
Toni Schneiders, Self Portrait, 1952
È notte, sei
tra le cose del mondo, le cose
solide, vaganti, che si sfanno
in altre cose: cose
su cose, nell’imo che fermenta,
e sprofondi
nella vita che è, nel tutto
che s’invasa in uno, prima
di sfarsi nel crivello della mente
stridi, becchi, blaterii
buchi di lingua, suoni
che si torcono, stipano,
si ammaccano
ed è lì, lei, fa un cenno
l’ombra funesta, troppo amata,
fa freddo, com’è troppa la stagione,
con che tenaglie stride, si torce, scuote
le lusinghe del mondo, «dov’è che sei?»
le chiedo, nel gelo
di biglia delle cose
«sei cosa o altro?», mentre delira
in delirio il mondo, si sfarina, ed io
«non ho tempo per questo
struggimento stupido, doloroso, di’
soltanto se sei o no»
ma lei: «di’ tu, piuttosto, di’
qualcosa che valga
per me, per noi, che ti guardiamo», e va
per una strada che non conosco, va, dove non è
altro che lei, che loro, lì, nella gran fossa
del firmamento algido, stipato
di roba ultima, vagante, «di’, se sai, qualcosa
che valga la pena», continua
stridendo come una stupida
ferraglia
e fa cenno, nel non so dove del sonno, nel
ben maturato senno della mente
a qualcosa che si cela, s’infima
in brividi, in onde
di niente, di poco – cosa
che si fa cosa, verbo
che s’intana
in una lingua di troppo gelo,
di solo, forse,
vuoto?
Giancarlo Pontiggia
da “Il moto delle cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 2017