Primo ghiaccio – Andrej Andreevič Voznesenskij

Anka Zhuravleva

Foto di Anka Zhuravleva

 

Nella cabina del telefono,
una bambina gela al freddo:
nel cappottino intirizzito
nasconde il viso che le lagrime
sbaffano tutto di rossetto.

Soffia dentro le palme magroline.
Le dita son ghiacciuoli. Ai lobi, orecchini.

Se ne dovrà tornare sola sola
per tutto il ghiaccio della stradicciola.

Il primo ghiaccio. È la prima volta.
Primo ghiaccio delle frasi telefoniche.

Brilla sulle guance una traccia gelata:
il primo ghiaccio delle offese umane.

Andrej Andreevič Voznesenskij

(Traduzione di Mario Socrate)

da “Scrivo come amo”, “Le Comete” Feltrinelli, 1962

∗∗∗

Первый лёд

Мерзнет девочка в автомате,
Прячет в зябкое пальтецо
Все в слезах и губной помаде
Перемазанное лицо.

Дышит в худенькие ладошки.
Пальцы  — льдышки. В ушах — сережки;

Ей обратно одной, одной
Вдоль по улочке ледяной.

Первый лед. Это в первый раз.
Первый лед телефонных фраз.

Мерзлый след на щеках блестит—
Первый лед от людских обид.

Андрей Андреевич Вознесенский

Vedremo domenica – Milo De Angelis

Foto di Alex Pardi

 

Contare i secondi, i vagoni dell’Eurostar, vederti
scendere dal numero nove, il carrello, il sorriso,
il batticuore, la notizia, la grande notizia.
Questo è avvenuto, nel 1990. È avvenuto, certamente
è avvenuto. E prima ancora, il tuffo nel Ticino,
mentre il pallone scompariva. È avvenuto.
Abbiamo visto l’aperto e il nascosto di un attimo.
Le fate tornavano negli alloggi popolari, l’uragano
riempiva un cielo allucinato. Ogni cosa era lì,
deserta e piena, per noi che attendiamo.

*

Milano era asfalto, asfalto liquefatto. Nel deserto
di un giardino avvenne la carezza, la penombra
addolcita che invase le foglie, ora senza giudizio,
spazio assoluto di una lacrima. Un istante
in equilibrio tra due nomi avanzò verso di noi,
si fece luminoso, si posò respirando sul petto,
sulla grande presenza sconosciuta. Morire fu quello
sbriciolarsi delle linee, noi lì e il gesto ovunque,
noi dispersi nelle supreme tensioni dell’estate,
noi tra le ossa e l’essenza della terra.

*

Non è più dato. Il pianto che si trasformava
in un ridere impazzito, le notti passate
correndo in Via Crescenzago, inseguendo il neon
di un’edicola. Non è più dato. Non è più nostro
il batticuore di aspettare mezzanotte, aspettarla
finché mezzanotte entra nel suo vero tumulto,
nella frenesia di tutte le ore, di tutte le ore.
Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola
la morte, poche le ossessioni, poche
le notti d’amore, pochi i baci, poche le strade
che portano fuori di noi, poche le poesie.

*

Tutto era già in cammino. Da allora a qui. Tutto
il tempo, luminoso, sfiorava le labbra. Tutti
i respiri si riunivano nella collana. Le ombre
di Lambrate chiusero la porta. Tutta la stanza,
assorta, diventò il primo battito. Il nero
dei tuoi capelli contro il giallo dell’ultimo raggio.
Da allora a qui. Era il primo giorno dell’estate.
Il silenzio ci riempiva la fronte. Tutto era
già in cammino, da allora, tutto era qui, unico
e perduto, nostro e remoto. Tutto chiedeva
di essere atteso, di tornare nel suo vero nome.

*

Non c’era più tempo. La camera era entrata in una fiala.
Non era più dato spartire l’essenza. Non avevi
più la collana. Non avevi più tempo. Il tempo era una luce
marina tra le persiane, una festa di sorelle,
la ferita, l’acqua alla gola, Villa Litta. Non c’era
più giorno. L’ombra della terra riempiva gli occhi
con la paura dei colori scomparsi. Ogni molecola
era in attesa. Abbiamo guardato il rammendo
delle mani. Non c’era più luce. Ancora una volta
ci stanno chiamando, giudicati da una stella fissa.

*

 Nell’estate del tempo umano, nell’ultima estate,
c’erano tutte le strade. La Prenestina
con le sue tangenziali raggiungeva il mare
di Taranto vecchia e i giardini di Porta Venezia,
geografia di unioni insperate, tempo che non si perde,
tutte le strade, tutti gli amori immersi in uno solo
e rinati, tutti i passi davanti al portone, gli sguardi
sul citofono, tutte le voci, gli accenti, le sillabe,
tu che uscivi sorridente con il tuo colbacco
e camminavi decisa verso un autobus.

*

C’è stato un compleanno, all’inizio, certamente.
Cinque candeline azzurre, i parenti mai visti,
gli evviva. C’è stato, quello c’è stato.
Il quindicesimo fu in Monferrato, ricordo,
con Luisella e Cristiana, il torneo di lotta sul Po,
il corpo vinto, il seno intravisto. È stato lì.
Nel misterioso tumulto si formava un’ossatura, il senso
delle ore troncate. Tutto era più vicino al sangue
che all’arcobaleno. C’è stato. C’è stato. Gli occhi
cercavano, nella materia inquieta, un’incisione.
Nel viso invecchiato di una donna, il mondo
intero appassiva. Poi, in una paladina, rinasceva. Latte
e croce. Via degli smarriti. Compito scritto.

*

In te si radunano tutte le morti, tutti
i vetri spezzati, le pagine secche, gli squilibri
del pensiero, si radunano in te, colpevole
di tutte le morti, incompiuta e colpevole,
nella veglia di tutte le madri, nella tua
immobile. Si radunano lì, nelle tue
deboli mani. Sono morte le mele di questo mercato,
queste poesie tornano nella loro grammatica,
nella stanza d’albergo, nella baracca
di ciò che non si unisce, anime senza sosta,
labbra invecchiate, scorza strappata al tronco.
Sono morte. Si radunano lì. Hanno sbagliato,
hanno sbagliato l’operazione.

*

Il luogo era immobile, la parola scura. Era quello
il luogo stabilito. Addio memoria di notti
lucenti, addio grande sorriso. Il luogo era lì.
Respirare fu un buio di persiane, uno stare primitivo.
Silenzio e deserto si scambiavano volto e noi
parlavamo a una lampada. Il luogo era quello. I tram
passavano radi. Venere ritornava nella sua baracca.
Dalla gola guerriera si staccavano episodi. Non abbiamo
detto più niente. Il luogo era quello. Era lì
che stavi morendo.

*
Affogano le nazioni, crollano le torri, un caos
di lingue e colori, traumi e nuovi amori,
entra alla Bovisasca, spazza via il novecento
della solitudine maestra, del nostro verso
sospeso nel vuoto. Altre donne si aggirano
tra gli scarti del mercato, nella nuova miseria
di questo istante. Io siedo al caffè sottocasa,
guardo il paesaggio che fu di Sironi, in un solitario
dodici agosto, inizio a convocare le ombre.

Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza
di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.
E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria
a tre secondi dalla fine. E Roberta
che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,
in un silenzio di ospedali, quando il tempo
rivela i suoi grandi paradigmi.
“Torneranno vivi gli amori tenebrosi
che in mezzo agli anni lasciarono
una spina, torneranno, torneranno luminosi.”

Milo De Angelis

da “Tema dell’Addio”, “Lo Specchio” Mondadori, 2005

«Ancora ti prospera il fogliame intorno al cuore» – Mariella Mehr

Foto di Katia Chausheva

 

Ancora ti prospera il fogliame intorno al cuore
e una fresca presa di sale
impregna il tuo sguardo.

Di me nessuno vuol sapere,
di chi io sia la spezia
e di quale amore la durata.

Spesso canta il lupo nel mio sangue
e allora l’anima mia si apre
in una lingua straniera.

Luce, dico allora, luce di lupo,
dico, e che non venga nessuno
a tagliarmi i capelli.

Mi annido in briciole straniere
e sono a me parola sufficiente.
Effimero, mi dico,
perché presto cesserà ogni annidare,

e scorre via il resto di ogni ora.

Mariella Mehr

(Traduzione di Anna Ruchat)

da “Ognuno incatenato alla sua ora”, Einaudi, Torino, 2014

∗∗∗

«Dir blüht noch Laub ums Herz»

Dir blüht noch Laub ums Herz,
und eine frische Prise Salz
haftet dir im Blick.

Von mir will keiner wissen,
wess’ Gewürz ich bin
und welcher Liebe Dauer.

Oft singt mir der Wolf im Blut,
dann wird mir warm
in einer fremden Sprache.

Licht, sag ich dann, Wolfslicht,
sag ich, und das mir keiner komme,
das Haar zu schneiden.

In fremden Krumen keime ich
und bin mir Wort genug.
Vergänglich, sag ich mir,
denn bald hört jedes Keimen auf,

Und einer jeden Stunde Rest läuft ab.

Mariella Mehr

da “Nachrichten aus dem Exil”, Drava, 1998 

Le muraglie del mondo – Giancarlo Pontiggia

Foto di Boris Smelov

 

      Vicenda dopo vicenda
nella furia viola, nel delirio
dei giorni, s’imprime, sulla pelle
degli esseri del mondo, l’unghia

del tempo

   Stridono, le cose,
nella botola – scura – della materia,
oscillano

a un fiato di mondo

   E sei, e non sei, sei
dove non è che vita
prima, bollore

d’origine

   E dove guardi, non è memoria
ma ostinata volontà di essere
non nel nome, né nella gloria
di uno, ma del tutto
che ripiega, a notte, nel suo eremo
– cieco, torvo –

di nube

   E t’immoti, nel tuo ultimo qui
come nel primo, ti incateni
agli stupefacenti velami del mondo
– ori che razzano, ombre, lumi
di poco, nomi
che s’inabissano in altri nomi, sensi
petrosi, sepolti

in una voragine di fuoco

   E in un vimine, in un filaccio
di stoppia, nel viticcio
che si avviluppa – sovrano, irripetibile –
alle correnti, ondose, dell’aria, è

cielo
e fuoco,
terra che smotta, acque
che sprofondano in altre

acque

   Guardi, e temi
nello stridìo rigoglioso delle cose
che scrollano
da sé ogni nome

vibrano

s’impollinano, tumultuano
all’appello

di un ordine incessante

   Nell’ordine uncinato delle cose,
nel suo fulgore di fuoco e di vento
in ciò che è
e non è

impazzano

gli atomi della mente, nomi
infrazionabili

   Si liquefà, il pensiero
nel suo covo – altero, irreprensibile –

di bronzo lucente

   E affondi
sulla stadera del mondo
al flettersi di un ferro austero,
costante.

Pullula, tra i pesi del tempo,
una congerie di nomi

forme, stampi

   Vortica, l’infinitesima
frazione delle cose, folgora
come al tempo dei tempi

cognizione, talla, scura
deità

   E forzano i confini della mente,
giungono
al tempo che non consola

Necessità
li uncina, dal suo trono di nubi
perenni

Vacillano

   E invochi il giorno, il mese, l’anno
dei tuoi cominciamenti
spore, semi, stampi
del mondo che si ripete, incessante

e tremi

   E nessuno conosce il dopo,
non più del prima
e insorgono contro la fine
con litanie possenti,
con nomi

di fuoco

   Sopravvivono
nei semi dei semi
e della loro semenza, fino all’estremo
conflagrare di tutte

le cose

   Smottano
le muraglie del mondo

Natura,
salamandra possente, torce
la sua coda di tempo

fervido,
che ribolle

Giancarlo Pontiggia

da “Il moto delle cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 2017

Il ricordo 3 – Juan Ramón Jiménez

Foto di Christopher Lee Donovan

I

Non te ne andare, ricordo, non te ne andare!
Volto, non svanire, così,
come nella morte!
Continuate a guadarmi, occhi grandi, fissi,
come un momento mi guardaste!
Labbra, sorridetemi,
come un momento mi sorrideste!

II

Ah fronte mia, datti da fare;
non lasciare che si sparga
la sua forma fuori del suo sembiante!
Comprimi il suo sorriso ed il suo sguardo,
fino a farli divenir mia vita interna!

III

— Sebbene mi dimentichi di me stesso;
sebbene prenda il mio volto, nel soffrir tanto per lui,
la forma del suo volto;
sebbene io sia lei,
sebbene si perda in lei la mia struttura! —

IV

Oh ricordo, sii me!
Tu — lei — sii ricordo, tutto e solo, per sempre;
ricordo che mi guardi e mi sorrida
nel nulla;
e ricordo, vita con mia vita,
divenuto eterno cancellandomi, cancellandomi!

Juan Ramón Jiménez

(Traduzione di Claudio Rendina)

da “Poesie d’amore”, Newton, Roma, 1971

***

El recuerdo 3

I

¡No te vayas, recuerdo, no te vayas!
¡Rostro, no te deshagas, así
como en la muerte!
¡Seguid mirándome, ojos grandes, fijos,
como un momento me mirasteis!
¡Labios, sonreídme,
como me sonreisteis un momento!

II

¡Ay, frente mía, apriétate;
no dejes que se esparza
su forma fuera de su continente!
¡Oprime su sonrisa y su mirar,
hasta dejarlas hechas vida mía interna!

III

— ¡Aunque me olvide de mí mismo;
aunque tome mi rostro, de sentirlo tanto,
la forma de su rostro;
aunque yo sea ella,
aunque se pierda en ella mi estructura! —

IV

¡Oh recuerdo, sé yo!
¡Tú — ella — sé recuerdo todo y solo, para siempre;
recuerdo que me mire y me sonría
en la nada;
recuerdo, vida con mi vida,
hecho eterno borrándome, borrándome!

Juan Ramón Jiménez

da “Piedra y cielo”, Editorial Atenea de Madrid, 1919