La ottava Elegia – Rainer Maria Rilke

Ed Van Der Elsken, Tokio, 1981

 

   È l’animale, tutto, nello sguardo
vólto all’Aperto:
fuori del tempo, nello spazio immenso.
Ma gli occhi abbiamo, noi, come riversi:
e tesi, al par di reti, a imprigionare
il suo libero passo.
Lo spazio immenso, che trascende il tempo,
solo riflesso dal suo vólto intento,
si svela a noi.
Poi che il fanciullo tenero volgiamo
súbito indietro; e lo forziamo già
a rimirare il mondo delle forme;
ma non l’Aperto, che profondo spazia
in ogni vólto d’animale ignaro:
e non lo sfiora il senso della morte.
Noi non abbiamo, ahimè, dinanzi agli occhi
se non la morte.
L’animale ha la morte dietro sé:
e a sé davanti, Dio.
Quando cammina, nell’Eterno incede.
Come incedono i fiumi.
Noi non abbiamo innanzi, un giorno solo,
il puro spazio in cui sbocciano i fiori
inesauribilmente.
Tutto, d’intorno, ai nostri sguardi, è Mondo.
Non mai, lo spazio sterminato etèreo,
incustodito e intatto,
che si respira; e che, infinitamente
intuito, si sa, — senza bramarlo.
Da bimbi, ci si sperde in quello spazio,
scossa in silenzio l’anima beata.
O vi si entra, quando agonizziamo,
e si diventa spazio a poco a poco.
Ché non è dato ravvisar la morte,
come ci giunge accanto:
sbarriamo gli occhi fuori di noi stessi,
con uno sguardo d’animale, — immenso.
Gli Amanti, — ove non fossero, tra loro,
schermo e muraglia — all’insueto Aperto,
stupefatti, sarebbero vicini.
Capzioso, si schiude dietro ognuno.
Ma, l’altro, non vi evade. E novamente,
intorno a entrambi, si richiude il mondo.
Al creato rivolti senza posa,
nel creato vediamo rispecchiarsi
l’etèreo spazio: ma nel suo riverbero,
che si appanna di noi.
Leva talvolta un animale, muto,
il suo sguardo tranquillo.
E ci percorre dentro, in ogni fibra.
Essere a fronte, eternamente a fronte
di un concretato mondo: ecco il Destino.
Se una coscienza fosse, — una coscienza
come la nostra — nel sicuro e calmo
animale che viene ad incontrarci,
oh noi saremmo trascinati dentro
quel suo vagare!… Ma, per lui, l’esistere
è senza fine. Spento; e inconcepibile
dalla luce degli occhi. Immacolato,
come il suo sguardo. E dove noi scorgiamo
il futuro e non altro, egli ravvisa
il Tutto immenso; e se stesso — in quel Tutto —
salvo e redento per l’eternità.
Ma vive tuttavia, nell’animale
vigile e caldo,
il peso, in ansia, d’una grande angoscia.
Ché mai non lo abbandona la memoria
d’essere stato piú vicino, un tempo,
al mondo ch’egli anela di raggiungere:
a quello avvinto in fedeltà piú stretta,
con nodi di dolcezza senza fine.
Tutto è distanza qui, ciò che respiro
era colà. Dopo quel primoasilo,
gli appare infido questo: e tempestato
da vènti avversi.
Felicità divina dell’ insetto,
che rimane, per sempre, dentro il grembo,
onde nasceva: nello spazio immenso.
O díttero, che dentro vi saltelli,
pur quando giunge il tempo delle nozze!
Il grembo è tutto. E malsicuri avventano
gli uccelli il volo, — poiché, già nascendo,
sanno le sorti entrambe,
quasi fossero anime di Etruschi
vaporate entro l’urna dello spazio
con la figura in sonno sul coperchio.

   Oh la tremenda angoscia dell’alato,
costretto al volo, anche se proviene
dall’angustia di un grembo!
Il suo terrore di se stesso solca
sinistramente l’ètere, guizzando:
e par l’incrinatura,
che fende la purezza d’una coppa.
Non il volo, cosí, del pipistrello
strappa la porcellana della sera?

Spettatori in eterno e in ogni dove,
rivòlti verso il Tutto, e incatenati
entro le sue prigioni,
l’universo ci colma: e in noi trabocca.
Lo rassettiamo. E ci si sfascia in pezzi.
Lo si raggiusta. E l’universo frana.
… E noi franiamo insieme.
Chi mai ci deformò, chi ci stravolse
cosí, che sempre ripetiamo il gesto
di prendere congedo?
Come quei che sull’ultima collina,
onde si schiude il prodigioso incanto
della valle beata,
sosta e si volge indietro a riguardare
cosí viviamo noi la nostra vita
in una serie di commiati, eterna.

Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Elegie di Duino (1922)”, in “Rainer Maria Rilke, Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941

∗∗∗

Die achte Elegie

Rudolf Kassner zugeeignet

Mit allen Augen sieht die Kreatur
das Offene. Nur unsre Augen sind
wie umgekehrt und ganz um sie gestellt
als Fallen, rings um ihren freien Ausgang.
Was draußen ist, wir wissens aus des Tiers
Antlitz allein; denn schon das frühe Kind
wenden wir um und zwingens, daß es rückwärts
Gestaltung sehe, nicht das Offne, das
im Tiergesicht so tief ist. Frei von Tod.
Ihn sehen wir allein; das freie Tier
hat seinen Untergang stets hinter sich
und vor sich Gott, und wenn es geht, so gehts
in Ewigkeit, so wie die Brunnen gehen.
   Wir haben nie, nicht einen einzigen Tag,
den reinen Raum vor uns, in den die Blumen
unendlich aufgehn. Immer ist es Welt
und niemals Nirgends ohne Nicht: das Reine,
Unüberwachte, das man atmet und
unendlich weiß und nicht begehrt. Als Kind
verliert sich eins im Stilln an dies und wird
gerüttelt. Oder jener stirbt und ists.
Denn nah am Tod sieht man den Tod nicht mehr
und starrt hinaus, vielleicht mit großem Tierblick.
Liebende, wäre nicht der andre, der
die Sicht verstellt, sind nah daran und staunen…
Wie aus Versehn ist ihnen aufgetan
hinter dem andern… Aber über ihn
kommt keiner fort, und wieder wird ihm Welt.
Der Schöpfung immer zugewendet, sehn
wir nur auf ihr die Spiegelung des Frein,
von uns verdunkelt. Oder daß ein Tier,
ein stummes, aufschaut, ruhig durch uns durch.
Dieses heißt Schicksal: gegenüber sein
und nichts als das und immer gegenüber.

Wäre Bewußtheit unsrer Art in dem
sicheren Tier, das uns entgegenzieht
in anderer Richtung –, riß es uns herum
mit seinem Wandel. Doch sein Sein ist ihm
unendlich, ungefaßt und ohne Blick
auf seinen Zustand, rein, so wie sein Ausblick.

Und wo wir Zukunft sehn, dort sieht es Alles
und sich in Allem und geheilt für immer.
Und doch ist in dem wachsam warmen Tier
Gewicht und Sorge einer großen Schwermut.
Denn ihm auch haftet immer an, was uns
oft überwältigt, – die Erinnerung,
als sei schon einmal das, wonach man drängt,
näher gewesen, treuer und sein Anschluß
unendlich zärtlich. Hier ist alles Abstand,
und dort wars Atem. Nach der ersten Heimat
ist ihm die zweite zwitterig und windig.
   O Seligkeit der kleinen Kreatur,
die immer bleibt im Schooße, der sie austrug;
o Glück der Mücke, die noch innen hüpft,
selbst wenn sie Hochzeit hat: denn Schooß ist Alles.
Und sieh die halbe Sicherheit des Vogels,
der beinah beides weiß aus seinem Ursprung,
als wär er eine Seele der Etrusker,
aus einem Toten, den ein Raum empfing,
doch mit der ruhenden Figur als Deckel.
Und wie bestürzt ist eins, das fliegen muß
und stammt aus einem Schooß. Wie vor sich selbst
erschreckt, durchzuckts die Luft, wie wenn ein Sprung
durch eine Tasse geht. So reißt die Spur
der Fledermaus durchs Porzellan des Abends.

Und wir: Zuschauer, immer, überall,
dem allen zugewandt und nie hinaus!
Uns überfüllts. Wir ordnens. Es zerfällt.
Wir ordnens wieder und zerfallen selbst.

Wer hat uns also umgedreht, daß wir,
was wir auch tun, in jener Haltung sind
von einem, welcher fortgeht? Wie er auf
dem letzten Hügel, der ihm ganz sein Tal
noch einmal zeigt, sich wendet, anhält, weilt –,
so leben wir und nehmen immer Abschied.

Rainer Maria Rilke

da “Duineser Elegien”, Insel-Verlag, Leipzig, 1923

Canto di uscita – Rainer Maria Rilke

Leonid Pasternak, Rainer Maria Rilke

     

     Placido Amico delle lontananze!
Senti come lo spazio, al tuo respiro,
cresce! Tra i ceppi bui delle campane,
divieni squilla! Ciò che in te si strugge,

     si fa vigore in te, poi che ti nutre.
Sii la risacca del Mutar perenne!
Qual sofferenza, non provasti ancóra?
Se amaro il vino è a te, diventa vino!

     In questa notte, ove trabocchi, sii
magica forza, al crocevia dei sensi:
simbolo, in cui si esprima il loro incontro.

     E se il mondo, di te, si è fatto cieco,
grida alla terra, che sta ferma: Io scorro;
rigrida all’acqua, che fluisce: Io sto.

Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “I sonetti a Orfeo” (1922), in “Rainer Maria Rilke, Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941

∗∗∗

II, 29

Stiller Freund der vielen Fernen, fühle,
wie dein Atem noch den Raum vermehrt.
Im Gebälk der finsteren Glockenstühle
laß dich läuten. Das, was an dir zehrt,

wird ein Starkes über dieser Nahrung.
Geh in der Verwandlung aus und ein.
Was ist deine leidendste Erfahrung?
Ist dir Trinken bitter, werde Wein.

Sei in dieser Nacht aus Übermaß
Zauberkraft am Kreuzweg Deiner Sinne,
ihrer seltsamen Begegnung Sinn.

Und wenn dich das Irdische vergaß,
zu der stillen Erde sag: Ich rinne.
Zu dem raschen Wasser sprich: Ich bin.

Rainer Maria Rilke

da “Die Sonette an Orpheus”, Insel-Verlag, Lipsia, 1923

Le querce – Friedrich Hölderlin

Asher B. Durand, Landscape (Birch and Oaks), Brooklyn Museum

2.

      Io vengo dai giardini in mezzo a voi,
figlie della montagna! Dai giardini,
ove Natura paziente vive
una vita domestica, raccolta
in fra gli uomini industri; e ne ricambia
con sollecite cure, ella, le cure.
Ma voi, divine, voi, qui soggiornate
in piú placido mondo: e sembra un popolo
di rubesti Titani, il vostro aspetto.
Vostre, voi siete. E della Terra madre,
che vi espresse da sé: dell’almo Cielo,
che vi nutrí perché cresceste in lui.

     Niuna di voi si sottomise ancóra
alla saccente volontà dell’uomo.
Vi sollevate libere e gioconde
da potenti radici, ecco, nell’aria
a ghermire, com’aquila la preda,
con forti braccia il prodigioso spazio.
E di contro alle nubi, ampia raggiante,
dritta vi s’erge l’assolata chioma.
Ed è, ciascuna, un mondo. E come gli astri,
vivete voi. Ciascuno, un Dio: che esiste
libero-avvinto all’altre stelle tutte.

     Se piegarmi potessi a viver schiavo,
querce silvestri, io non saprei l’invidia,
che mi prende di voi. Mi adatterei
fra gli uomini, contento… Oh, se d’un tratto
non mi avvincesse piú questo mio cuore,
che d’amar non si sazia, agli altri umani,
come felice abiterei per sempre,
figlie della montagna, in mezzo a voi!

Friedrich Hölderlin

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Liriche della natura”, in “La lirica di Hoelderlin”, Vol. I, Riduzione in versi italiani e Saggio biografico critico a cura di Vincenzo Errante, Sansoni, 1943

∗∗∗

Die Eichbäume

Aus den Gärten komm’ ich zu euch, ihr Söhne des Berges!
Aus den Gärten, da lebt die Natur geduldig und häuslich,
Pflegend und wieder gepflegt mit dem fleißigen Menschen zusammen.
Aber ihr, ihr Herrlichen! steht, wie ein Volk von Titanen
In der zahmeren Welt und gehört nur euch und dem Himmel,
Der euch nährt’ und erzog, und der Erde, die euch geboren.
Keiner von euch ist noch in die Schule der Menschen gegangen,
Und ihr drängt euch fröhlich und frei, aus der kräftigen Wurzel,
Unter einander herauf und ergreift, wie der Adler die Beute,
Mit gewaltigem Arme den Raum, und gegen die Wolken
Ist euch heiter und groß die sonnige Krone gerichtet.
Eine Welt ist jeder von euch, wie die Sterne des Himmels
Lebt ihr, jeder ein Gott, in freiem Bunde zusammen.
Könnt ich die Knechtschaft nur erdulden, ich neidete nimmer
Diesen Wald und schmiegte mich gern ans gesellige Leben.
Fesselte nur nicht mehr ans gesellige Leben das Herz mich,
Das von Liebe nicht läßt, wie gern würd ich unter euch wohnen!

Friedrich Hölderlin

da “Gedichte”, Stuttgart, J.G. Cotta, 1847

Il quarto Inno alla notte – Novalis

Caspar David Friedrich, Kreuz im Gebirge, 1823

 

Ora io so quando si leverà l’ultimo giorno; quando la Luce
non fugherà più, spauriti, la Notte e l’Amore; quando sarà
eterno il Sonno e senza fine il Sogno. Avverto, in me, una
stanchezza celeste. Lungo e spossante mi fu il pellegrinaggio a
questa sacra tomba. Estenuante, su le spalle, la croce. Chi ha
gustato l’onda cristallina che, impercettibile ai sensi comuni,
sgorga dal grembo oscuro del monte, a’ cui piedi si rompe la
risacca terrena; chi stette lassú su quelle cuspidi, agli estremi
confini della Vita, e spinse di là gli sguardi verso la Terra
Promessa, verso i soggiorni della Notte, non tornerà piú invero
al travagliato mondo: alle contrade dove abita la Luce, irrequie-
tudine perenne. Costruisce là in cima, le sue capanne: asili 
di pace. Brama, ed ama. Scruta di là, lontano. Fin che la piú
perfetta delle ore non lo trae giú, alle scaturigini del fonte.
Ogni cosa terrestre vi sornuota, respinta dagli uragani. Ma ciò
che santo si fece per virtú d’amore, scorre disciolto per oscuri
tramiti all’opposto versante: e qui si mesce, aereo, con gli
altri amori addormentati.

 

Gioiosa Luce! E tu mi dèsti , ancóra,
stanco, al lavoro.
Un’ebbrezza di vivere m’infondi;
ma non riesci ad allettarmi via
dal simulacro della Ricordanza,
rivestito di musco.

Ben io vorrò muover le mani industri;
cercar, d’intorno, dove
l’opera mia ti giovi;
glorificar la tua magnificenza;
assiduo perseguir l’alta armonia
di che la tua sublime arte s’informa;
la corsa rimirar, ricca di sensi,
delle sfere sul fulgido quadrante
che ti misura, imperioso, il tempo;
l’equilibrio scrutar delle tue forze;
e le leggi indagare, a cui rispondi
nel prodigioso giuoco
degli infiniti spazii
e dell’età infinite.

Ma il mio segreto cuore
resta fedele alla Notte divina
ed al nato da Lei fattivo Amore.
Puoi, tu, mostrarmi un’anima
che resti salda in fedeltà perenne?
Possiede il sole tuo sguardi amorosi
che mi ravvisino?
La mano mia giunge bramosa a stringere
le tue splendenti stelle?
Mi rendon, esse, la carezza blanda
ed un tenero eloquio,
ond’io le vo rivezzeggiando?
Sei tu, che ornasti di tinte soavi
l’immensità notturna,
e che chiudevi le sue forme vaghe
in fluidi contorni;
o non piuttosto conferí la Notte
piú profonda incantevole piacenza
alle tue grazie?
Qual voluttà, qual mai delizia offerte
son dalla vita tua che ribilancino
l’ebbrezza della Notte?
Maternamente al seno Ella ti stringe,
e devi il tuo splendore a Lei soltanto.
Vaniresti in te stessa, dileguando
nell’infinito spazio,
s’Ella non ti reggesse al petto avvinta,
s’Ella non ti scaldasse
a generar con la tua fiamma il mondo.

Io ero, in verità,  —  prima che fossi.
La madre Notte mi mandò, co’ miei
simili tanti, ad abitar la terra
per adornarla con la ricca mèsse
di non mai vizzi fiori;
per farla santa col divino Amore
e che si ergesse in simulacro, ignudo
agli ammiranti sguardi…

Maturi ancor non sono
questi celesti pensamenti. Ancóra,
questa svelata Verità non conta
che scarse tracce.
Ma un giorno il tuo quadrante segnerà
l’ora postrema al Tempo.
Fatta mortale come noi mortali,
allor ti andrai spegnendo
colma di ardenti insodisfatti aneliti,
per esalare l’ultimo respiro.

Avverto in me la fine
dell’operosa tua fatica lunga,
il beato ritorno a una celeste
libertà primigenia.
Con irruente sofferenza, sento
l’esilio tuo dalla patria terrena,
l’impeto tuo ribelle all’almo antico
maraviglioso Cielo.

Ma il tuo furore tempestoso, è vano.
Ché inconsutile sta, alta, la Croce:
il trionfal vesillo
della progenie umana.

Travarco i confini del Giorno:
ed ogni tormento, ogni pena,
assilli colà diverranno
d’ebbrezze infinite.

Attendi: ché infrante, tra poco,
saran le diurne catene;
ed ebbro cadrò, per posarvi,
in grembo all’Amore.

Un mare infinito di vita
mi ondeggia irruente nel cuore.
Riguardo dall’alto già vinta
la Luce del mondo.

Laggiú, sovra il tragico Gòlgota,
si spegne il suo vivo fulgore.
La Notte, ne nasce. Ed effonde
frescure soavi.

Sollevami, Amato, con foga
possente al tuo cuore celeste,
cosí chi’io mi addorma in un sonno
capace d’amore.

La Morte, da’ flutti suoi neri,
mi genera a vita novella:
avverto mutarsi il mio sangue
in balsamo etèreo.

Io vivo nel corso dei giorni
ricolmo d’intrepida fede;
e muoio le notti, in un rogo
di ardore divino.

Novalis

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Inni alla notte”, riduzione in versi italiani e introduzione di Vincenzo Errante, Gruppo Editoriale Domus, Milano, 1942

Esemplare N.759

∗∗∗

Die vierte Hymne an die Nacht

Nun weiss ich, wenn der letzte Morgen sein wird — wenn das
Licht nicht mehr die Nacht und die Liebe scheucht — wenn
der Schlummer ewig und nur ein unerschöpflicher Traum sein
wird. Himmlische Müdigkeit fühl ich in mir. — Weit und
ermüdend ward mir die Wallfahrt zum heiligen Grabe, drückend
das Kreuz. Die kristallene Woge, die, gemeinen Sinnen unvernehm-
lich, in des Hügels dunklen Schoss quillt, an dessen Fuss die
irdische Flut bricht, wer sie gekostet, wer oben stand auf dem
Grenzgebürge der Welt, und hinübersah in das neue Land, in
der Nacht Wohnsitz, — wahrlich, der kehrt nicht in das Treiben
der Welt zurück, in das Land, wo das Licht in ewiger Unruh
hauset.
Oben baut er sich Hütten, Hütten des Friedens, sehnt sich
und liebt, schaut hinüber, bis die willkommenste aller Stunden
hinunter ihn in den Brunnen der Quelle zieht — das Irdische
schwimmt obenauf, wird von Stürmen zurückgeführt, aber was
heilig durch der Liebe Berührung ward, rinnt aufgelöst in
verborgenen Gängen auf das jenseitige Gebiet, wo es, wie Düfte,
sich mit entschlummerten Lieben mischt.

 

Noch weckst du,
muntres Licht,
den Müden zur Arbeit.
Flössest fröhliches Leben mir ein.
Aber du lockst mich
von der Erinnerung
moosigem Denkmal nicht.
Gern will ich
die fleissigen Hände rühren,
überall umschaun,
wo du mich brauchst,
rühmen deines Glanzes
volle Pracht,
unverdrossen verfolgen
deines künstlichen Werks
schönen Zusammenhang,
gern betrachten
deiner gewaltigen,
leuchtenden Uhr
sinnvollen Gang,
ergründen der Kräfte
Ebenmass
und die Regeln
des Wunderspiels
unzähliger Räume
und ihrer Zeiten.
Aber getreu der Nacht
bleibt mein geheimes Herz.
und der schaffenden Liebe,
ihrer Tochter.
Kannst du mir zeigen
ein ewig treues Herz?
Hat deine Sonne
freundliche Augen,
die mich erkennen?
Fassen deine Sterne
meine verlangende Hand?
Geben mir wieder
den zärtlichen Druck
und das kosende Wort?
Hast du mit Farben
und leichtem Umriss
Sie geziert,
oder war sie es,
die deinem Schmuck
höhere, liebere Bedeutung gab?
Welche Wollust,
welchen Genuss
bietet dein Leben,
die aufwögen
des Todes Entzückungen?
Trägt nicht alles,
was uns begeistert,
die Farbe der Nacht?
Sie trägt dich mütterlich,
und ihr verdankst du
all deine Herrlichkeit.
Du verflögst
in dir selbst,
in endlosen Raum
zergingst du,
wenn sie dich nicht hielte,
dich nicht bände,
dass du warm würdest
und flammend
die Welt zeugtest.

Wahrlich, ich war, eh du warst.
Die Mutter schickte
mit meinen Geschwistern mich,
zu bewohnen deine Welt,
sie zu heiligen mit Liebe,
dass sie ein ewig
angeschautes Denkmal werde,
zu bepflanzen sie
mit unverwelklichen Blumen.
Noch reiften sie nicht
diese göttlichen Gedanken.
Noch sind der Spuren
unserer Offenbarung
wenig.
Einst zeigt deine Uhr
das Ende der Zeit,
wenn du wirst wie unser einer,
und voll Sehnsucht und Inbrunst
auslöschest und stirbst.
In mir fühl ich
deiner Geschäftigkeit Ende,
himmlische Freiheit,
selige Rückkehr.
In wilden Schmerzen
erkenn ich deine Entfernung
von unsrer Heimat,
deinen Widerstand
gegen den alten,
herrlichen Himmel.

Deine Wut und dein Toben
ist vergebens.
Unverbrennlich
steht das Kreuz
eine Siegesfahne
unsers Geschlechts.

Hinüber wall ich,
Und jede Pein
Wird einst ein Stachel
Der Wollust sein.

Noch wenig Zeiten,
So bin ich los,
Und liege trunken
Der Liebe im Schoss.

Unendliches Leben
Wogt mächtig in mir
Ich schaue von oben
Herunter nach dir.

An jenem Hügel
Verlischt dein Glanz.
Ein Schatten bringet
Den kühlenden Kranz.

Oh! sauge, Geliebter,
Gewaltig mich an,
Dass ich entschlummern
Und lieben kann.

Ich fühle des Todes
Verjüngende Flut,
Zu Balsam und Äther
Verwandelt mein Blut.

Ich lebe bei Tage
Voll Glauben und Mut
Und sterbe die Nächte
In heiliger Glut.

Novalis

da “Hymnen an die Nacht”, Athenäum-Fassung, 1800

In verità cantare… – Rainer Maria Rilke

Leonid Pasternak, Rainer Maria Rilke

   

   Un Dio, lo può… Ma noi, come potremo
seguirlo per la sua fragile lira?
È scisso. Ed all’incrocio di due vie,
non sorge in cuore, per Apollo, un tempio.

   Non è, il canto che insegni, bramosía:
frutto goloso che si coglie alfine.
Cantare, è essere. Facile a un Iddio.
Ma noi, quando saremo? E quando, intorno,

   Egli ci volgerà la terra e gli astri?
Amare, non è essere, se pure
urge alla gola l’impeto del canto.

   Apprendi a moderarlo, a che non sfumi!
In verità cantare, è un altro soffio.
Spirar nel nulla… In Dio, spirare… Un vento…

Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “I Sonetti a Orfeo” (1922), in “Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941

∗∗∗

III.

Ein Gott vermags. Wie aber, sag mir, soll
ein Mann ihm folgen durch die schmale Leier?
Sein Sinn ist Zwiespalt. An der Kreuzung zweier
Herzwege steht kein Tempel für Apoll.

Gesang, wie du ihn lehrst, ist nicht Begehr,
nicht Werbung um ein endlich noch Erreichtes;
Gesang ist Dasein. Für den Gott ein Leichtes.
Wann aber sind wir? Und wann wendet er

an unser Sein die Erde und die Sterne?
Dies ists nicht, Jüngling, daß du liebst, wenn auch
die Stimme dann den Mund dir aufstößt, – lerne

vergessen, daß du aufsangst. Das verrinnt.
In Wahrheit singen, ist ein andrer Hauch.
Ein Hauch um nichts. Ein Wehn im Gott. Ein Wind.

Rainer Maria Rilke

da “Die Sonette an Orpheus”, Insel-Verlag, 1923