Il Porto Sepolto – Giuseppe Ungaretti

                   IN MEMORIA
      Locvizza il 30 settembre 1916

Si chiamava
Moammed Sceab

Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria

Amò la Francia
e mutò nome

Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè

E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono

L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa

Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera

E forse io solo
so ancora
che visse

              IL PORTO SEPOLTO
         Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

           LINDORO DI DESERTO
Cima Quattro il 22 dicembre 1915

Dondolo di ali in fumo
mozza il silenzio degli occhi

Col vento si spippola il corallo
di una sete di baci

Allibisco all’alba

Mi si travasa la vita
in un ghirigoro di nostalgie

Ora specchio i punti di mondo
che avevo compagni
e fiuto l’orientamento

Sino alla morte in balia del viaggio

Abbiamo le soste di sonno

Il sole spegne il pianto

Mi copro di un tepido manto
di lind’oro

Da questa terrazza di desolazione
in braccio mi sporgo
al buon tempo

                           VEGLIA
Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

             A RIPOSO
  Versa il 27 aprile 1916

Chi mi accompagnerà pei campi

Il sole si semina in diamanti
di gocciole d’acqua
sull’erba flessuosa

Resto docile
all’inclinazione
dell’universo sereno

Si dilatano le montagne
in sorsi d’ombra lilla
e vogano col cielo

Su alla volta lieve
l’incanto s’è troncato

E piombo in me

E m’oscuro in un mio nido

                   FASE D’ORIENTE
              Versa il 27 aprile 1916

Nel molle giro di un sorriso
ci sentiamo legare da un turbine
di germogli di desiderio

Ci vendemmia il sole

Chiudiamo gli occhi
per vedere nuotare in un lago
infinite promesse

Ci rinveniamo a marcare la terra
con questo corpo
che ora troppo ci pesa

        TRAMONTO
Versa il 20 maggio 1916

Il carnato del cielo
sveglia oasi
al nomade d’amore

         ANNIENTAMENTO
      Versa il 21 maggio 1916

Il cuore ha prodigato le lucciole
s’è acceso e spento
di verde in verde
ho compitato

Colle mie mani plasmo il suolo
diffuso di grilli
mi modulo
di
sommesso uguale
cuore

M’ama non m’ama
mi sono smaltato
di margherite
mi sono radicato
nella terra marcita
sono cresciuto
come un crespo
sullo stelo torto
mi sono colto
nel tuffo
di spinalba

Oggi
come l’Isonzo
di asfalto azzurro
mi fisso
nella cenere del greto
scoperto dal sole
e mi trasmuto
in volo di nubi

Appieno infine
sfrenato
il solito essere sgomento
non batte più il tempo col cuore
non ha tempo né luogo
è felice

Ho sulle labbra
il bacio di marmo

             STASERA
Versa il 22 maggio 1916

Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia

                FASE
Mariano il 25 giugno 1916

Cammina cammina
ho ritrovato
il pozzo d’amore

Nell’occhio
di mill’una notte
ho riposato

Agli abbandonati giardini
ella approdava
come una colomba

Fra l’aria
del meriggio
ch’era uno svenimento
le ho colto
arance e gelsumini

                    SILENZIO
     Mariano il 27 giugno 1916

Conosco una città
che ogni giorno s’empie di sole
e tutto è rapito in quel momento

Me ne sono andato una sera

Nel cuore durava il limio
delle cicale

Dal bastimento
verniciato di bianco
ho visto
la mia città sparire
lasciando
un poco
un abbraccio di lumi nell’aria torbida
sospesi

               PESO
Mariano il 29 giugno 1916

Quel contadino
si affida alla medaglia
di Sant’Antonio
e va leggero

Ma ben sola e ben nuda
senza miraggio
porto la mia anima

        DANNAZIONE
Mariano il 29 giugno 1916

Chiuso fra cose mortali

(Anche il cielo stellato finirà)

Perché bramo Dio?

             RISVEGLI
Mariano il 29 giugno 1916

Ogni mio momento
io l’ho vissuto
un’altra volta
in un’epoca fonda
fuori di me

Sono lontano colla mia memoria
dietro a quelle vite perse

Mi desto in un bagno
di care cose consuete
sorpreso
e raddolcito

Rincorro le nuvole
che si sciolgono dolcemente
cogli occhi attenti
e mi rammento
di qualche amico
morto

Ma Dio cos’è?

E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta

E si sente
riavere

                             MALINCONIA
   Quota Centoquarantuno il 10 luglio 1916

Calante malinconia lungo il corpo avvinto
al suo destino

Calante notturno abbandono
di corpi a pien’anima presi
nel silenzio vasto
che gli occhi non guardano
ma un’apprensione

Abbandono dolce di corpi
pesanti d’amaro
labbra rapprese
in tornitura di labbra lontane
voluttà crudele di corpi estinti
in voglie inappagabili

Mondo

Attonimento
in una gita folle
di pupille amorose

In una gita che se ne va in fumo
col sonno
e se incontra la morte
è il dormire più vero

                DESTINO
   Mariano il 14 luglio 1916

Volti al travaglio
come una qualsiasi
fibra creata
perché ci lamentiamo noi?

                FRATELLI
      Mariano il 15 luglio 1916

Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

           C’ERA UNA VOLTA
Quota Centoquarantuno l’1 agosto 1916

Bosco Cappuccio
ha un declivio
di velluto verde
come una dolce
poltrona

Appisolarmi là
solo
in un caffè remoto
con una luce fievole
come questa
di questa luna

                SONO UNA CREATURA
Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

                     IN DORMIVEGLIA
Valloncello di Cima Quattro il 6 agosto 1916

Assisto la notte violentata

L’aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
ritratti
nelle trincee
come le lumache nel loro guscio

Mi pare
che un affannato
nugolo di scalpellini
batta il lastricato
di pietra di lava
delle mie strade
ed io l’ascolti
non vedendo
in dormiveglia

             I FIUMI
Cotici il 16 agosto 1916

Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato

L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso

Ho tirato su
le mie quattr’ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua

Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole

Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo

Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicità

Ho ripassato
le epoche
della mia vita

Questi sono
i miei fiumi

Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre

Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle estese pianure

Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre

                    PELLEGRINAGGIO
Valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916

In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba

Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio

Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia

                                MONOTONIA
Valloncello dell’Albero Isolato il 22 agosto 1916

Fermato a due sassi
languisco
sotto questa
volta appannata
di cielo

Il groviglio dei sentieri
possiede la mia cecità
Nulla è più squallido
di questa monotonia

Una volta
non sapevo
ch’è una cosa
qualunque
perfino
la consunzione serale
del cielo

E sulla mia terra affricana
calmata
a un arpeggio
perso nell’aria
mi rinnovavo

              LA NOTTE BELLA
   Devetachi il 24 agosto 1916

Quale canto s’è levato stanotte
che intesse
di cristallina eco del cuore
le stelle

Quale festa sorgiva
di cuore a nozze

Sono stato
uno stagno di buio

Ora mordo
come un bambino la mammella
lo spazio

Ora sono ubriaco
d’universo

             UNIVERSO
Devetachi il 24 agosto 1916

Col mare
mi sono fatto
una bara
di freschezza

                  SONNOLENZA
Da Devetachi al San Michele il 25 agosto 1916

Questi dossi di monti
si sono coricati
nel buio delle valli

Non c’è più niente
che un gorgoglio
di grilli che mi raggiunge

E s’accompagna
alla mia inquietudine

               SAN MARTINO DEL CARSO
Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

È il mio cuore
il paese più straziato

                  ATTRITO
Locvizza il 23 settembre 1916

Con la mia fame di lupo
ammaino
il mio corpo di pecorella

Sono come
la misera barca
e come l’oceano libidinoso

                   DISTACCO
     Locvizza il 24 settembre 1916

Eccovi un uomo
uniforme

Eccovi un’anima
deserta
uno specchio impassibile

M’avviene di svegliarmi
e di congiungermi
e di possedere

Il raro bene che mi nasce
così piano mi nasce

E quando ha durato
così insensibilmente s’è spento

           NOSTALGIA
Locvizza il 28 settembre 1916

Quando
la notte è a svanire
poco prima di primavera
e di rado
qualcuno passa

Su Parigi s’addensa
un oscuro colore
di pianto

In un canto
di ponte
contemplo
l’illimitato silenzio
di una ragazza
tenue

Le nostre
malattie
si fondono

E come portati via
si rimane

      PERCHÉ?
Carsia Giulia 1916

Ha bisogno di qualche ristoro
il mio buio cuore disperso

Negli incastri fangosi dei sassi
come un’erba di questa contrada
vuole tremare piano alla luce

Ma io non sono
nella fionda del tempo
che la scaglia dei sassi tarlati
dell’improvvisata strada
di guerra

Da quando
ha guardato nel viso
immortale del mondo
questo pazzo ha voluto sapere
cadendo nel labirinto
del suo cuore crucciato

Si è appiattito
come una rotaia
il mio cuore in ascoltazione
ma si scopriva a seguire
come una scia
una scomparsa navigazione

Guardo l’orizzonte
che si vaiola di crateri

Il mio cuore vuole illuminarsi
come questa notte
almeno di zampilli di razzi

Reggo il mio cuore
che s’incaverna
e schianta e rintrona
come un proiettile
nella pianura
ma non mi lascia
neanche un segno di volo

Il mio povero cuore
sbigottito
di non sapere

                                ITALIA
               Locvizza l’1 ottobre 1916

Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni

Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra

Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia

E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre

             COMMIATO
Locvizza il 2 ottobre 1916

Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

Giuseppe Ungaretti

da “L’allegria” (1914-1919), in “Vita d’un uomo. Tutte le poesie”, “I Meridiani” Mondadori, 2009

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