La storia delle nostre vite – Mark Strand

A Howard Moss
1

Leggiamo la storia delle nostre vite
che si svolge in una stanza.
La stanza si affaccia su una strada.
Là fuori non c’è nessuno,
non c’è rumore alcuno.
Le piante sono appesantite dalle foglie,
le auto parcheggiate sempre ferme.
Continuiamo a voltar pagina,
sperando vi sia qualcosa,
qualcosa come grazia o mutamento,
una linea nera che ci unisca
o ci separi.
A conti fatti, parrebbe
che il libro delle nostre vite sia vuoto.
I mobili nella stanza non li si sposta mai,
e i tappeti si fanno più scuri ogni volta
che le nostre ombre vi trascorrono.
Pare quasi che la stanza sia il mondo.
Seduti fianco a fianco sul divano,
leggiamo del divano.
Diciamo che è ideale.
È ideale.

2

Leggiamo la storia delle nostre vite
come ne fossimo parte,
come l’avessimo scritta noi.
È un tema ricorrente.
In un capitolo
mi appoggio allo schienale e metto il libro da parte
perché il libro dice che è quello che faccio.
Mi appoggio allo schienale e comincio
a scrivere qualcosa che parla del libro.
Scrivo che vorrei spingermi oltre il libro,
oltre la mia vita in un’altra vita.
Ripongo la penna.
Il libro dice: Lui ripose la penna
e si volse a guardarla leggere
il brano in cui lei si innamorava.
Il libro è più preciso di quanto riusciamo a immaginare.
Mi appoggio allo schienale e ti guardo leggere
qualcosa sull’uomo che sta al di là della strada.
Hanno costruito una casa di là,
e un giorno ne è uscito un uomo.
Ti sei innamorata di lui
perché sapevi non sarebbe mai venuto a trovarti,
non avrebbe mai saputo che attendevi.
Sera dopo sera avresti poi detto
che era come me.
Mi appoggio allo schienale e ti guardo invecchiare senza di me.
Il sole ti si posa sui capelli d’argento.
I tappeti, i mobili,
paiono quasi immaginari, adesso.
Lei continuava a leggere.
Pareva non considerare l’assenza di lui
di particolare importanza,
come chi in una giornata stupenda considera
il tempo un disastro
perché non gli ha fatto cambiare idea.
Strizzi gli occhi.
Hai l’impulso di chiudere il libro
che descrive la mia resistenza:
dice che quando mi appoggio allo schienale immagino
la mia vita senza di te, immagino di trasferirmi
in un’altra vita, un altro libro.
Descrive la tua dipendenza dal desiderio,
dice che le rivelazioni momentanee
di un’intenzione ti impauriscono.
Il libro descrive assai più di quanto dovrebbe.
Il libro vuole separarci.

3

Stamattina al risveglio credevo
che nelle nostre vite non ci fosse altro
che la storia delle nostre vite.
Quando esprimesti disaccordo indicai
il punto nel libro in cui esprimevi disaccordo.
Ti sei riaddormentata e ho iniziato a leggere
quei passi oscuri che solevi provare a indovinare
mentre venivano scritti
e per cui perdevi interesse una volta divenuti
parte della storia.
In un brano vesti fredde di luna
drappeggiano le sedie nella stanza di un uomo.
Lui sogna una donna le cui vesti sono perse,
e che siede in giardino e aspetta.
Lei crede che amore sia sacrificio.
Il brano descrive la sua morte
e lei non viene mai nominata,
e questa è una delle cose
che di lei non si sopportano.
Poco dopo veniamo a sapere
che l’uomo che sogna abita
nella casa nuova di fronte.
Stamattina dopo che ti sei riaddormentata
ho cominciato a sfogliare la prima parte del libro:
era come sfogliare l’infanzia,
tante di quelle cose parevano svanite,
tante di quelle cose parevano ritornare in vita.
Non sapevo che fare.
Il libro diceva: In quegli attimi era il libro dell’uomo.
Una corona tetra gli cingeva sgradevole la testa.
Era il breve sovrano della discordia interiore ed esteriore,
pavido nel proprio regno.

4

Prima che ti svegliassi
ho letto un altro passo che descriveva la tua assenza
e raccontava che dormi per invertire
il fluire della tua vita.
Mi sono commosso per la mia solitudine nel leggerlo,
conscio che ciò che provo è la forma grezza
e mal riuscita di una storia
che potrebbe non venir mai raccontata.
Leggevo e mi commuovevo al desiderio di offrirmi
alla casa del tuo sonno.

Voleva vederla nuda e vulnerabile,
vederla nelle trame accantonate, scartate
dei vecchi sogni, i costumi e le maschere
di stati irraggiungibili.
Era come se venissero irresistibilmente
attratti dal fallimento.
Era difficile continuare a leggere.
Ero stanco e volevo rinunciare.
Il libro pareva rendersene conto.
Accennai a cambiare argomento.
Ho atteso che ti svegliassi senza sapere
quanto ho aspettato,
e pareva che non stessi più leggendo.
Sentivo il vento passare
come un flusso di sospiri
e sentivo il brivido delle foglie
sull’albero oltre la finestra.
Nel libro lo si sarebbe ritrovato.
Vi si sarebbe ritrovato tutto.
Ho guardato il tuo volto
e ho letto gli occhi, il naso, la bocca…

5

Se solo vi fosse un attimo perfetto nel libro;
se solo potessimo vivere in quell’attimo,
potremmo ricominciare il libro
come se non l’avessimo scritto,
come se non fossimo in esso.
Ma gli accessi oscuri
a ogni pagina sono troppo numerosi
e le vie di fuga troppo anguste.
Leggiamo tutto il giorno.
Ogni pagina girata è  una candela
che ci si muove nella mente.
Ogni attimo è una causa persa.
Se solo potessimo smettere di leggere.
Lui non volle mai leggere altro libro
e lei continuava a fissare la strada.
Le auto c’erano ancora,
le copriva l’ombra fitta degli alberi.
Le imposte della casa nuova erano chiuse.
Forse l’uomo che vi abitava,
l’uomo che lei amava, leggeva
la storia di un’altra vita.
Lei immaginava un salotto spoglio,
un caminetto freddo, un uomo seduto
a scrivere una lettera a una donna
che ha sacrificato la vita per amore.
Se vi fosse un attimo perfetto nel libro,
sarebbe l’ultimo.
Il libro non parla mai delle cause dell’amore.
Sostiene che la confusione è un bene necessario.
Non spiega mai. Rivela.

6

II giorno continua.
Studiamo quel che ci ricordiamo.
Guardiamo nello specchio oltre la stanza.
Non sopportiamo d’essere soli.
Il libro continua.
Ammutolirono senza sapere come iniziare
il dialogo necessario.
Erano le parole soprattutto a creare divisioni,
a creare solitudine.
Attendevano.
Voltavano le pagine nella speranza
che accadesse qualcosa.
Rattoppavano le loro vite in segreto:
ogni sconfitta perdonata perché non poteva essere messa alla prova,
ogni dolore premiato perché irreale.
Non facevano nulla.

7

Il libro non sopravviverà.
Ne siamo prova vivente.
È buio fuori, nella stanza è più buio.
Sento che respiri.
Mi chiedi se sono stanco,
se voglio leggere ancora.
Sì, sono stanco.
Sì, voglio leggere ancora.
Dico sì a tutto.
Non puoi sentirmi.
Stavano seduti fianco a fianco sul divano.
Erano le copie, gli spettri esausti
di qualcosa che erano stati in precedenza.
Assumevano atteggiamenti spossati.
Fissavano il libro
ed erano orripilati dalla propria ingenuità,
dalla riluttanza ad arrendersi.
Stavano seduti fianco a fianco sul divano.
Erano decisi ad accettare la verità.
Qualunque fosse l’avrebbero accettata.
Il libro lo si sarebbe dovuto scrivere
e lo si sarebbe dovuto leggere.
Sono loro il libro e non sono
niente altro.

Mark Strand

(Traduzione di Damiano Abeni)

da “L’inizio di una sedia”, Donzelli Poesia, 1999

∗∗∗

The story of our lives

                                                                  for Howard Moss
1

We are reading the story of our lives
which takes place in a room.
The room looks out on a street.
There is no one there,
no sound of anything.
The trees are heavy with leaves,
the parked cars never move.
We keep turning the pages,
hoping for something,
something like mercy or change,
a black line that would bind us
or keep us apart.
The way it is, it would seem
the book of our lives is empty.
The furniture in the room is never shifted,
and the rugs become darker each time
our shadows pass over them.
It is almost as if the room were the world.
We sit beside each other on the couch,
reading about the couch.
We say it is ideal.
It is ideal.

2

We are reading the story of our lives
as though we were in it,
as though we had written it.
This comes up again and again.
In one of the chapters
I lean back and push the book aside
because the book says
it is what I am doing.
I lean back and begin to write about the book.
I write that I wish to move beyond the book,
beyond my life into another life.
I put the pen down.
The book says: He put the pen down
and turned and watched her reading
the part about herself falling in love.
The book is more accurate than we can imagine.
I lean back and watch you read
about the man across the street.
They built a house there,
and one day a man walked out of it.
You fell in love with him
because you knew he would never visit you,
would never know you were waiting.
Night after night you would say
that he was like me.
I lean back and watch you grow older without me.
Sunlight falls on your silver hair.
The rugs, the furniture,
seem almost imaginary now.
She continued to read.
She seemed to consider his absence
of no special importance,
as someone on a perfect day will consider
the weather a failure
because it did not change his mind.
You narrow your eyes.
You have the impulse to close the book
which describes my resistance:
how when I lean back I imagine
my life without you, imagine moving
into another life, another book.
It describes your dependence on desire,
how the momentary disclosures
of purpose make you afraid.
The book describes much more than it should.
It wants to divide us.

3

This morning I woke and believed
there was no more to our lives
than the story of our lives.
When you disagreed, I pointed
to the place in the book where you disagreed.
You fell back to sleep and I began to read
those mysterious parts you used to guess at
while they were being written
and lose interest in after they became
part of the story.
In one of them cold dresses of moonlight
are draped over the backs of chairs in a man’s room.
He dreams of a woman whose dresses are lost,
who sits on a stone bench in a garden
and believes in wonders.
For her love is a sacrifice.
The part describes her death
and she is never named,
which is one of the things
you could not stand about her.
A little later we learn
that the dreaming man lives
in the new house across the street.
This morning after you fell back to sleep
I began to turn pages early in the book:
it was like dreaming of childhood,
so much seemed to vanish,
so much seemed to come to life again.
I did not know what to do.
The book said: In those moments it was his book.
A bleak crown rested uneasily on his head.
He was the brief ruler of inner and outer discord,
anxious in his own kingdom.

4

Before you woke
I read another part that described your absence
and told how you sleep to reverse
the progress of your life.
I was touched by my own loneliness as I read,
knowing that what I feel is often the crude
and unsuccessful form of a story
that may never be told.
I read and was moved by a desire to offer myself
to the house of your sleep.
He wanted to see her naked and vulnerable,
to see her in the refuse, the discarded
plots of old dreams, the costumes and masks
of unattainable states.
It was as if he were drawn
irresistibly to failure.
It was hard to keep reading.
I was tired and wanted to give up.
The book seemed aware of this.
It hinted at changing the subject.
I waited for you to wake not knowing
how long I waited,
and it seemed that I was no longer reading.
I heard the wind passing
like a stream of sighs
and I heard the shiver of leaves
in the trees outside the window.
It would be in the book.
Everything would be there.
I looked at your face
and I read the eyes, the nose, the mouth…

5

If only there were a perfect moment in the book;
if only we could live in that moment,
we could begin the book again
as if we had not written it,
as if we were not in it.
But the dark approaches
to any page are too numerous
and the escapes are too narrow.
We read through the day.
Each page turning is like a candle
moving through the mind.
Each moment is like a hopeless cause.
If only we could stop reading.
He never wanted to read another book
and she kept staring into the street.
The cars were still there,
the deep shade of trees covered them.
The shades were drawn in the new house.
Maybe the man who lived there,
the man she loved, was reading
the story of another life.
She imagined a dank, heartless parlor,
a cold fireplace, a man sitting
writing a letter to a woman
who has sacrificed her life for love.
If there were a perfect moment in the book,
it would be the last.
The book never discusses the causes of love.
It claims confusion is a necessary good.
It never explains. It only reveals.

6

The day goes on.
We study what we remember.
We look into the mirror across the room.
We cannot bear to be alone.
The book goes on.
They became silent and did not know how to begin
the dialogue which was necessary.
It was words that created divisions in the first place,
that created loneliness.
They waited.
They would turn the pages, hoping
something would happen.
They would patch up their lives in secret:
each defeat forgiven because it could not be tested,
each pain rewarded because it was unreal.
They did nothing.

7

The book will not survive.
We are the living proof of that.
It is dark outside, in the room it is darker.
I hear your breathing.
You are asking me if I am tired,
if I want to keep reading.
Yes, I am tired.
Yes, I want to keep reading.
I say yes to everything.
You cannot hear me.
They sat beside each other on the couch.
They were the copy, the tired phantoms
of something they had been before.
The attitudes they took were jaded.
They stared into the book
and were horrified by their innocence,
their reluctance to give up.
They sat beside each other on the couch.
They were determined to accept the truth.
Whatever it was they would accept it.
The book would have to be written
and would have to be read.
They are the book and they are
nothing else.

Mark Strand

da “The Story of Our Lives”, Atheneum, 1973 

«Da quanti anni, da sempre» – Leonardo Sinisgalli

Foto di Ferdinando Scianna

 

Da quanti anni, da sempre
Sul finire del giorno
Lungo il muro il tuo passo ritorna
La tua mano mi tocca
Delusa: Leonardo, mi dici a bocca
Chiusa. Il vento leggera ti scioglie.
Io ti sento partire dal mio fianco
Nella brezza delle foglie.
La tua voce è una carezza
Che brucia più l’ora si attarda:
Io non so dove mi conduce.

Leonardo Sinisgalli

da “Il cacciatore indifferente”, (1939-1942), in “Tutte le poesie”, Mondadori, Milano, 2020

Nulla – Vladimír Holan

Jaromír Funke, Composition (Bottle shadows), 1927

 

Nulla onnipresente e a tal segno ordinario
che si potrebbe rivelare in figura,
ma un nulla modesto, un nulla che nega se stesso…
Eppure ciascuno lo teme, nessuno lo vuole,
e così, con nessuno immorente,
è come se sempre crescesse e aumentasse in certezza,
come si accresce il numero delle tue bottiglie vuote in soffitta,
bottiglie che offrivi e di cui nessuno si cura
e che dunque di notte porterai fuori
e in segreto ammucchierai nella via…

Qualcuno là grida: “Sapendo, non saprete!”
E un altro: “Guai ai cani grassi!”

Vladimír Holan

(Traduzione dal ceco di Vlasta Fesslová. Versi italiani di Marco Ceriani)

Dalla raccolta In progresso (Versi degli anni 1943 -1948)

da “Vladimír Holan, Addio?”, Arcipelago Edizioni, 2014

∗∗∗

Nicota

Nicota všudypřítomná a natolik všední,
že by se mohla zjevovat,
ale nicota skromná, sebezapíravá nicota…
A přece se jí každý bojí, nikdo ji nechce,
a tak, nikým neumíraná,
stále jaksi vzrůstá a přibývá jí na určitosti,
jako vzrůstá počet tvých prázdných lahví na půdě,
lahví, které jsi nabízel a o něž nikdo nedbá
a které tedy v noci vyneseš
a siožíš tajné na ulici…

Někdo tam křičí: „Vědouce vědět nebudete!“
A jiný: „Běda tlustým psům!“

Vladimír Holan

da “Na postupu: verše z let 1943-1948”, Československý spisovatel, 1964

Leggenda – Giorgos Seferis

 

Si j’aui du goût, ce guères
que pour la terre et les pierres.
A. Rimbaud
I

Il nunzio
l’aspettammo inchiodati tre anni
mirando assai da presso
i pini il lido e gli astri.
Confusi col fendente dell’aratro o con la chiglia della nave
frugavamo a scoprire il primo seme
perché ricominciasse il dramma antico.

Tornammo alle nostre case spezzati,
deboli membra, bocche devastate
dal gusto della ruggine e del sale.
Ridesti andammo verso Nord, forestieri
inabissati in brume da illibate ali di cigni che ci ferivano.
Ci faceva impazzire le notti d’inverno il gagliardo vento dell’Est
ci smarrivamo l’estate nell’agonia del giorno che non sapeva morire.

Portammo indietro
questi rilievi d’un’arte dimessa.

II

Ancora un pozzo dentro una caverna.
Facile un tempo attingere immagini, ornamenti,
per la gioia dei cari che ancora ci restavano fedeli.

Le corde si son rotte : solo strie sulla bocca del pozzo
sono memoria di felicità:
le dita sulla sponda — come dice il poeta 1.
Avvertono le dita il fresco della pietra un poco
poi la febbre del corpo la pervade.
La caverna si gioca l’anima e la perde ogni momento,
intrisa di silenzio, senza una sola goccia.

III
Rammenta il bagno dove fosti ucciso  2

Mi sono destato con questa testa di marmo fra le mani
che mi sfinisce i gomiti né so dove poggiarla.
Piombava nel sogno a misura che uscivo dal sogno:
così le nostre vite
si sono fuse e districarle è arduo.

Rimiro gli occhi: né aperti né chiusi,
parlo alla bocca ch’è in procinto di parlare
sempre, reggo gli zigomi che bucano la pelle.
Non reggo più.

Le mie mani si perdono, mi tornano
sbocconcellate.

IV
ARGONAUTI

E un’anima
se si vuole conoscere
in un’anima
rimiri 3:
lo straniero, il nemico, lo vedemmo allo specchio.

Erano bravi ragazzi i compagni, non gridavano
né di stanchezza né di sete né di gelo,
erano come gli alberi e le onde
che ricevono vento e pioggia
ricevono notte e sole
senza mutare in mezzo a mutamenti.
Erano bravi ragazzi, interi giorni
sudavano sul remo, gli occhi bassi,
respirando in cadenza
e il sangue imporporava una docile pelle.
Cantarono una volta, gli occhi bassi,
quando doppiammo l’isola scabra dei fichi d’India
a ponente, di là da quel Capo dei cani
uggiolanti.
Se si vuole conoscere — dicevano —
miri in un’anima — dicevano —
e battevano i remi l’oro del mare nel crepuscolo.
Passammo capi molti molte isole il mare
che mette ad altro mare, gabbiani, foche.
Ululati di donne sventurate
piangevano i figli perduti,
altre come frenetiche cercavano Alessandro
Magno, glorie colate a picco in fondo all’Asia.
Attraccammo
a rive colme d’aromi notturni
e gorgheggi d’uccelli, e un’acqua che lasciava nelle mani
la memoria di gran felicità.
Non finivano, i viaggi.
Si fecero le anime loro una cosa sola con remi e scalmi
con la grave figura della prora,
col solco del timone, con l’acqua che frangeva
gli specchiati sembianti.
I compagni finirono, a turno,
con gli occhi bassi. I loro remi additano
il posto dove dormono, sul lido.

Non li ricorda più nessuno. È giusto.

V

Noi non li conoscemmo
                        era speranza in fondo al cuore a dirci
d’averli conosciuti da bambini.
Forse due volte li vedemmo: poi presero il mare:
carichi di carbone, carichi di cereali. E i nostri amici
persi dietro l’oceano per sempre.
L’alba ci trova accanto alla lampada stanca,
che disegniamo sulla carta goffamente, a fatica,
barche, conchiglie, gòrgoni.
A sera discendiamo verso il fiume
perché ci segna la strada del mare,
e passiamo le notti in sotterranei che sanno di catrame.

I nostri amici se ne sono andati
              forse non li vedemmo mai, forse incontrati
li abbiamo quando ancora il sonno
ci portava vicino all’onda che respira,
forse li ricerchiamo perché ricerchiamo
l’altra vita, di là dai simulacri.

VI
M. R.4

Il giardino coi suoi zampilli alla pioggia
tu lo vedrai soltanto dalla finestra bassa
di là dai vetri torbidi. Rischiarirà la stanza
solo la vampa del camino
e talora, nel lampo di folgori lontane, appariranno
le rughe alla tua fronte, vecchio Amico.

Il giardino coi suoi zampilli ch’erano alla tua mano
ritmo dell’altra vita, oltre gl’infranti
marmi, di là dalle colonne tragiche,
danza fra gli oleandri
presso le nuove cave di pietrame, un vetro
appannato l’avrà reciso dai tuoi giorni.
Tu non respirerai: terra e umore di piante
si lanceranno dalla tua memoria a picchiare
su questo vetro, ove picchia,
dal mondo di fuori, la pioggia.

VII
SCIROCCO

A occidente si mescola il mare a una catena di montagne.
Ci soffia da mancina lo scirocco e c’impazza,
questo vento che spoglia della carne le ossa.
Nostra casa fra i pini e le carrube.
Grandi finestre, grandi tavoli per scrivere
le lettere che già da tanti mesi
ti scriviamo e gettiamo
nella separazione per colmarla.

Astro dell’alba, tu chinavi gli occhi
ed erano le nostre ore più dolci
dell’olio alla ferita, più gioconde dell’acqua
fresca al palato, placide più che l’ala del cigno.
Era la nostra vita nel tuo palmo.
Di là dal pane amaro dell’esilio
se ristiamo la notte dinanzi al muro bianco
la tua voce s’accosta, è una speranza
di fuoco. E ancora questo vento affila
sui nostri nervi un rasoio.

Ti scriviamo ciascuno le stesse
cose, ciascuno innanzi all’altro tace
rimirando per sé lo stesso mondo,
la luce e l’ombra sopra le montagne
e te.
Chi mai ci leverà dal cuore tanta pena?
Ieri sera, tempesta; oggi di nuovo
pesa il cielo infoscato. Ora i pensieri
come gli aghi di pino ieri nella tempesta
sulla porta di casa accolti e vani
innalzano un castello che dirupa.

Qui tra questi paesi decimati, su questo
promontorio sguernito allo scirocco
con la catena di montagne innanzi, che ti cela,
chi ci calcolerà l’impegno dell’oblio?
Chi accoglierà la nostra offerta, in questa fine d’autunno.

VIII

Che cercano le nostre anime viaggiando
su ponti d’avariati navigli, pressate
fra donne gialle e bambini che piangono,
senza scordarsi nei pesci volanti
o negli astri che gli alberi additano alla cima?
logorate da dischi di grammofoni
involontariamente avvinte a inani riti
biascicando frantumi di pensiero in lingue straniere.

Che cercano le nostre anime viaggiando
sopra legni marini imputriditi,
da porto a porto?

spostando pietre rotte, respirando
la frescura del pino
di giorno in giorno più difficoltosamente
e nuotando nell’acqua di questo mare qua
o di quel mare là,
senza più tatto, senza
uomini, in una patria che non è più nostra
né vostra.

Lo sapevamo, belle erano l’isole
qua d’attorno, ove andiamo brancicando
un po’ più giù, un po’ più su:
una distanza minima.

IX

Il porto è vecchio. Non posso più aspettare
né l’amico partito per l’isola dei pini
né l’amico partito per l’isola dei platani
né l’amico partito per il largo.
Accarezzo i cannoni arrugginiti, i remi,
perché s’avvivi il corpo e si risolva.
Le vele dei navigli dànno solo l’odore
di salmastro dell’altro fortunale.

S’io volli stare solo, solitudine
cercai, non quest’attesa,
frantumazione d’anima all’orizzonte,
queste linee, e colori, e silenzio.

Le stelle della notte mi riportano all’ansia
d’Odisseo per i morti fra gli asfodeli. E quando
approdammo quaggiù fra gli asfodeli
cercammo la vallata
che vide Adone con la sua ferita.

X

La nostra terra è chiusa, tutta monti,
notte e giorno per tetto cieli bassi.
Non abbiamo né fiumi né pozzi né sorgenti:
poche cisterne vuote, sonanti, venerate.
Suono stagnante e vano, pari al nostro deserto,
al nostro amore, pari ai nostri corpi.
Così strano ci pare d’aver saputo un tempo edificare
case, capanne, stazzi.
E le nozze, le fresche corone, le dita…
enimmi inestricati al nostro cuore.
Come nacquero i figli? come crebbero?

La nostra terra è chiusa. Chiusa
dalle nere Simplègadi. Nei porti, la domenica,
quando scendiamo a prendere un po’ d’aria,
vediamo rischiarirsi nel crepuscolo
legni rotti da viaggi interminati,
corpi che più non sanno come amare.

XI

Il tuo sangue gelava come la luna, a volte,
nella notte insondabile il tuo sangue
spiegava l’ali bianche
sopra le rocce brune, le figure degli alberi e le case
con un barlume della nostra infanzia.

XII
BOTTIGLIA A MARE

Tre rupi, qualche pino bruciato, una cappella.
Più su
il paesaggio ritorna, ricopiato:
tre rupi a forma d’una porta, rugginose,
qualche pino bruciato nero e giallo,
sepolta nella calce una casuccia
quadra. Più su ritorna ancora, ancora
il paesaggio, scalando
all’orizzonte, al cielo che tramonta.

Siamo approdati qua per rimpalmare i remi
rotti, e per bere acqua e dormire.
Il mare che ci fu tanto amaro è profondo, imperscrutato,
dispiega una bonaccia sconfinata.
Qui fra i ciottoli abbiamo trovato una moneta.
Ce la siamo giocata
a dadi. Ha vinto il piccolo. È sparito.

Ci siamo rimbarcati coi nostri remi rotti.

XIII
IDRA

Delfini, vessilli, cannonate.
Il mare, alla tua anima così amaro una volta,
alzava colorati battelli balenanti
in ondoso rullio,
era un’azzurrità con ali bianche.
Alla tua anima così amaro una volta,
ora smagliante di colori al sole.

Candide vele, luce; umidi remi
percotevano a ritmo di tamburo onde pacate.

Belli, se rimirassero, i tuoi occhi,
fulgide, se protese, le tue braccia,
vive come altra volta le tue labbra
sarebbero al prodigio:
tu lo cercavi
                       che cercavi innanzi
alla cenere, fra la pioggia e il vento
e la nebbia? (Calavano già i lumi,
la città sprofondava, e dalle lastre
di pietra il Nazareno ti mostrava il suo cuore).
Che cercavi? perché non vieni? che cercavi?

XIV

Tre colombi scarlatti nella luce
segnano il nostro fato nella luce
con i colori e i gesti di persone
che amammo.

XV
Quid  πλατανῶν opacissimus? 5

Il sonno ti ravvolse, come pianta, di foglie
verdi, alitavi come pianta al calmo lume,
mirai la tua figura nella sorgente diafana:
palpebre chiuse, i cieli una crespa nell’acqua.
Le mie dita trovarono nell’erba tenera le tue dita,
ti tenni il polso, un attimo: altrove
sentii la pena del tuo cuore.

Sotto il platano, presso l’acqua, fra gli allori
ti rimoveva il sonno e ti faceva a brani 
attorno a me, presso di me, né ti potevo attingere
intera,
medesimata con il tuo silenzio:
vedevo la tua ombra farsi grande, farsi piccola,
perdersi fra le altre ombre, nell’altro
mondo che ti lasciava e ti ghermiva.

La vita che ci diedero da vivere vivemmo.
Pietà di quelli che così pazienti aspettano
spersi fra i bruni allori, sotto i platani grevi,
e di quelli che parlano soli alle cisterne e ai pozzi
e annegano nei cerchi della voce.
E pietà del compagno che divise privazioni e sudore,
s’inabissò nel sole, corvo di là dai marmi,
e non sperò la gioia del compenso.

Donaci, fuori del sonno, la pace.

XVI
e il nome è Oreste 6

Alla corda, alla corda, alla corda un’altra volta!
E quanti giri, quante insanguinate orbite, quante nere
file, di gente che mi guarda,
che mi guardava quando sopra il carro
levai splendente il braccio, e acclamò.

La bava dei cavalli mi percuote, i cavalli
quando si stancheranno?
Stride l’asse, s’infuoca l’asse, l’asse
quando s’incendierà?
Quando si spezzeranno le redini, e gli zoccoli
quando, tutti posati, calcheranno la terra
e la tenera erba fra i papaveri, là dove tu hai
colto una margherita a primavera?
Erano belli i tuoi occhi, ma non sapevi
dove guardare, e non sapevo
dove guardare neppure io, senza patria,
io che gareggio qua — per quanti giri? —
e sento le ginocchia flettersi sopra l’asse,
sopra le ruote e la pista selvaggia.
Le ginocchia si flettono docili se vogliono gli dei.
Nessuno scampa: a che serve la forza? tu non puoi
scampare al mare che ti cullò bambino e che ricerchi
in quest’ora di lotta nell’anelito equino,
con quelle canne che cantavano d’autunno in modo lidio,
al mare che non trovi per quanto tu corra
e per quanto tu giri e giri innanzi alle Eumenidi nere,
infastidite senza remissione.

XVII
ASTIANATTE

Ora che te ne andrai prendi con te il bambino
che nacque sotto il platano
un giorno che squillavano trombe, lampeggiavano armi
e i cavalli sudati si chinavano
sul verde specchio del bacile
a lambire con umide froge.

Gli ulivi con le rughe dei padri
le rupi col senno dei padri
il sangue del fratello nostro, vivo nel suolo
erano gioia soda, augusta norma
per cuori consci della loro prece.

Ora che te ne andrai, che spunta il giorno
del saldo, ora che più nessuno sa
chi ucciderà né come finirà,
prendi con te il bambino nato là
sotto le foglie del platano, e insegnagli
a meditare gli alberi.

XVIII

Ho lasciato passare una fiumana
fra le mie dita
senza bere una stilla: m’accoro.
Naufrago nella pietra.
Un pino basso sulla terra rossa,
l’unica compagnia.
Tutto che amai s’è perso con le case
che l’altra estate erano nuove, e sono
dirupate nel vento dell’autunno.

XIX

Anche se spira il vento non ci dà
frescura e resta breve sotto i cipressi l’ombra;
per ogni dove è un’erta alle montagne.

Peso dei cari
che ormai non sanno più come morire.

XX 7

Si riapre nel mio petto la piaga
quando declinano le stelle e s’apparentano
con il mio corpo e cade sotto i passi degli uomini silenzio.

E queste rupi naufraghe nel tempo fino a dove
mi svieranno? E il mare, il mare chi l’asciugherà 8?
Vedo, ogni alba, le mani accennare allo sparviere, al falco,
legata sulla rupe che s’è fatta, per tanta pena, mia,
gli alberi respirare la nera bonaccia dei morti,
e poi sorrisi, immobili, di statue.

XXI

Noi che movemmo a questo
pellegrinaggio, abbiamo rimirato
i simulacri infranti, e persi in un oblio
ci siamo detti che la vita non si perde
sì facilmente e che la morte ha strade imperscrutate
ed una sua giustizia,

e che quando moriamo ritti in piedi,
affratellati nella pietra, uniti
con la rigidità, con l’impotenza,
gli antichi morti hanno forzato il cerchio
e risorti sorridono in una calma strana.

XXII

Sono passate tante e tante cose sotto i nostri occhi,
che gli occhi non han visto nulla; ma più oltre
e dietro, la memoria come uno schermo bianco
una notte in un chiuso
dove scorgemmo strane parvenze, strane più di te,
passare e dileguare nell’immoto fogliame
d’un albero di pepe;

abbiamo conosciuto così bene la sorte
errando fra le pietre rotte — tremila anni o seimila —
frugando in edifìci diroccati che potevano essere
forse la nostra casa
e sforzando la mente a ricordare date e gesta d’eroi:
potremo dunque?

siamo stati legati e sparpagliati,
abbiamo fronteggiato asperità inesistenti — a quanto si diceva —
smarriti, ritrovando una strada intasata
di reggimenti ciechi,
naufraghi in acquitrini e dentro il lago di Maratona:
potremo ora morire normalmente?

XXIII

Ancora un poco
e scorgeremo i mandorli fiorire
brillare i marmi al sole
e fluttuare il mare.

Ancora un poco
solleviamoci ancora un po’ più su.

XXIV

Hanno termine qui le opere del mare e dell’amore.
Quanti un giorno vivranno dove noi terminiamo,
se mai nereggi alla memoria il sangue e trabocchi,
non ci scordino, deboli anime tra gli asfodeli,
volgano verso l’Erebo il capo delle vittime:

e noi che nulla avemmo insegneremo loro
la pace.

Giorgos Seferis

(Traduzione di Filippo Maria Pontani)

dicembre 1933 – dicembre 1934

da “Giorgos Seferis, Poesie”, “Lo Specchio” Mondadori, 1963

1.    Dionisio Solomòs (La donna di Zante, cap. 1): poeta nazionale neogreco, nato a Zante nel 1798, morto a Corfù nel 1857.
2.    Eschilo, Coefore, v. 491.
3.    Platone, Alcibiade I, 133 b-c.
4.    Iniziali di Maurice Ravel. Il giardino è quello di Villa d’Este, ed è evidente l’allusione ai Jeux d’eau del compositore francese.
5.    Plinio il Giovine, Epistole, I, 3.
6.    Sofocle, Elettra, v. 694. In tutta la lirica sono state osservate reminiscenze puntuali di versi sofoclei.
7.    In alcune traduzioni (non però nelle edizioni greche) la poesia reca il titolo Andromeda: la figura mitica sarebbe il simbolo della Grecia.
8.    Reminiscenza, spesso ricorrente in S., delle parole di Clitennestra in Eschilo, Agamennone, v. 958.

La verità non ha bisogno della nostra ignoranza – Piero Bigongiari

Massimo Margagnoni, White Aurora Borealis

 

Quello che tu non sai, anche l’ignora
la via che ti accompagna e ti disvia
nel sole occiduo, e forse anche l’aurora
che si lagna col lieve pigolio
degli implumi nel nido, col deciduo
uggiolio di chi deve sfamarli.

                                                       Io affido
a questa oscura scienza anche le briciole
di quello che non so, forse anche il raggio
che non sa ove posarsi. Nel coraggio
o nella tua viltà? Forse è il mestiere
di una tale evidenza sconosciuta
versare a quando a quando nell’essenza
della vita la sua segreta musica.
Talora anche la musa è generosa
della sua voce ascosa. Cosa canta
al tuo orecchio? È il canto della sposa?
Da quale Oriente viene, in quale Libano
trattiene ancora quelle sue carezze?
Troppo lievi le ebbrezze, o inenarrabili?
Troppo abili sono le stranezze
con cui i sogni si accostano al vero.
Si dice che il pensiero vola. Dove
vola? Dove ignora anche se stesso
nel sogno stesso d’essere parola,
e forse parola dell’accesso?

Il fatto è che in ogni imminenza
della tua vita non puoi fare senza
di quel sottile strazio che t’invita
a non sentirti sazio di te stesso,
ma piuttosto a sperare nell’eccesso
di ogni misura nell’incontenibile.
In ciò che versa, in ciò che non contiene,
le lacrime e le pene si confortano
a vicenda. Tutto è già leggenda.
Devi sperare, se non si trattiene
di te nel canto – e forse nell’oblio,
magari a tua insaputa, si è già espanto –
ciò che tramuta in luce anche il pianto.

Forse con quelle briciole io ne nutro
o almeno ne titillo il desiderio
che il canto ha di quella mia carenza
onde trovarvi un senso pronto al troppo
che è in ogni verità, forse per sciogliervi
il groppo misterioso del suo pianto
mescolato all’incanto di un sorriso
che non so a chi appartiene.

Piero Bigongiari

14-16 aprile 1997

da “Il silenzio del poema: poesie 1996-1997”, Genova, Marietti, 2003