelner wiruje z tacą,
A oni patrzą na mnie wybuchając śmiechem.
Bo jeszcze nie wiem, jak się ginie z okrutnej reki człowieka.
Oni wiedzą, oni dobrze wiedzą.

Czesław Miłosz

Warszawa, 1944

da “Ocalenie”, Czytelnik, 1945

La notte viene col canto – Mario Luzi

 

La notte viene col canto
prolungato dell’assiuolo,
semina le sue luci nella conca,
sale per le pendici umide, trema
un poco. La forza in lunghi anni
acquistata a soffrire viene meno
e la piccola scienza si disarma,
il sorriso virile
non ha più la sua calma.

Tu chi sei
che aspettavi invisibile, appostata
a una svolta dell’età
finché fosse la tua ora? Ti devo
questo tempo di gratitudine
e d’altrettanto dolore.

Ed ora l’inquietudine s’insinua,
penetra queste prime notti estive,
invade il muro ancora caldo, segue
il volo delle lucciole sulle aie,
s’inselva nelle viottole ove a un tratto
nell’abbaglio dei fari la lepre saetta.

Cara, come ho potuto non intendere?
La vita era sospesa
tutta come questa veglia.
C’è da piangere a pensare
come ho sciupato questa lunga attesa
con tante parole inadeguate,
con tanti atti inconsulti, irreparabili,
e ora ferito dico non importa
purché il supplizio abbia fine.

«La salvezza sperata così non si conviene
né a te, né ad altri come te. La pace,
se verrà, ti verrà per altre vie
più lucide di questa, più sofferte;
quando soffrire non ti parrà vano
ché anche la pena esiste e deve vivere
e trasformarsi in bene tuo ed altrui.
La fede è in te, la fede è una persona».

Questa canzone non ha più parole.

Mario Luzi

1951

da “Appendice al quaderno gotico”, in “Mario Luzi, L’opera poetica”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

Debito – Titos Patrikios

Foto di Anja Bührer

 

Tra tutta questa morte che è venuta e viene,
guerre, esecuzioni, processi, morte e ancora morte
malattie, fame, fatalità fatali,
amici e nemici assassinati da sicari,
stroncature sistematiche e necrologi pronti,
la vita che vivo è quasi un dono.
Un dono della sorte, se non un furto della vita altrui,
perché la pallottola a cui scampai non andò a vuoto
ma colpí l’altro corpo che si trovò al mio posto.
Cosí, come un dono immeritato, mi fu data la vita,
e tutto il tempo che mi resta
è come se mi fosse stato regalato dai morti
per narrare la loro storia.

Titos Patrikios

Novembre 1957

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Tirocinio (1956-1959)”, in “La resistenza dei fatti”, Crocetti Editore, 2007

∗∗∗

Ὀφειλή

Μέσα ἀπό τόσυ θάνατο ποὑ ἔπεσε ϰαά πέφτει,
πολέμους, ἐϰτελέσας, δίϰες, θάνατο ϰι ἄλλο θάνατο
ἀρρώστια, πείνα, τυχαῖα δυστυχήματα,
δολοφονίες ἀπό πληρωμένους ἐχθρῶν ϰαί φίλων,
συστηματιϰή ὑπόσϰαψη ϰι ἕτοιμες νεϰρολογίες
εἶναι σά νά μοῦ χαρίστηϰε ἡ ζωή ποὑ ζῶ.
Δῶρο τῆς τύχης, ἂν ὄχι ϰλοπή ἀπ’ τή ζωή τῶν ἄλλων,
γιατί ἡ σφαίρα πού τῆς γλύτωσα δέ χάθηϰε
μά χτύπησε τό ἄλλο ϰορμί πού βρέθηϰε στή θέση μου.
Ἕτσι σά δῶρο πού δέν ἄξιζα μοῦ δόθηϰε ἡ ζωή
ϰι ὅσος ϰαιρός μοῦ μένει
σάν οἱ νεϰροί νά μοῦ τόν χάρισαν
γιά νά τούς ἱστορήσω.

Τίτος Πατρίϰιος

Νοέμβρης 1957

da “Μαθητεία”, Αθήνα, Πρίσμα, 1963

«Più luce! più luce!» – Anthony Hecht

Michael Kenna, Building Remains, Buchenwald, Germany, 1995

per Heinrich Blücher e Hannah Arendt

Composti nella Torre prima della sua esecuzione
questi versi commoventi, condotto allora sul tragitto
penoso verso il rogo, sottomesso, dichiarò:
«Invoco il mio Dio a testimone, non ho commesso alcun delitto».

Né lo abbandonò il coraggio, ma la morte fu tremenda,
il sacco di polvere da sparo non si accendeva.
Le gambe, mentre lui implorava urlante la Luce Misericordiosa,
erano bastoni di vesciche su cui la linfa nera ribolliva ed esplodeva.

E quello non fu che uno, e niente affatto dei peggiori,
concessagli almeno la sua commiserevole dignità;
e gli astanti recitavano preghiere per la pace dell’anima sua,
nel nome di Cristo che ciascun uomo giudicherà.

Ci spostiamo adesso al limitare di un bosco tedesco.
Si ordina di scavare una fossa a tre uomini tenuti in scacco,
e in questa viene ordinato ai due ebrei di sdraiarsi
per essere sepolti vivi dal terzo, un polacco.

Non luce dal santuario a Weimar oltre la collina
né luce dal cielo apparve. Ma egli si rifiutò.
Una Lüger s’assestò nella fondina.
Scàmbiati di posto con gli ebrei, gli si ordinò.

Quella sovrabbondanza di morte insensata ne aveva prosciugato
l’anima. La terra spessa montava verso la faccia sconvolta.
Quando solo la testa restò esposta, arrivò l’ordine
di tirarlo fuori e di tornare dentro un’altra volta.

Nessuna luce, nessuna luce nel ceruleo occhio polacco.
Quando finì, uno stivale da cavallo pressò la terra forte.
La Lüger si librò leggera dalla fondina.
Colpito in pancia, in tre ore sanguinò a morte.

Non una preghiera, niente incenso, s’alzò in quelle ore
che divennero anni; e venivano ogni sera
muti spettri dai forni, filtrando nell’aria frizzante,
posandosi sui suoi occhi come fuliggine nera.

Anthony Hecht

(Traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan)

da “Le ore dure”, Donzelli Poesia, 2018

«Più luce! Più luce!»
Hecht ha scritto in una lettera che il titolo riprende le parole attribuite a Goethe sul letto di morte. Le spoglie di Goethe si trovano nella Cripta dei Principi a Weimar, vicino al luogo in cui è sorto il campo di sterminio di Buchenwald. La prima parte della poesia è un collage di particolari che si riferiscono al supplizio di diversi martiri rinascimentali, tra cui Hugh Latimer e Nicholas Ridley. L’episodio finale, ambientato nel campo di sterminio, viene dal volume The Theory and Practice of Hell di Eugen Kogon.

∗∗∗

«More Light! More Light!»

for Heinrich Blücher and Hannah Arendt

Composed in the Tower before his execution
These moving verses, and being brought at that time
Painfully to the stake, submitted, declaring thus:
“I implore my God to witness that I have made no crime.”

Nor was he forsaken of courage, but the death was horrible,
The sack of gunpowder failing to ignite.
His legs were blistered sticks on which the black sap
Bubbled and burst as he howled for the Kindly Light.

And that was but one, and by no means one of the worst;
Permitted at least his pitiful dignity;
And such as were by made prayers in the name of Christ,
That shall judge all men, for his soul’s tranquillity.

We move now to outside a German wood.
Three men are there commanded to dig a hole
In which the two Jews are ordered to lie down
And be buried alive by the third, who is a Pole.

Not light from the shrine at Weimar beyond the hill
Nor light from heaven appeared. But he did refuse.
A Lüger settled back deeply in its glove.
He was ordered to change places with the Jews.

Much casual death had drained away their souls.
The thick dirt mounted toward the quivering chin.
When only the head was exposed the order came
To dig him out again and to get back in.

No light, no light in the blue Polish eye.
When he finished a riding boot packed down the earth.
The Lüger hovered lightly in its glove.
He was shot in the belly and in three hours bled to death.

No prayers or incense rose up in those hours
Which grew to be years, and every day came mute
Ghosts from the ovens, sifting through crisp air,
And settled upon his eyes in a black soot.

Anthony Hecht

da “The hard hours: poems”, Atheneum, 1967