Arietta dei bambini – Maria Grazia Calandrone

Édouard Boubat, Madras, India, 1971



L’aria, la prima
che hai respirato, era aria di marzo e di mattina. Il sole
ardeva quieto nella sua onda
dalla finestra grande perché grande
era il cuore
e disinteressato
come il sole che appoggia la sua luce sulle acque del fiume
e naviga chiaro
fino al mare
dove lo spazio è tutto attraversato
da fischi di gabbiani e piú niente
fa male. È bello custodire
l’aria nuova sul viso di chi nasce, con mani
umane conservare
sacro il sacro, fare l’aria piú chiara dove tocca
il cuore, perché il cuore
sia semplice e leggero
come un aquilone
e altre cose che vanno dalla terra al cielo.
Bello è dire farò quello che posso
e piú di me, come tutte le altre sulla terra: prendi, vita
dalla mia vita
la tua innocente libertà.

Maria Grazia Calandrone

13 ottobre 2008

da “Questo inestimabile nulla”, in “Maria Grazia Calandrone, Sulla bocca di tutti”, Crocetti Editore, 2010

Alba – Emilio Prados

Marc Chagall, Over the town, 1918

 

Quanto vicini! Dal tuo occhio al mio
non il canto di un’anima!
Annodati sopra il vento
come uccelli ad uno stesso
filo, sospesi ambedue
al cielo. Quanto vicini
i nostri profili in mezzo
al giorno! Che alti! Puri
volano, in alto, slegati,
liberi dal mondo i volti
persi nella luce − aperti
come fiori senza stelo −,
viventi, ma senza corpo
che li possa incatenare
alla terra, là nel fondo!
Uniti, in mezzo alle nubi
ora volano alti, quieti
fermi al modo delle stelle
dell’alba, ma piú sereni
che stelle, come due piume,
simili a pesci del vento
fermati sopra di esso
con il filo del silenzio
che li mantiene sospesi
entro gli occhi, sopra il sonno.

Emilio Prados

(Traduzione di Francesco Tentori Montalto)

da “Memoria dell’oblio”, Einaudi, Torino, 1966

***

Amanecer

¡Qué cerca! ¡Desde mi ojo
a tu ojo, ni el canto de un alma!
Engarzados sobre el viento,
como pájaros a un mismo
cinto, prendidos al cielo
estamos los dos. ¡Qué juntos
nuestros perfiles en medio
del día! ¡Qué altos van! ¡Qué limpios
vuelan arriba, ya sueltos,
libres del mundo, los rostros,
flotando en la luz–abiertos
como dos flores sin tallo,
en ella–vivos, sin cuerpo
que los pueda sujetar
abajo en lo hondo, al suelo!
Juntos, por entre las nubes
están volando, altos, quietos,
parados igual que estrellas
del alba y aún más serenos
que estrellas, como dos plumas,
igual que peces del viento
suspendidos sobre él
con el sedal del silencio,
que los mantiene colgados,
por los ojos, sobre el sueño.

Emilio Prados

da “Emilio Prados, Antología”, Editorial Losada, Buenos Aires, 1954

Come ti si dovrebbe baciare – Erich Fried

Stanley Kubrick, Betsy von Furstenberg, 1950

(dal titolo di una poesia di Paul Fleming, 1609-1640)
                                                                                 per Elisabeth

Quando ti bacio
non è solo la tua bocca
non è solo il tuo ombelico
non è solo il tuo grembo
che bacio
Io bacio anche le tue domande
e i tuoi desideri
bacio il tuo riflettere
i tuoi dubbi
e il tuo coraggio

il tuo amore per me
e la tua libertà da me
il tuo piede
che è giunto qui
e che di nuovo se ne va
io bacio te
cosí come sei
e come sarai
domani e oltre
e quando il mio tempo sarà trascorso

Erich Fried

(Traduzione di Riccarda Novello)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVII, Gennaio 2004, N. 179, Crocetti Editore

∗∗∗

Wie du solltest geküsset sein

Wenn ich dich küsse
ist es nicht nur dein Mund
nicht nur dein Nabel
nicht nur dein Schoss
den ich küsse
Ich küsse auch deine Fragen
und deine Wünsche
ich küsse dein Nachdenken
deine Zweifel
und deinen Mut

deine Liebe zu mir
und deine Freiheit von mir
deinen Fuss
der hergekommen ist
und der wieder fortgeht
ich küsse dich
wie du bist
und wie du sein wirst
morgen und später
und wenn meine Zeit vorbei ist

Erich Fried

da “Gesammelte Werke: Gedichte”, Volume 1, Wagenbach, 1993

Coi denti macchiati d’inchiostro: fotografie – Elisa Biagini

(dialogo con Emily Dickinson)

la parola
silenzio ha
messo spine,
la sfiori
passando, ti
buchi le calze
a un suo
respiro.

un passo alla volta, per negazione,
segno il perimetro a questo nostro
campo di racconto – lettere dense da
reggere il vento dei suoni.

apri la finestra del polmone.

la sedia
rovesciata
per meglio copiare il
racconto di
luce, da sotto i
cassetti –

i capelli che sanno
di fiume.

ti gonfi d’ore,
trattieni il respiro –
capelli ovunque
magri come lettere

i fili tesi al pensarti,
dove inciampo.

tu racconti dell’erba
travolta, della piuma
incastrata alla
finestra, della pioggia
raccolta dentro
l’orecchio
(e il silenzio, qui
perde peso).

ti guardo, come
si guarda una casa
in fiamme. (mi
guardi, come si guarda
un fil di ferro
in un prato.)

respirano i
tuoi guanti
nel cassetto,
la maglia che
si tende alla
memoria –
la lampadina
e il suo
filamento.

soffia dalla
mattonella il vento
delle 3, sposta la
mano nello scrivere,
fa della gonna
una vela.

intrecciata alla federa,
siedo e taglio
le ore a fette sottili –
che durino.

smangiata,
quel troppo passare
lungo i muri per
cercare la porta –
grattugiata
(risèntiti, nell’osso
piú cavo).

con l’acqua dei
polmoni, annaffi
la gamba del
tavolo che
trema – il respiro
è di terra rivoltata.

le cose che cadono
dai libri –
un fazzoletto per
le unghie tagliate, tenuto
da un capello
lungo.

raggio di luna che
scardina il
cassetto, s’avvolge intorno
alla caviglia
(mi rimbocchi le
coperte per la notte –
la carta è ruvida e le
virgole pizzicano).

ti conti i
piedi cercando il
sonno al suono,
ascolti il pesce nell’
orecchio che traduce
l’acqua increspata
del bicchiere.

vicino alla prima
cervicale, dove
si salda il
pensare, sul
colletto, hai
ricamato l’alfabeto,
tutto.

quello che resta
è il calco del
respiro, il
morso che hai
dato all’aria
per tenerla.

la fronte appoggiata
nel buio, cuscino
striato d’inchiostro –
la rete d’acqua
dove rimbalzi
e poi ti alzi.

nella gola è lo specchio
d’olio, riflette la
parola senza
ruggine.

nell’acqua
alle caviglie
per lo specchio,
il polso, la
gola lasciati
distrattamente
aperti –
il coltello dei sogni
riluce.

unturned stone-
words – hair
stuck in a window.

conosci la misura
del respiro, il nodo al
fazzoletto, il peso
del tuo corpo
sulla soglia,

la lunghezza della
freccia nella
mano.

stamani c’è come
un gorgo nel bicchiere,
c’è l’acqua che
ti chiama al suo
deserto.

si addensa negli
angoli lo sguardo,
mercurio rotolato
dal termometro.

tiri via la tua
mano dall’
inverno e
ascolti lo
scricchiolio del
legno, parola
alla soglia.

il viso che decidi
d’ignorare, midollo
e neve insieme.
il mattino arriva
per caso, alla luce
del tuo stesso fuoco.

s’accende la
candela al
tuo voltarti –
hai spazzolato
il sonno dai
capelli (o
spazzolato dentro
il buio?)

c’è corrente
da sotto la porta,
il racconto della
polvere dietro,
dell’unica briciola
sul tavolo.

è sempre centro
lí, dove il
pensarti riscalda
la coperta del
risveglio.

scivola la carta
via dal palmo,
ti viene incontro
come tendine
slegato, ti si
cuce sul braccio.

resta intatto
l’oggetto che ti
sfiora: tu t’impigli,
ti sfili, illividisci,
t’intacchi di tempo
a ogni contatto –
polpastrelli imbevuti
di lava.

là rovina la
ruota dell’occhio,
inciampa nel
filo fattosi d’improvviso
scuro.

scrivi ai bordi,
per lasciare respiro
al tuo dire

fuoco spento ogni giorno
col latte.

sorridi
coi denti macchiati
d’inchiostro – sotto l’unghia
il nero della parola grattata
via oggi.

l’orecchio è l’ultimo
volto. poi ti seguo
con la candela all’
orizzonte, dove
ti bagni i piedi
nel buio.

Elisa Biagini

da “Da una crepa”, Einaudi, Torino, 2014

«E in ultimo ti dirò: – Addio» – Bella Achatovna Achmadulina

Foto di Gabrielle Duplantier

 

E in ultimo ti dirò: — Addio,
e non promettermi amore.
Perderò la ragione. O troverò 
la sublime serenità della follia.

Come mi hai amato? Pregustando
l’offesa della fine. Ma non è questo…
Come mi hai amato? Offendendo i principi
dell’amore. Ma in modo così goffo…

Crudeltà del fallimento, io
non ti perdono. Vivo, cammino,
vedo il bianco mondo,
ma il corpo mio è deserto.

La mente vorrebbe ancora un piccolo
lavoro. Ma son deboli le mani.
E uno sciame di odori e di sapori
in volo sghembo si allontana da me.

Bella Achatovna Achmadulina

(Traduzione di Serena Vitale)

da “Tenerezza e altri addii”, Guanda, 1971