Dall’altra parte degli occhi – Marco Luppi

Foto di Jonas Hafner

 

Io non sono tra i miei complici
se non dentro gli occhi tuoi chiusi

con vespri car (di) nali
nel nostro (in) chiostro il cedere
del non sempre nella cenere.
Fatti ancora un po’ più vicina
così da leccarti l’anima
assente, prima della terza stanza.
Quanto il male inutile quanto il male
colonia del sangue e delle ossa,
si credeva si scherzasse
nella saliva che scendeva.
Nell’incavo della fuga rimane
acacia. Polve di miele le lune.

Estradizione al contrario,
spaesamento di un luccichìo.
In bocca il sapore tuo
è il sapere del mio Dio.

Marco Luppi

da “Dalla parte della radice”, Eretica Edizioni, 2016

Marco Luppi, Dalla parte della radice, Eretica Edizioni, 2016
Introduzione
    di Pier Damiano Ori
     Poesia di pensiero e di indignazione. “Dalla parte della radice” inizia con un autentico manifesto intellettuale e civile direttamente rivolto, senza timori in un gioco di idiosincrasie e più caute e laterali adozioni, al giorno presente: “Non mi stupisco/ dell’arroganza diventata/ più contagiosa della tristezza” e ancora “di chi fa finta di niente/ facendo finta di fare”. Osservazioni sociali, antropologiche che danno vita a un elenco, tristemente sofisticato di ciò che ha deragliato, soprattutto dall’inizio del nuovo millennio.
     Da qui parte un viaggio interiore e stilistico fra i più complessi nella poesia italiana 2.0 che alterna l’indignazione civile, a volte proprio la protesta, alla riflessione filosofica, dove i due filoni non solo si amalgamano, ma si nutrono e si rafforzano l’un l’altro: Dall’orditura incostante/ dell’orologio fermo/ di luce lacrima/ l’occhio prosciugato”.
Una poesia che nella sua versificazione robusta, veloce e appropriata nello stesso tempo diventa l’obiettivo con cui riprendere il mondo. In questo modo l’oggetto diventa sempre soggetto “da non riuscire più a scrivere/ il proprio nome/ rispettando lo spazio”.
     Il pensiero poetico di Luppi non rispetta la gara, “teme il vincitore sempre banale”. Si pone invece, come dice il titolo del libro, che è da prendere alla lettera, “dalla parte della radice”. Lo fa riflettendo sulla poesia, spiazzando; l’autore sceglie questo terreno, la riflessione estetico-etica, per introdurci al catalogo dei propri strumenti linguistici, che sono vari: compreso il gioco di parole o meglio il gioco dei versi a volte quasi enigmistico; l’uso della lirica per esprimere, però, più pensiero che sensazione o sentimento; una rima libera od occasionale ma sempre stringente fino ad arrivare a “un solo verso”.
Luppi non teme di perdersi se non “nell’oceano/ reciso/ della traduzione”; governa il labirinto che nelle sue mani diventa un percorso, solo più ricco di sorprese, di agguati alla nostra pigrizia dietro i suoi angoli. Così coraggio e consapevolezza portano a un esito alto, fra i più alti nella poesia contemporanea sia dal punto di vista dei temi, dei contenuti, sia nella scelta stilistica che è quella di perseguire il movimento oltre il limite naturale del linguaggio: “Il limite è nella lingua di chi legge/ e nella rima degli occhi di chi scrive”.
     Nelle composizioni finali prevale l’atteggiamento estetico fondante della poetica di Luppi, la sua “diciamo” radice che è la poesia che si fa pensiero o naturalmente il pensiero che si fa poesia: “significante è il ruolo/ non significativo”.
     Con un versificare sciolto, al servizio di un’etica ferita e di un pensiero profondamente solidale con l’umano, usando sofisticati strumenti culturali, Marco Luppi ha composto un libro che arriva dritto dritto al lettore consapevole, dritto ed efficace come una freccia.
Pier Damiano Ori

 

Voi non vi ha amato nessuno – Agota Kristof

Agota Kristof, foto di Jean-Pierre Baillod

 

Lentamente imbianca la notte sul suo viso senza sole
incessanti le stelle cadono
in profondi laghi scuri cadono
e in profondi boschi scuri cadono
le stelle

bianche
case ai margini della foresta inceneriscono si tende
il corpo di pietra delle strade dolore insensato
si nasconde nelle vene degli alberi
sempre più forte è il vento
sempre più scura la neve

fratelli
voi non vi ha amato nessuno ma domani
metterete piede sui raggi
della luna
i vostri occhi si abbelliranno laverete via macchie di sangue
dalle vostre mani dalle vostre labbra
attorno a voi cresceranno gli alberi
si placherà anche la notte e il vento porterà
cenere tiepida sulle vostre terre sterili

Agota Kristof

(Traduzione di Vera Gheno)

da “Chiodi”, Edizioni Casagrande, 2018

∗∗∗

Titeket senki sem szeretett

Lassan megőszül az éj naptalan arcán
a csillagok egyre hullnak
sötét mély tavakba hullnak
és sötét mély erdőkbe hullnak
a csillagok

fehér
erdőszéli házak hamvadnak el megfeszül
az utak kő teste esztelen fájás
bujkál a fák ereiben
egyre erősebb a szél
egyre sötétebb a hó

testvéreim
titeket senki sem szeretett de holnap
kiléptek a hold
sugaraira
szemetek megszépül vérfoltokat mostok
kezeitekről ajkaitokról
körétek nőnek a fák
megcsendesül az éj is s langyos hamut hord
a szél meddő földjeitekre

∗∗∗

Vous n’étiez aimés de personne

Lentement la nuit devient vieille sur son visage pâle
les étoiles tombent sans arrêt
tombent dans les profondes rivières sombres
et dans les sombres forêts profondes tombent
les étoiles

blanches
maisons à la lisière de la forêt en cendres se tend
le corps caillouteux des routes la douleur insensée
se dérobe dans les veines des arbres
le vent est de plus en plus fort
et la neige de plus en plus sombre

mes frères
vous n’étiez aimés de personne mais demain
vous marcherez sur les rayons
de la lune
vos yeux pleins de beauté vous laverez les taches de sang
sur vos mains sur vos lèvres
autour de vous pousseront des arbres
la nuit aussi se calmera et la cendre tiède
le vent la portera sur vos terres stériles

Agota Kristof

(Traduit du hongrois par Maria Maïlat)

da “Agota Kristof, Clous -Szögek”, Poèmes hongrois et français, Éditions Zoé, 2016

«Noi vivremo» – Paul Celan

Paul Celan & Gisèle Celan-Lestrange

 

Noi
vivremo: tu,
mio figlio, e tu,
amata, tu
sua madre, e con voi
io − in questo
vostro
ospitale paese:
in Francia. Con
i suoi uomini, con
tutti gli uomini.
 
Si arrampica il fagiolo, il
bianco e il
rossochiaro − però
pensa anche alla
bandiera operaia a Vienna−
davanti a casa nostra
a Moisville.

Paul Celan

(Traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien)

da “Conseguito silenzio”, Einaudi, Torino, 1998

Bandiera operaia, riferimento all’insurrezione operaia, a Vienna, del 13/14-2-1938

∗∗∗

«Wir werden»

Wir werden
leben: du,
mein Sohn, und du,
Geliebte, du
seine Mutter, und mit euch
ich – in diesem
eurem
gastlichen Land:
in Frankreich. Mit
seinen Menschen, mit
allen Menschen.

Es klettert die Bohne, die
weiße und die
hellrote – doch
denk auch an die
Arbeiterfahne in Wien –
vor unserm Haus
in Moisville.

Paul Celan

da “Die Gedichte aus dem Nachlaß”, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1997

L’enigma innamorato – Piero Bigongiari

Foto di Cristina Venedict

 

La vita che ti ho dato, più che mia,
era la voce stessa dell’enigma
innamorato. Tu mi hai restituito,
non so se vero, il suo senso più alato.

Siamo partiti insieme pel viaggio
lontani dalla Sfinge. O era con noi?
Quella laringe ancora gorgogliava
qualcosa… O era solo il lieve raggio

di sole che davanti ai nostri passi
calpestava viole, accecava
grattacieli vetrati, confondeva
negli aeroporti arrivi e partenze.

Ci siamo amati come in un sogno
se è vero, come è vero, che l’amore
ha bisogno soltanto di se stesso
anche se non è in ogni lontananza

da chicchessia che l’ubbia di ogni senso
cancella la distanza dal recesso
in cui danza insensato il suo stesso
significato. Amore non significa?

D’ogni conoscenza altro non magnifica
che il volerne sapere sempre meno?
Sulle rive del Meno mi guardavi
con un sorriso strano. Eri tu

la Sfinge? Mi prendesti premurosa
per mano mentre il sole ancora tinge
del suo ambiguo splendore – quali acque?
Che cosa Amore finge? Cosa tacque?

O la sua voce è sempre più sottile,
la sua parola più e più silenziosa…
Che cosa osa, in quali contrade
sposta le strade, agita la rosa

profumata delle tue labbra, amata?
Non vuole forse farsi riconoscere
nemmeno da se stesso? Lui, solare,
vive meglio nell’ombra del suo eccesso?

È la felicità forse che ha smesso
di ossessionarlo? Parlo, ascolto, dico
all’amore mendico di aspettarci:
troppo veloce è il suo passo aprico

tra i suoi sparsi destini: elevarsi,
distruggersi, trovarsi, anche nascondersi
nell’evidenza. Udito, inaudito,
ha la dolcezza di un canto smarrito.

Ha più fini che mezzi, se l’amore
non ha confini. Ha cuore e non ha cuore
l’amore che esibisce nell’esistere
le sue tessere, le false e le vere?

L’incredulo vuole essere creduto,
sedulo nella sua divina malizia.
Dove ostenta pigrizia, non credetelo:
è lì che abile tesse la sua tela,

è lui che rivéla ciò che svela.

Piero Bigongiari

30 aprile – 1° maggio 1996

da “Il silenzio del poema: poesie 1996-1997”, Genova, Marietti, 2003

In verità cantare… – Rainer Maria Rilke

Leonid Pasternak, Rainer Maria Rilke

   

   Un Dio, lo può… Ma noi, come potremo
seguirlo per la sua fragile lira?
È scisso. Ed all’incrocio di due vie,
non sorge in cuore, per Apollo, un tempio.

   Non è, il canto che insegni, bramosía:
frutto goloso che si coglie alfine.
Cantare, è essere. Facile a un Iddio.
Ma noi, quando saremo? E quando, intorno,

   Egli ci volgerà la terra e gli astri?
Amare, non è essere, se pure
urge alla gola l’impeto del canto.

   Apprendi a moderarlo, a che non sfumi!
In verità cantare, è un altro soffio.
Spirar nel nulla… In Dio, spirare… Un vento…

Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “I Sonetti a Orfeo” (1922), in “Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941

∗∗∗

III.

Ein Gott vermags. Wie aber, sag mir, soll
ein Mann ihm folgen durch die schmale Leier?
Sein Sinn ist Zwiespalt. An der Kreuzung zweier
Herzwege steht kein Tempel für Apoll.

Gesang, wie du ihn lehrst, ist nicht Begehr,
nicht Werbung um ein endlich noch Erreichtes;
Gesang ist Dasein. Für den Gott ein Leichtes.
Wann aber sind wir? Und wann wendet er

an unser Sein die Erde und die Sterne?
Dies ists nicht, Jüngling, daß du liebst, wenn auch
die Stimme dann den Mund dir aufstößt, – lerne

vergessen, daß du aufsangst. Das verrinnt.
In Wahrheit singen, ist ein andrer Hauch.
Ein Hauch um nichts. Ein Wehn im Gott. Ein Wind.

Rainer Maria Rilke

da “Die Sonette an Orpheus”, Insel-Verlag, 1923