
Kenro Izu, Still life
1
Rose, rose di polvere, quanta durezza
nei ceppi a notte, rose arcuate
di spine quali i tendini robusti
e i muscoli disseccati della ragazza
che nell’auto seta manovra e cuoio
ma molle se un abbagliante la sbatte ma maculata
lungo la gola come le rose contuse
nel lavorìo di mezzanotte e ortiche.
Ah contro i fiori aperti all’afa
com’è dolce l’affanno dell’ape,
come i cuori vorrebbero non venisse
mai giorno ma sempre i fari ai tornanti
a infocare teatri di roseti
nel parco immenso arido romano!
Per questo «polvere» ho detto, da ustioni
di curve, da colombari, ghiaie, anfore…
Polvere sugli spalti; delle rose
l’empietà ne gode, la sete si esalta
senza posa a colpi di sangue
dove scava balordo lo scarabeo.
Scalcia la dama, perde il sandalo, esige
immanità, si lorda tra erbe e bava.
Miele occlude i trionfi, o ape latina.
Lascia sazie le gole, beate le rose.
2
Ma riconosci questo inizio. Da grotte, fontane,
i contrari respirano immobili.
Dove si schiude una rosa decade una rosa
e uno è il tempo ma è di due verità.
Vieni al gelo e al gran caldo. Qui osa
sul limite esitare. Aprirà
i rami, le trame penetra. Appari
tu ai lampi illuminata tempia
che eri slancio d’alloro nella calma
e arco di cipresso e sempre sei
con altro nome e tornerai con altra salma.
Intenta a specchi di acque, sorella
d’eresia, impietrita negazione
splendida in unità futura, fronte
tesa al nulla e ferita… Ora tu tremi,
rivedo, traversi le edere
e come t’anneri e tramuti
so e all’oscillio del riso già sei
squama di serpe ago unghia lama
che la lingua delle rose affili
e per crepitio di stipe soffiano, frugano
la scena i semivivi sinché dilaghi
l’arteria e ne derivi la riga tu
a Ecate. Una vecchia ti liscia l’anca.
3
Ah che per essa contro il tempo immensa
inumana bocca, liberante corpo
che anche del tuo si crea e dibatte,
solo hai questa lingua di gloria vile,
questa recitazione di servi. Si cercano
per esistere in un sangue, per rivivere
prima di giorno. Affóndati allora
nel calpestio, ingórgati, adora,
accarezzali i simboli deformi
dell’avvenire, sino a non più vedere,
tu che ti accechi se li fissi e rantoli
con loro! E come si scuoiano intrisi
di linfa, come il tetano scatena
morsi e oh come s’avventano a grappoli
rotolando e nelle carotidi gridi.
Smaglia le carni la rosa, si sbrana,
che al mattino intatta deriderà.
Non altro modo di profondere, di
denudare alla notte la delizia
del ribrezzo che tanti anni maligno
in sé ti stringe, stemma
che i vecchi diramarono per le meningi a te
e la rabbia dei defunti canina e qui sfami
a questo pasto di rose, bestia, stracciate.
4
E ora la passione degli alberi alta ritorna.
Il desiderio e la separazione
non ci saranno più. Chi siamo stati
sapremo e senza dolore. Già verso di noi
quel che vi parve favola viene e sarà,
figli di questo secolo, ironie.
Noi dal sogno usciremo per esistere
in una sola verità.
Tutti i perfetti amori un solo amore.
Tutti i giorni più belli un solo giorno.
Corpi spariti che avevamo amati,
dai miserabili resti ricreati
ritornerete di pietà beati
stupiti identici spiriti pazzi di risa,
centifolia rosa indivisa
che già la mente incredula abbagli.
È l’ora che i liquidi essica e accaglia
e queste emanazioni sono anime
ma storte, nane, sotto il ferro lunare.
Vedi schierarsi i regni. Varcano obliqui
per i cortei del cielo neri i Santi
vuoti come velieri. È l’assenzio? Il giudizio?
Sono le povere femmine ch’ebbero il viso
squarciato dai soldati? Le chiarine celesti?
5
Molto lontane voci, strazi… Le tue figure
sempre, falsa coscienza, così le ripeti?
Dimesse le frasche, tumefatte le rose,
in molecole rare lo spazio si divide,
le moli pare le allevii una pace.
E prima che inizino i nidi il gridio
queste tue favole di morti torneranno
uomini opachi avviati sui lastrici.
E meteoriti di ferro mentale
filano sui continenti, tangono
campi magnetici di rose sopite,
curvano frequenze di cose create, tentano
aiuto. L’aereo che grave le cupole rade
combatte, cabra, va; non per noi. Qui abito
dove una notte l’incenerirsi del secolo
persuade, e mi stermina lenta e tremo.
6
O tra carboni di rose un fosforo, un verme,
la sola via? A cripte, aule, visceri
dove a spettacolo spento pendono mucchi
di addomi stronchi, criniere di bisce e funi,
maschere scorticate, Sìsifo, Piritòo, Tieste,
e le Erinni. A tufi di catacombe, dove
sotto le larve di noi futuri murate
un senato di insetti gesticola.
7
E no. Ultimi fiumi d’un ironico inferno,
precipitate, fontane, gli scrosci.
Torna uno il vero? Fuggite, allegorie.
Dovevi saperlo, saresti tornato
a scegliere il gelo, il volere e la spina,
univoci i nomi, la scienza possibile
e lenta, il sole che imbianca Indo e Nilo,
il dente della storia impercettibile.
Ma come domani saprò riconoscere
le rose uccise, le vive? Mi volgo di qui
dov’è passata, e tornerà, la mia demenza:
anche per essa chiedo giustizia e amore.
Voi in sonno ancora: voglio che nulla si perda.
Anche se sempre, se senza pietà dell’aurora
che tanto deboli laggiù fa i lumi
di posizione dell’alte cilindrate,
gli àcari stritolano i grumi,
le cetonie triturano l’avvenire
con le minuscole branche; se colpa e speranza
sono un unico male che ci separa e ostina,
che da noi sale le cime dei salici
e le macera. L’aria è fina e nera.
Viva la rosa della primavera.
E viva l’erba, il fiore, i baci, il dolore.
Ultime sulle rose
Quando da qui si guarda l’età del passato
veramente diventa possibile l’amore.
Mai così belli i visi e veri i pensieri
come quando stiamo per separarci, amici.
Esercizio della ragione e sentimento
sono due cose e vivacemente si legano
come la rosa è forma di mente e stupore.
Franco Fortini
da “Poesia delle rose”, Libreria Antiquaria Palmaverde, Bologna, 1962
La poesia delle rose
Nella seconda parte si ricordano i versi del Trionfo del Tempo: «I’ vidi ’l ghiaccio e li stesso la rosa, quasi in un punto il gran freddo e ’l gran caldo». Con altro nome implica anche i tre nomi della Luna (Catullo: «sis quocumque vis vocari sancta nomine»). Impietrita, fino al senso della endura càtara. Soffiano: come nell’undecimo dell’Odissea («e intorno a lui era uno schiamazzo di morti»).
La quarta parte rielabora passi del VII libro delle Tragiques di D’Aubigné. Storte sono le cosidette «anime inferiori». L’assenzio è quello di cui parla l’Apocalisse.
Il senato della sesta parte viene dal «consesso di insetti silenziosi» di N. Zabolotskij, nella traduzione di V. Strada.
La demenza della penultima ottava è «la passada folor» di Purgatorio XXVI.
Suggerisco una possibile traccia ad un ipotetico lettore-collaboratore:
In un parco di rose e di coppie [1] si assiste e partecipa alla ripetizione di un iter. Una figura di ascesi e negazione si muta in giovane strega per un rito cruento [2]. Un’orgia che è anche inferno ricerca un anticipo mistificato della unità del genere umano [3]. Seguono figure di resurrezione e giudizio [4]. Scorre la notte e le scene riapparse si rivelano miti, mentre l’universo della comunicazione meccanica tenta altrimenti l’unità [5]. Aiuto insufficiente a impedire l’ultima tentazione: identificarsi all’inconscio [6]. L’alba riporterà ragione e storia ma l’esigenza permane che anche la parte condannata si salvi sebbene eredità storica e cronaca biologica continuino a disgregare l’esistente [7].
Non so se proprio questo sia il senso dei versi. Possono anche essere un sommario storico o la descrizione rituale di un rito. Mi auguro comunque che nessuno vi voglia leggere l’indicazione d’una tendenza. (E neppure io domani.) Anche per questo ho voluto aggiungere su tutt’altro registro e quindi separare da quella composizione i versi di congedo di Ultime sulle rose. Un ulteriore chiarimento potrebbe venire da queste due citazioni: «Ciascuno divenne spezzato in se stesso e negli altri» (Anastasio Sinaitico) e «La società è l’unità essenziale, giunta al proprio compimento, dell’uomo con la natura, la vera risurrezione della natura» (Marx, Manoscritti, trad. it., p. 124).
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