
Marcus Møller Bitsch
Chi ha nascosto qualcosa nell’evidenza?
Chi non ha scagliato la prima pietra?
Chi è senza peccato, il testimone
o il testimoniato?
Eppure senza
quella testimonianza, il reato
avrebbe la voce dell’innocenza.
Chi ha passeggiato, un giorno come questo
che la storia era solo un filo d’erba
spuntato tra il selciato, intorno a quello
che fu scritto illeggibile da tutti?
Il dito s’è rialzato come i flutti
amari del mare di Galilea:
pesantissimo è stato quello che non è stato
più di quello che è stato.
Un fiotto ancora
del sangue del costato, sotto il sole,
fluttua purpureo come le viole
nel vento che ti accarezza il viso
in cui il sorriso erra dimenticato
del più incomprensibile perdono:
è l’atto più enigmatico del dono.
Chi è tra noi, chi si è allontanato?
Vive la santità grazie al peccato
o questo è un’inutile disgrazia?
Ma quale inopia più di questa sazia,
quale copia di quale sacrificio,
la misteriosa ira della storia?
Ogni storia è particola di un tutto,
un’ostia che attende quale lingua:
è Croazia, è il flutto che schiaffeggia
la mia terra natale così bassa
all’orizzonte che ritorna mare,
in cui quando vi torno non so andare
al di là di uno sguardo obliato.
(Sono sempre in ritardo su me stesso
o qualcosa scompare di me stesso
in un altro me stesso inattendibile,
in un me stesso ch’io non so più amare?).
La terra è così piccola – chi è stato
a ferire a morte anche l’amore? –
là dove Bosko, serbo innamorato,
e la piccola Admira musulmana,
abbracciati, in terra di nessuno,
giacciono morti. Chi potrà slacciarli,
dare una tomba all’amore ucciso?
Quale porta, di quale sacrificio,
s’è dischiusa, se non quella del sogno?
La parola che romba nell’orecchio
è quella del più antico maleficio,
ma di quale risveglio c’è bisogno?
Quel viso contro viso, quale bacio
– lì tra l’erba di un greto (è la storia
che appartiene a tutti e a nessuno?) –
è più intriso per noi di rimorso…
È stata fucilata la speranza?
Quale sforzo il dolore non sa fare
tra l’odio, il male e lì presso, dove…,
ma dove ha sede la felicità?
Quale cecchino sta a spiare, quale
risuscitato Caino, pronto
allo sparo, nascosto? Il testimone
del dolore del mondo ha cambiato
posto, non sa ormai più che sparare,
innamorare ormai solo la morte,
sventagliare nel mucchio l’innocenza,
il suo ghigno divenuto immonda
indifferenza tra il dire e il fare,
insofferenza tra il mezzo e il fine.
La vergogna del secolo non ha
nel dolore del secolo confine.
Là il rezzo della morte non ha fine.
Carezza dolce le chiome corvine
di Admira la morte innamorata,
molce il respiro spento in quelle labbra.
E io che ci sto a fare, alla mia rabbia
che cosa è rimasto da ammirare,
perduta in quale lebbra ogni bellezza,
in quale ebbro annaspare la carezza
che non sa più su qual volto posare
la sua stessa terribile tristezza.
Piero Bigongiari
24-26 maggio 1993
da “Nel centro oscuro dell’incandescenza”, in “Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996