«In questo luogo di corpi sedati» – Milo De Angelis

Kaveh Hosseini, Vagueness

 

In questo luogo di corpi sedati
in questo luogo consacrato al rimpianto
si aggirano anime guaste e inattese
e noi camminiamo con loro verso la notte spoglia
camminiamo verso il punto saliente
respiriamo un profumo eterno di frittelle
attendiamo che la notte riporti il primo errore
e la paura antica di sbagliare la traduzione
di ombra in ombra si dissolve tutto il tempo
tutto il tempo si fa gemma e cenere
della vita fanciulla.

Ora precipitiamo nella scintilla originale
ora si delinea il primogenito
viso smarrito in una follia di tulipani:
lo possiedo, lo saluto, lo canto, lo frantumo
con lo sguardo malfermo sul crimine,
lo aspettiamo insieme al confine del mondo
invocando la sponda delle canzoni felici,
le figure sul rovescio della medaglia, il duetto
delle nostre pure apparenze, la strofa primitiva
dove le lettere del nome amato ritornano
e ci chiamano per sempre.

Il nome, il nome, il nome.
Lo ripetiamo certi o increduli,
in un tremore di pernici, lo incidiamo
nell’urlo, lo salviamo
con lo stupore inconfondibile dell’unico dono
che abbiamo meritato: giunge
dalla nostra alba più remota e ci nomina,
ci attende, ci pretende, ci chiede
la parola e la protegge nel silenzio dei pioppeti.

È di tutti la splendida uccisa, la sorridente,
cammina nei corridoi, dea o spettro, cantico
del grande zafferano, si aggira come un oltraggio
alla morte, ritorna puntuale al mattino
nelle battaglie tenebrose del risveglio,
si stende sulla branda, si toglie i sandali,
sorride ancora una volta. Oppure esce nel mondo
e mostra alle strade il nostro errore e la collera
di noi che abbiamo ucciso la cosa più amata
e ora la tocchiamo, tracciamo per terra
un annuncio oscuro di linee
e parole, barlumi di volti e di città: un disegno
di salvezza, forse, o un’esecuzione.

Milo De Angelis

da “Incontri e agguati”, “Lo Specchio” Mondadori, 2015

Caramelle di menta – Milo De Angelis

Foto di Johnnie Shand Kydd

 

Da quanto tempo non entravo al Centro Schuster,
da quanto tempo non sentivo le frasi sconnesse e favolose
di Drino Danilovicˇ, il primo allenatore,
con il berretto a visiera, quello che accarezzava la porta
con il suo fazzoletto di cotone e con una vampata
di parole folgorava gli ippocastani.
«Mister, lei è ancora qui, nel campo a nove giocatori,
è ancora qui con lo stesso taccuino e la stessa matita».
«Sono sempre stato qui e ti aspettavo, ragazzo.
Ma tu? Sei rimasto l’inquieto pulcino
che correva sulla fascia e poi tremava? Oppure sei riuscito
a far pace con la vita?». «Mister, non lo so, ma sono qui,
sono tornato per saperlo».
«Sono soltanto tre, posso dirtelo, le regole del bene,
soltanto tre: portare il pallone nel soffio
della prima altalena, portare ogni dribbling in un balletto
astrologico, trovare in una stella
l’attimo giusto per il calcio di rigore».

Milo De Angelis

da “Linea intera, linea spezzata”, “Lo Specchio” Mondadori, 2021

Alta sorveglianza – Milo De Angelis

Milo De Angelis, foto di Viviana Nicodemo

Professore, forse un giorno riuscirò a parlarvi della mia giovane sposa e del mio delitto… forse ci riuscirò… forse a fine anno… nell’ultima pagina di un tema.
(alunno della terza di Opera, compito in classe)
Non ho mai visto un uomo
fissare con uno sguardo così assorto
quella sottile tenda azzurra
che i detenuti chiamano cielo.
………………………………………………….
Ognuno uccide ciò che ama.
(OSCAR WILDE, La ballata del carcere di Reading)
I

In carcere bisogna parlare
lo sanno anche i taciturni come te
il veleno si fa strada in ogni silenzio
la notte ti interroga ti interroga
e tu alla fine hai risposto
parlavi di lei corpo sposa tenaglia
lei come una grazia folgorata
nessuno nel vederla resta vivo
parlavi di lei oscura furia delle melograne
luce selvaggia al cadere di una veste
assoluto mescolato all’ora d’aria.

II

Quando hai cominciato l’opera
eri chiuso nel quadrilatero della tua voce
e ripetevi che le crepe sul muro, la luce
obliqua dei finestrini, i corridoi sbilenchi
tutto era pensiero
e questo pensiero era più forte di te,
si faceva materia, ti ingoiava.

III

Opera, sei dappertutto ma non so dove sei.
Voce del male sbarrato, forse sei qui, nella grigia
stalla di via Camporgnago quaranta, sei
tra le attenuanti e i narcisi del volontariato
sei qui e non sei qui ti trovo e ti perdo nel suono
della scheda magnetica o nel grido di una requisitoria
sei scomparso e sei dentro di noi che avanziamo
passo dopo passo verso un dolore
tanto più incerto quanto più sembrava prossimo.

IV

Hai visto franare la tua vita
tra codicilli, arbusti e demoni fangosi
hai sentito la potenza della cella
come un’ombra colpita
si oscurava l’armonia dei viventi
la giovane morta si incideva le braccia
si faceva eterno il tatuaggio.

V

Qui non è prevista
la stagione dei dodici raccolti
qui ogni mese può essere infinito
o mancare per sempre
dipende da un giro di sigarette
da una compravendita o da un agente
che non ha ricevuto la giusta adorazione
e compila un rapporto feroce
dove ogni ora d’aria è avvelenata
e ogni parola trova un movente.

VI

Ma le mura le avevamo già dentro
le notti curvilinee ci tornavano addosso
aprivo al mattino gli occhi lapidati
nasceva una prossimità violenta
si formava l’assedio.

VII

Qui sciamano preti operosi
hanno labbra gonfie
si aggirano nel loro terreno di caccia
si nutrono con le croste di ogni colpa
benedicono tutto indifferenti
indifferenti preparano la deportazione.

VIII

Sei un’ansia che non ha luce, dicevano,
sei nell’ateismo
di ogni battito cardiaco, reclusione, reclusione.

IX

Allora hai risposto, gentilmente, che sei tornato
dall’aldilà, hai risposto che dio non esiste
ma le anime sì: alcune sono rinchiuse in grandi pollai
dove tutti camminano lentamente
avanti e indietro, con un vestito marroncino
come questo, guardate, proprio come questo.

X

Stiamo in punta di piedi per questo spettacolo
dell’aldilà: vediamo le donne momentanee
e il disegno sacro dell’edera, vediamo
grappoli maturi, nell’ora della giusta previsione,
finché lei si toglie la veste morta e divampa
il suo graffito sul muro della cella.

XI

Con la sua fiamma ossidrica, il dolore
ci raggiunge, perfora il ferro dei nostri
quattro punti cardinali,
tocca il nervo indifeso, indugia, insiste
lo fa prigioniero, lo trapana
fino al nucleo dell’urlo, fino all’istante crollato
in se stesso, mentre intorno si allunga
il corridoio delle mille anime vaganti.

XII

Nella punta di questa matita
c’è il tuo destino, vedi, nella punta
aguzza e fragile che scrive sul foglio
l’ombra di ogni frase e scrive
le mura cieche, l’attenuante e il soliloquio
il tuo destino è proprio qui, in questo
immobile trasloco, in questo impercettibile
sorriso che un uomo offre
al mondo prima di sparire.

XIII

Questo destino che nessun diario
raccoglie, nessun giornale, cronaca
o storia, vive nel sibilo
di un ricordo, nel suono
della giovinezza: il frutteto fantastico
e un fruscio negli abbaini,
e poi qualche grammo, il pigolio
del giudice di sorveglianza,
un’edicola notturna, una retata.

XIV

Era l’aggravarsi
di ogni atto nel buio di se stesso,
la cieca evasione, l’indulto
che ha potuto liberarci
per una notte sola,
per una sola notte sterminata.

XV

“Ascolti,
professore, ora parlerò di lei
parlerò della viola naufraga,
del petto martire, della valanga:
parlerò di lei, l’ultimata”

XVI

“Lei donna di sedici anni diadema del sangue
codice lunare nelle guglie della sera
fervore di ceneri via lattea”

XVII

“Ieri in cielo ho visto Sirio, amico mio,
e ho pensato che quello era il mio soprannome,
il nome di un ragazzo solitario
che additava un piumaggio di nuvole
e chiedeva quando torneranno, quando
tornerà quel visibilio di viole e di fiaccole.
Non devi amarla – risposero – non devi
amarla più”

XVIII

“Profezie sottomarine
dicevano la catastrofe
ma io ho accettato ma io ho voluto
ridurmi a questo muso duro
che nei corridoi contratta con gli infami
l’orario delle visite. E ogni giorno
nell’orbita tremante cresce l’uragano
della donna sterminata”

XIX

“Superati i confini della grotta,
tutto ritornò musicale
ritornò l’attimo del grande incantamento
come una festa dell’essere,
lei sorrise!”

XX

“Sorrise, aprì la porta, scherzò nella luce
azzurrina della sua ultima stanza, aprì
allora la porta in un silenzio
fatato e violento. Il suo regno
era l’attimo, la scintilla, il rossore.
Ma quella gonna viola troppo corta
quel luccichio sconosciuto nella pelle!”

XXI

“Tagliata alla radice,
l’ombra ha compiuto il crimine
una disarmonia senza riposo
un figlio creato che impazzisce e trema
nel giardino dei corpi,
una mano screpolata, una semplice
mano premuta sul ferro”

XXII

“Riappare quel giorno immobile
sul sentiero dell’estinzione
e noi siamo la forma destinata
a quel gesto magistrale:
ricordo solo il bacio
che diventò strage cieca e senza tempo”

XXIII

“Campane mute e capovolte
ora circondano il corpo
intorno al collo un filo di perline
aveva l’ansia di una daina
aveva intuito e provò a fuggire
ma il piede in corsa mosse una valanga
e iniziò il minuto esteso
della morte”

XXIV

“Una donna così si uccide solo con il coltello
si uccide corpo a corpo in una vicinanza
che zittisce le melodie del suo respiro
e l’ho colpita l’ho colpita con una certezza
vicina all’oblio… poi l’estate
precipitò nella notte
e mi nascosi lì, colpevole e tremante…
… per un intero minuto
l’ho colpita”

Milo De Angelis

da “Incontri e agguati”, “Lo Specchio” Mondadori, 2015

La passeggiata – Milo de Angelis

André Kertész, Panchina rotta, New York, 1962

 

 

 

 

 

 

 

 

“Non li abbraccerò più” dice a occhi bassi
con le parole cristiane, miti ma nitide
mentre questo pomeriggio
si sta abbassando sui giardini pubblici
“li odio, quei visi, li odio anch’io”
e racconta le confessioni, le tavolate gelide
dell’ubbidienza
e il lirismo cattolico
con cui l’hanno torturato, il fango,
i suoi padroni
“posso abbandonare tutto, anche ora,
in questo istante” e ci fermiamo
in un lato del viale, e fissa
una panchina, un pensiero scuro
che si muove “anche qui
da un momento all’altro: posso”.

Milo De Angelis

da “L’ascolto (1974-1975)”, in “Somiglianze”, Guanda, Milano, 1976

Trovare la vena – Milo De Angelis

Foto di Jeanloup Sieff

 

Cresce l’ansia nei bicchieri
dal tuo turbine segreto alla luce
verde del reparto, ai corridoi,
al vetro sbarrato, all’addio
con le ciglia asciutte, questa morte
che non ha più tempo.

*

È follia di tutti, l’estate, traffico
di cantieri nella città lasciata. Ognuno
è lo stadio terminale, ognuno è l’estate, questa
estate vissuta in una sillaba, in un tremito
della sostanza, in una scala mobile,
in un filo di mani. Ognuno chiede dov’è
la vena, presto, la vena.

*

Nessuna gloria in excelsis, ma un groviglio
nervoso, un raschiare di suoni e occhi
fissi all’ingiù, quel niente
che tiene freddo il pensiero, quel tremito
di lampadine e aghi, qualcosa
che s’incarcera dove grida. Il viso
toccava già la sua terra, vedeva lo scorrere
pallido dei fenomeni
                                       oh dormi, dissi, dormi
eppure io ero con te
e tu non eri con me.

*

Poi ci fu l’esplorazione atterrita del tuo
seno, il rifiuto delle cose consegnate
al tempo, la richiesta di antiche
concordanze: ogni istante della mano
sulla pelle, ogni respiro, era quell’assoluto
fragile, quello scandalo
che una frazione imprime al tutto
e la tavolozza delle cellule si spargeva
sui vestiti, sulle lenzuola, sulle lampadine
e sul quaderno, sulle dita
di chi ha già varcato la sua immagine.

*

Sei un lontano passo di danza
mentre saluti tra i corridoi,
un ventaglio di grazia che il male
non ha ucciso, diagonale
tra i quattro cantoni, silenzio
di fate e di foglie, finché il giallo
si fa scuro, si fa minaccia nel cielo,
il sorriso fragile e la gola
resta lì, sospesa e selvaggia.

*

Un suono di ninna nanna chiama la morte
per sentirla più viva, chiama il seno
che si spezzò in un agosto, l’intero creato
di una poesia. In ogni stanza un appello.
L’ora non è paga di se stessa, domanda l’età vera,
un altro sangue che morbido si accese, una parola
una parola che fu intera assedia la testa,
fruga tra le macerie, fissa incredula
quella luce sovrumana.

*

Potenza del minuto contato, culmine
della sete nelle visite serali:
ogni parola era battuta dal vento, ogni
gesto sulle rive di un oceano, tutto
era immenso e smarrito tra i corridoi, tutto
cedeva di schianto, centimetro
in cui non si entra, preciso mistero
della febbre alta.

*

I battiti carnali si stringono a una doccia,
chiedono una tregua, una posizione
per il sangue, a strappi, a morsi, gli aghi
entrano in te che cerchi
di stare con le cose.
                                    Ci dev’essere un’alba
terrena, dicevi, un seme intatto,
una fiammella, un preludio che esce
dagli ospedali, suonato da una piccola mano,
una corona di spighe regalata al guaritore.

*

Come un fiore che non ha prodigio, come un passo
che si arresta nel suo globulo,
ossa che il male restringe, nodi
che strozzano l’anima, finché una creazione
comincia e le finestre di Roserio
cantano l’assoluto stretto a un momento
solo, a un’alba di tram e di ciminiere.
Non andartene, abisso, dal mio fianco.

*

Toccandoti la fronte sentivi il mare,
parlavi di un mattino aperto come in guerra
nel buio dell’ora smarrita parlavi
senza domani e senza libri, parlavi
alla presenza assoluta di una lacrima,
una rapida memoria di ulivi e di luce,
una gloria dell’uno e di ogni altro, ma
non si trova la via per la sorgente, ma
non si trova la vena, dio mio, non si trova.

Milo De Angelis

da “Tema dell’addio”, “Lo Specchio” Mondadori, 2005