Prima del Principio – Octavio Paz

Foto da “Un homme et une femme”, Claude Lelouch, 1966

 

Rumori confusi, incerto chiarore.
Inizia un nuovo giorno.
È una stanza in penombra
e due corpi distesi.
Nella fronte mi perdo
in un pianoro vuoto.
Già le ore affilano rasoi.
Ma al mio fianco tu respiri;
intimamente mia eppur remota
fluisci e non ti muovi.
Inaccessibile se ti penso,
con gli occhi ti tocco,
ti guardo con le mani.
I sogni ci separano
ed il sangue ci unisce:
siamo un fiume di palpiti.
Sotto le tue palpebre matura
il seme del sole.
                             Il mondo
non è ancora reale,
il tempo è dubbio:
                                 solo il calore
della tua pelle è vero.
Nel tuo respiro ascolto
la marea dell’essere,
la sillaba scordata del Principio.

Octavio Paz

(Traduzione di Maria Pia Lamberti)

dalla rivista “Poesia”, Anno IX, Novembre 1996, N. 100, Crocetti Editore

∗∗∗

Antes del comienzo

Ruidos confusos, claridad incierta.
Otro día comienza.
Es un cuarto en penumbra
y dos cuerpos tendidos.
En mi frente me pierdo
por un llano sin nadie.
Ya las horas afilan sus navajas.
Pero a mi lado tú respiras;
entrañable y remota
fluyes y no te mueves.
Inaccesible si te pienso,
con los ojos te palpo,
te miro con las manos.
Los sueños nos separan
y la sangre nos junta:
somos un río de latidos.
Bajo tus párpados madura
la semilla del sol.
                               El mundo
no es real todavía,
el tiempo duda:
                             sólo es cierto
el calor de tu piel.
En tu respiración escucho
la marea del ser,
la sílaba olvidada del Comienzo

Octavio Paz

da “Árbol adentro” (1976-1987), Barcelona: Seix Barral, 1987

Spezza la lancia – Moka

Foto di Cosetta Frosi

 

Spezza la lancia
sul mio corpo,
involucro
senza scanno,
involucro
senza destino.
Spezza la lancia
perché capire
io non posso
con un altro
cammino.
Spezza la lancia
sul mio corpo,
esso non si piega,
porta le radici
nel dolore
dell’uomo.
Riversa su di me
il tuo sangue
e le vergogne,
taccia la morte,
non è lì
che cerchi rifugio
alle vane verità
umane.
Spezza le condanne,
le misericordie
sul mio manto,
nel silenzio nero
c’è tutto
il ricordo
e le illuse
certezze.

Moka

da “Buchi temporali”, Youcanprint, 2020

Buchi temporali – IBS
Buchi temporali – la FELTRINELLI
Buchi temporali – Youcanprint

Un appunto – Wisława Szymborska

 

La vita – è il solo modo
per coprirsi di foglie,
prendere fiato sulla sabbia,
sollevarsi sulle ali;

essere un cane,
o carezzarlo sul suo pelo caldo;

distinguere il dolore
da tutto ciò che dolore non è;

stare dentro gli eventi,
dileguarsi nelle vedute,
cercare il più piccolo errore.

Un’occasione eccezionale
per ricordare per un attimo
di che si è parlato
a luce spenta;

e almeno per una volta
inciampare in una pietra,
bagnarsi in qualche pioggia,
perdere le chiavi tra l’erba;
e seguire con gli occhi una scintilla nel vento;

e persistere nel non sapere
qualcosa d’importante.

Wisława Szymborska

(Traduzione di Pietro Marchesani)

da “Attimo”, Libri Scheiwiller, 2004

∗∗∗

Notatka 

Życie – jedyny sposób,
żeby obrastać liśćmi,
łapać oddech na piasku,
wzlatywać na skrzydłach;

być psem,
albo pogłaskać go po ciepłej sierści;

odróżniać ból
od wszystkiego, co nim nie jest;

mieścić się w wydarzeniach,
podziewać w widokach,
poszukiwać najmniejszej między omyłkami.

Wyjątkowa okazja,
żeby przez chwilę pamiętać,
o czym się rozmawiało
przy zgaszonej lampie;

i żeby raz przynajmniej
potknąć się o kamień,
zmoknąć na którymś deszczu,
zgubić klucze w trawie;
i wodzić wzrokiem za iskrą na wietrze;

i bez ustanku czegoś ważnego
nie wiedzieć.

Wisława Szymborska

da “Chwila”Wydawnictwo Znak, Kraków, 2002

«I segni che volarono, un giorno, fino a noi» – Giancarlo Pontiggia

Foto di Minor White

 

I segni che volarono, un giorno, fino a noi
e ci colpirono; le cose
che già erano prima di noi,
e restano, quasi immortali, dopo;
tutto ciò che s’impadronì dei nostri occhi
e fece vela verso il cuore, navigando
per scogli di pensieri improvvisi, di immagini
celate, inaccessibili;

emozioni
che ci scossero, sensi
che ci turbarono, congiunzioni felici; giorni
di vaste nubi accidiose, che ci spinsero
sulle rive di una morte troppo
a lungo invocata

– non furono loro che ci legarono
alla vita, al sovrano, fisico, delirante

moto delle cose?

Giancarlo Pontiggia

da “Il moto delle cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 2017

La nascita di Venere – Rainer Maria Rilke

Foto di Antonio Mora

     

       In quell’alba — trascorsa era la notte
piena d’orgasmi, d’impeti e di grida —
il mare ancóra si sconvolse. Urlò.
E come l’urlo si richiuse lento,
giú dai pallidi cieli mattutini
nel muto abisso celere piombando –
il mare generò.

     Al primo sole, scintillò di ricci,
ribalenò l’immenso equoreo pube.
Candida, in sé rattratta, umida ancóra,
fuor dalle spume una fanciulla emerse.
Come la foglia verde appena messa
freme, si stira e languida si svolge,
cosí per entro la frescura intatta,
nella fievole brezza del mattino,
a poco a poco il corpo suo si schiuse.

     Fulgidi risalirono i ginocchi.
Sfere di luna, parvero: sommersi
nei nebulosi margini dell’anche.
L’ombra arretrò. Scoprí gli agili stinchi.
Si protesero i piedi: e furon luce.
Come nel sorso palpita la gola,
ogni giuntura palpitò. Fu luce.

     Entro il calice alciònio, era quel corpo
come in mano di bimbo un fresco pomo.
E nel piccolo stimma a mezzo il ventre,
accogliersi parea tutta la tenebra
di quella immensa chiarità vivente.

     Sott’essa risalía, fievole e chiaro,
l’arco dei lombi, il flutto; e ricadeva,
ruscellando sommesso, a quando a quando.
Di luce intriso, non ancóra ombrato,
come d’aprile macchia di betulle,
si palesava ignudo il caldo pube.

     Quindi si bilanciò la svelta linea
delle morbide spalle, equilibrata,
su lo stelo del corpo, che, diritto,
vibrò come zampillo. Alto, ricadde,
con lento indugio, nelle braccia lunghe,
precipitando in gonfie onde di chiome.

     Il vólto trapassò, piano, dall’ombra
del suo scorcio reclino, ecco, alla luce.
Eretto fu. Sott’esso, rilevato,
si conchiuse del mento il tondo giro.
Ma poi che il collo dardeggiò, vibrando
come uno stelo fervido di linfe,
anche le braccia s’agitaron tese,
colli di cigni all’erma sponda aneli.

     Ed ecco: all’improvviso, entro la grigia
alba sopita delle membra, corse
la prima brezza: un timido respiro.
Nel piú sottile e rameggiante intrico
delle trepide vene, un sussurrío
flebile si levò: frusciò, sovr’esso,
il primo alàcre scorrere del sangue.
Quindi, la brezza rinforzò. Fu vento.
Con tutto il fiato si gittò per entro
gli acerbi seni. Li gonfiò, compresso.
Candide vele ricolme di spazio,
trassero, quelli, il lieve corpo a riva.

     Ed approdò la Dea.

     Dietro di lei, che per i lidi nuovi,
rapido il passo, procedea, — balzarono
tutto il mattino i fiori e gli alti steli:
ardenti ed ebri, quasi appena dèsti
da una notte di amplessi.

                                               Ed ella andava,
velocemente lontanando in corsa.

     Ma nell’ora piú calda, a mezzo il giorno,
ancóra il mare si sconvolse, urlando.

     Un delfino gittò — dai flutti stessi —
porpora enorme. Esanime, squarciato.

Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Vincenzo Errante)

dalle “Nuove Poesie”, in “Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941

***

Geburt der venus

An diesem Morgen nach der Nacht, die bang
vergangen war mit Rufen, Unruh, Aufruhr,—
brach alles Meer noch einmal auf und schrie.
Und als der Schrei sich langsam wieder schloß
und von der Himmel blassem Tag und Anfang
herabfiel in der stummen Fische Abgrund—:
gebar das Meer.

Von erster Sonne schimmerte der Haarschaum
der weiten Wogenscham, an deren Rand
das Mädchen aufstand, weiß, verwirrt und feucht.
So wie ein junges grünes Blatt sich rührt,
sich reckt und Eingerolltes langsam aufschlägt,
entfaltete ihr Leib sich in die Kühle
hinein und in den unberührten Frühwind.

Wie Monde stiegen klar die Kniee auf
und tauchten in der Schenkel Wolkenränder;
der Waden schmaler Schatten wich zurück,
die Füße spannten sich und wurden licht,
und die Gelenke lebten wie die Kehlen
von Trinkenden.

Und in dem Kelch des Beckens lag der Leib
wie eine junge Frucht in eines Kindes Hand.
In seines Nabels engem Becher war
das ganze Dunkel dieses hellen Lebens.

Darunter hob sich licht die kleine Welle
und floß beständig über nach den Lenden,
wo dann und wann ein stilles Rieseln war.
Durchschienen aber und noch ohne Schatten,
wie ein Bestand von Birken im April,
warm, leer und unverborgen lag die Scham.

Jetzt stand der Schultern rege Wage schon
im Gleichgewichte auf dem graden Körper,
der aus dem Becken wie ein Springbrunn aufstieg
und zögernd in den langen Armen abfiel
und rascher in dem vollen Kall des Haars.

Dann ging sehr langsam das Gesicht vorbei:
aus dem verkürzten Dunkel seiner Neigung
in klares, wagrechtes Erhobensein.
Und hinter ihm verschloß sich steil das Kinn.

Jetzt, da der Hals gestreckt war wie ein Strahl
und wie ein Blumenstiel, darin der Saft steigt,
streckten sich auch die Arme aus wie Hälse
von Schwänen, wenn sie nach dem Ufer suchen.

Dann kam in dieses Leibes dunkle Frühe
wie Morgenwind der erste Atemzug.
Im zartesten Geäst der Aderbäume
entstand ein Flüstern, und das Blut begann
zu rauschen über seinen tiefen Stellen.
Und dieser Wind wuchs an: nun warf er sich
mit allem Atem in die neuen Brüste
und füllte sie und drückte sich in sie,—
daß sie wie Segel, von der Ferne voll,
das leichte Mädchen nach dem Strande drängten.

So landete die Göttin.

Hinter ihr,
die rasch dahinschritt durch die jungen Ufer,
erhoben sich den ganzen Vormittag
die Blumen und die Halme, warm, verwirrt
wie aus Umarmung. Und sie ging und lief.

Am Mittag aber, in der schwersten Stunde,
hob sich das Meer noch einmal auf und warf
einen Delphin an jene selbe Stelle.
Tot, rot und offen.

Rainer Maria Rilke

da “Neue Gedichte”, Insel-Verlag, Leipzig, 1907