Sheherazade – John Ashbery

Foto di Roberto Nespola

 

Non sorretta dall’enigma della ragione
l’acqua si raccoglie in bacini quadrati di pietra.
La terra è arida. Sotto si muove
l’acqua. Pesci abitano i pozzi. Le foglie,
d’un verde in apprensione, sono sgorbiate sulla luce. Il cattivo
convolvolo e l’ambrosia infestante chissà come si scordano di prosperare qui.
Un guardaroba inesauribile è stato messo a disposizione
di ogni nuova evenienza. Può essere se stesso adesso.
Il giorno è quasi riluttante a declinare
e rallentando schiude nuovi viali
che non usurpano lo spazio ma abitano qui con noi.
Altri sogni andavano e venivano mentre il banco nuvoloso
di verbi e aggettivi multicolori si ritraeva dalla luce
per allevare nell’ombra la loro mancanza di metodo
ma sopra a tutto lei prediligeva le particelle
che trasformavano oggetti della stessa categoria
in cose individuali, ciascuna distinta
da, ed entro, la propria classe.
In tutto questo germogliare non c’era indizio
di marea, solo un piacevole ondeggiare dell’aria
in cui tutte le cose parevano presenti, fossero
appena trascorse o prossime a venire. Tutto era invito.

Così tanto i fiori si stagliavano lungo i vicoli
della notte quando pochi erano visibili, eppure
il loro racconto era più rumoroso del ronzio
d’insetto e battere di bastone che facevano procedere la retroguardia,
trainandolo in un nuovo fatto del giorno.
Dovevano esser letti come un qualsiasi
discorso introduttivo prima di passare ai fatti,
ma loro restarono sulle barricate, e tanta
fu la loro ostinazione nell’integrarsi al resto
(come lunghi lampi di uccelli bianchi che rifiutano di morire
al morir del giorno) che nessuno conosceva l’ordito
che presentava questo movimento maggiore come una risoluta
digressione, una pianura che piano piano diventa monte.
Così ciascuno si trovò preso in una rete
come una moda, e ogni sforzo per districarsene
lo avviluppava di più, inesorabilmente, visto che tutto
là esisteva per essere raccontato, sparato
da confine a confine. Qui c’erano pietre
che si leggevano come chiazze di sole, c’era il racconto
dei nonni, del giovane campione vigoroso
(le battute un tempo assegnate a un altro, adesso
restituite al nuovo oratore), cene e riunioni,
la luce nella vecchia casa, il modo segreto
delle stanze di sfociare l’una nell’altra, ma tutto
era circospezione del tempo che contemplava se stesso
poiché nulla nell’intricato racconto si espandeva di fuori:
la grandiosità nell’istante del narrare restava irrisolta
finché la sua sovrabbondanza di eventi, dolore commisto a piacere,
non sbiadì nell’attimo esatto dell’esplodere
in fioritura, la sua crescita statico lamento.

Alcuni racconti sopravvissero alla dinastia dei costruttori
ma perfino la loro eco fu messa sotto chiave, divenne
un pregustare che dopotutto era mero ricordo,
perché le possibilità sono limitate. Si vede
alla fine che i buoni e i bravi sono ricompensati,
che l’ingiusto è dannato a bruciare in eterno
attorno al proprio errore, a ogni modo più triste e più saggio.
Tra questi estremi gli altri si arrabattano
come noi, insicuri ma indossando candidamente
la loro funzione di personaggi secondari che si deve
tenere a mente. Siamo noi a creare questa
giungla e a chiamarla spazio, dando nome a ogni radice,
ogni serpente, per come suona il nome
quando tinnisce ottuso contro il nostro piacere,
indifferenza che è piacere. E cosa sarebbero loro
senza un pubblico a restringere gli innumerevoli
tentativi e batoste, il cui buonumore è ripristinato mentre esce
nell’impervia aria vespertina? Così in qualche modo
anche se il calcolo non torna
l’equilibrio è ripristinato perché
è in equilibrio, sapendo di prevalere,
e l’uomo che ha commesso due volte lo stesso errore viene prosciolto.

John Ashbery

(Traduzione di Damiano Abeni)

da “Autoritratto entro uno specchio convesso”, Bompiani, 2019

∗∗∗

Scheherade

Unsupported by reason’s enigma
Water collects in squared stone catch basins.
The land is dry. Under it moves
The water. Fish live in the wells. The leaves,
A concerned green, are scrawled on the light. Bad
Bindweed and rank ragweed somehow forget to flourish here.
An inexhaustible wardrobe has been placed at the disposal
Of each new occurrence. It can be itself now.
Day is almost reluctant to decline
And slowing down opens out new avenues
That don’t infringe on space but are living here with us.
Other dreams came and left while the bank
Of colored verbs and adjectives was shrinking from the light
To nurse in shade their want of a method
But most of all she loved the particles
That transform objects of the same category
Into particular ones, each distinct
Within and apart from its own class.
In all this springing up was no hint
Of a tide, only a pleasant wavering of the air
In which all things seemed present, whether
Just past or soon to come. It was all invitation.
So much the flowers outlined along the night
Alleys when few were visible, yet
Their story sounded louder than the hum
Of bug and stick noises that brought up the rear,
Trundling it along into a new fact of day.
These were meant to be read as any
Salutation before getting down to business,
But they stuck to their guns, and so much
Was their obstinacy in keeping with the rest
(Like long flashes of white birds that refuse to die
When day does) that none knew the warp
Which presented this major movement as a firm
Digression, a plain that slowly becomes a mountain.

So each found himself caught in a net
As a fashion, and all efforts to wriggle free
Involved him further, inexorably, since all
Existed there to be told, shot through
From border to border. Here were stones
That read as patches of sunlight, there was the story
Of the grandparents, of the vigorous young champion
(The lines once given to another, now
Restored to the new speaker), dinners and assemblies,
The light in the old home, the secret way
The rooms fed into each other, but all
Was wariness of time watching itself
For nothing in the complex story grew outside:
The greatness in the moment of telling stayed unresolved
Until its wealth of incident, pain mixed with pleasure,
Faded in the precise moment of bursting
Into bloom, its growth a static lament.

Some stories survived the dynasty of the builders
But their echo was itself locked in, became
Anticipation that was only memory after all,
For the possibilities are limited. It is seen
At the end that the kind and good are rewarded,
That the unjust one is doomed to burn forever
Around his error, sadder and wiser anyway.
Between these extremes the others muddle through
Like us, uncertain but wearing artlessly
Their function of minor characters who must
Be kept in mind. It is we who make this
Jungle and call it space, naming each root,
Each serpent, for the sound of the name
As it clinks dully against our pleasure,
Indifference that is pleasure. And what would they be
Without an audience to restrict the innumerable
Passes and swipes, restored to good humor as it issues
Into the impervious evening air? So in some way
Although the arithmetic is incorrect
The balance is restored because it
Balances, knowing it prevails,
And the man who made the same mistake twice is exonerated.

John Ashbery

da “Self-Portrait in a Convex Mirror”, Penguin Publishing Group, 1972

Come foglia e albero – Moka

Foto di Moka

 

Non mi sono fermata per il timore
di perdere per strada quei pezzi
che, dentro me, s’erano rotti.
Come foglia d’autunno intrepida,
mi sono lanciata alla ricerca
dello sconosciuto che mi abita.
A tratti
sento l’aria umida
a tratti il nulla,
senza il calore e la linfa del mio albero.
Ma io sono quell’albero e
la mia corteccia è scavata già,
segnata dalle sconfitte e dalle rinascite.

Moka

22 novembre 2015

da “Difettosa”, silloge poetica – fotografica, Editore: Youcanprint, 2017

Moka, Difettosa, Editore: Youcanprint , 2017

«Se soltanto sapessi» – Nelly Sachs

Foto di Anja Bührer

 

Se soltanto sapessi
cosa hai guardato sul punto di morire:
un sasso, che aveva già bevuto
molti sguardi estremi, un cieco sasso
meta di altri sguardi ciechi?

Oppure terra, sufficiente
a riempire una scarpa
e già annerita
da tanto addio
e tanta volontà omicida?

O era forse il tuo ultimo cammino
che ti portava il saluto di tutti i cammini
da te percorsi?

Una pozza d’acqua, un pezzo di metallo luccicante,
forse la fibbia addosso al tuo nemico,
o un altro presagio impercettibile
del cielo?

O forse questa terra
che non congeda nessuno senza amore
ti ha parlato col volo di un uccello
ricordando alla tua anima di quando palpitava
nel corpo riarso dai tormenti?

Nelly Sachs

(Traduzione di Ida Porena)

da “Nelle dimore della morte”, in “Al di là della polvere”, Einaudi, Torino, 1966

∗∗∗

«Wenn ich nur wüßte»

Wenn ich nur wüßte,
Worauf dein letzter Blick ruhte.
War es ein Stein, der schon viele letzte Blicke
Getrunken hatte, bis sie in Blindheit
Auf den Blinden fielen?

Oder war es Erde,
Genug, um einen Schuh zu füllen,
Und schon schwarz geworden
Von soviel Abschied
Und von soviel Tod bereiten?

Oder war es dein letzter Weg,
Der dir das Lebewohl von allen Wegen brachte
Die du gegangen warst?

Eine Wasserlache, ein Stück spiegelndes Metall,
Vielleicht die Gürtelschnalle deines Feindes,
Oder irgend ein anderer, kleiner Wahrsager
Des Himmels?

Oder sandte dir diese Erde,
Die keinen ungeliebt von hinnen gehen läßt
Ein Vogelzeichen durch die Luft,
Erinnernd deine Seele, daß sie zuckte
In ihrem qualverbrannten Leib?

Nelly Sachs

da “In den Wohnungen des Todes”, Berlin, Aufbau-Verlag, 1947

Addio a Nausicaa – Piero Bigongiari

Édouard Boubat, Lella sur la plage, France

 

Credo di averti visto nella perdita
con un accento, penso, inobliabile.
(Ma si perde qualcosa nell’oblio
o si acquista qualcosa d’impensato
forse più che nel suo vano ricordo?).
Il fuoco che dilunga le tue rive
più e più si allontana entro di noi?
Chi scrive o pensa o solo anche ricorda,
come una corda d’arco che si tende
mette in contatto i propri estremi. Io credo,
proprio per non lasciarti, di averti
lasciata al tuo saluto più incerto,
più lontano d’ogni distanza, ed eri
a un passo da me, dal mio passo.
Sul chi vive è ormai solo il pensiero
che erto altro non scorge entro di sé
di più diviso di quanto più è prossimo,
anzi quasi lo stesso: è la lama
nella ferita, l’occhio nella brama,
che tiene unito quanto si allontana,
labbra già sanguinanti del silenzio
che s’infebbra e le screpola. È l’addio.

Scruta il mare il nocchiero e non sa
se temere che l’orizzonte porga
altri approdi, o se desiderarli.
Vidi in città nebbiose ardere un raggio
di sole.  Era il tuo sguardo? O forse era
quanto già visto che nell’invisibile
penetrava per me. Che devo dirti,
amata, che l’amore è sempre a mezzo
e sempre estremo? Il remo che ora sciacqua,
nell’acqua glauca della mente esplora
con più forza l’aurora in cui si scioglie
a poco a poco il calore del sole.

Mi volto, posso ormai voltarmi in giro,
ma altro non ammiro che il silenzio
in cui, appena sorge, la parola
abbandona il purpureo rumore
in cui cerca il tuo nome. Ormai lo ignoro,
ove non sia, fluttuante, l’ugola
del mare a suggerlo in un singhiozzo.
Io so tutto di te, o almeno credo,
perché più nulla so di te, né mai
ho saputo oltre il tuo sorriso, il lieve
arcuarsi delle labbra: la parola
era inutile, quella sola ch’io
attendevo da te, altro non era
che il chiudersi della viola quando il sole,
questo che vedo qui sulle onde spremere
i suoi ultimi raggi, allontanava
dalla felicità il proprio gemito.

Ritornerai nelle tue stanze, avrai
quel sorriso da donare a qualcuno.
Ma io sarò dietro le tue porte uno
che non vi è, il sospiro del vento.
Premerai con dolcezza più ostinata
quelle ante prima di spalancarle.
Il biancospino lì lieve si arrampica
dal più alto gradino su se stesso
e si ritorce: breve è lo spazio
in cui si espande e fiorisce; è anche dire
che solo nel più espanso si nasconde
più a fondo intrattenibile ogni impulso.
Terribile è il mistero dell’oblio,
ma trepido come la felce dietro cui
ti vidi la prima volta apparire.

Piero Bigongiari

3 maggio – 27 novembre ’90

da “La legge e la leggenda” (1986 – 1991), “Saggi e testi” Mondadori, 1992

Voglio descrivere il tuo corpo… – Ghiannis Ritsos

Josef Sudek, Nude Study, 1951

 

Parola carnale 11

Voglio descrivere il tuo corpo. Il tuo corpo è infinito. Il tuo corpo
è un tenue petalo di rosa in un bicchiere d’acqua chiara. Il tuo corpo
un bosco selvaggio con quaranta spaccalegna neri. Il tuo corpo
profonde umide valli prima che sorga il sole. Il tuo corpo
due notti con campanili, stelle filanti e treni deragliati. Il tuo corpo
un bar fioco con marinai ubriachi e mercenari di tabacchi: schiocchi di dita,
bicchieri rotti, bestemmie, sputi. Il tuo corpo
una flotta intera — sommergibili, corazzate, cannoniere; frastuono
d’ancore che salpano; l’acqua scorre sul ponte; un mozzo
si tuffa in mare dall’albero. Il tuo corpo
silenzio di molte voci lacerato da cinque coltelli, tre baionette e una spada. Il tuo corpo
una lago trasparente, — sul fondo si vede la bianca città sommersa. Il tuo corpo
un’enorme, indomita piovra dentro la boccia della luna, coi tentacoli rossi di sangue
sui viali illuminati dove nel pomeriggio
passò lento il corteo funebre dell’ultimo imperatore. Molti fiori calpestati
restano sull’asfalto bagnati di benzina. Il tuo corpo
un antico bordello in via del Borgo, le puttane vecchie e truccate
con grassi rossetti da due soldi; portano lunghe ciglia finte;
ce n’è anche una giovane alle prime armi, — prova piacere coi clienti,
lascia i soldi sul comodino, si scorda di contarli. Il tuo corpo
è una ragazzina rosa; se ne sta sotto il melo e mangia
una fetta di pane fresco e un pomodoro rosso salato; ogni tanto
s’infila un fiore di melo tra i seni. Il tuo corpo
una cicala nell’orecchio del vendemmiatore, — getta un’ombra viola sul suo collo bruno
e canta da sola quante non ne può dire tutta l’uva insieme. Il tuo corpo
una grande aia panoramica in cima alla collina —
undici cavalli bianchi vi trebbiano il grano della Scrittura; le paglie d’oro
ti appuntano piccoli specchi tra i capelli, e splendono i tre fiumi
dove chinano il capo grandi vacche nere con stemmi adamantini
a bere l’acqua e piangere. Il tuo corpo è infinito.
Indescrivibile il tuo corpo. E lo voglio descrivere,
stringerlo più forte il tuo corpo, contenerlo,  e che mi contenga.

Ghiannis Ritsos

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Parola carnale”, 1981