La piuma del Simorgh – Roberto Mussapi

Minor White, Hexagram (Chichi) Water over Fire, 1958

 

La luce non si attenua mai, si spegne.
Come l’uccello che conosciamo, per rinascere.
È un inganno credere che qualcosa passi dal tempo
in cui fu pieno, a una senescenza.
Non c’è intervallo nel fuoco, c’è spegnimento
perché le braci si riaccendano, tu ti riaccendi.
Non era quello che avevo appreso un tempo,
l’attenuazione della fiamma, il crepuscolo.
Non esiste un tempo intermedio,
tu passi e affoghi per rinascere,
questo è già scritto, nel fondo del mare,
impresso nelle cifre del corallo.
La vita che ti fece fu ambigua, e generosa,
tu le appartieni, sei tu che la fai vivere.
Ora che sta piovendo i passi si allontanano,
i tram sferragliano e sembra pioverà sempre,
ma c’è una porta, mai vista o spalancata di colpo.
Tu credi che il buio si avvicini, ma già incombe
la notte e il sogno che ti prende e abbraccia.
Ognuno si culla in un sogno spesso debole e incerto
per la paura del mattino, del canto del gallo
quando le ombre cadono e tu viva
stai conducendo il globo al suo risveglio.
Non era quello che avevo appreso un tempo,
il lento divenire e la trasformazione del giorno
in una quiete muta, priva di stelle.
C’è solo, tu l’hai svelato, un incessante fuoco che rigenera.

Roberto Mussapi

da “La piuma del Simorgh”, “Lo Specchio” Mondadori, 2016

(se musica è la donna amata) – Mario Luzi

Claude Monet, Camille Monet in Japanese Costume, 1876, Museum of Fine Arts, Boston

 

Ma tu continua e perditi, mia vita,
per le rosse città dei cani afosi
convessi sopra i fiumi arsi dal vento.
Le danzatrici scuotono l’oriente
appassionato, effondono i metalli
del sole le veementi baiadere.
Un passero profondo si dispiuma
sul golfo ov’io sognai la Georgia:
dal mare (una viola trafelata
nella memoria bianca di vestigia)
un vento desolato s’appoggiava
ai tuoi vetri con una piuma grigia

e se volevi accoglierlo una bruna
solitudine offesa la tua mano
premeva nei suoi limbi odorosi
d’inattuate rose di lontano.

Mario Luzi

da “Avvento notturno”, Vallecchi, Firenze, 1940

Grammatica – Enrico Testa

Will Barnet, Woman by the Sea

 

la litania dei casi recitata al ginnasio
s’è fatta prognosi postuma dei giorni:
se tutto sommato poco frequentati
– anche colpevolmente, lo ammetto –
i primi due,
tra dativo e accusativo invece
s’è consumato il maggior tempo.
Seguiti dal vocativo
per veglie albe notti,
preghiere a volti muti, ascolti
sempre in duplice tensione:
rivolto altrove e ad altri
o nell’attesa di una chiamata.
Ora vivo all’ablativo

sotto, nel fondo, anche quando
parliamo falsi o compiti
o arroganti nelle nostre riunioni,
c’è sempre una corrente impetuosa
di frammenti di sogni,
di cantilene, di grida,
di frasi a metà, di visioni,
di foglie che il vento disperde:
ulivi, salici, olmi:
preghiere al verde

sto per i nomi propri
di persona e di luogo
(Giovanni Francesca
Rupanego Calacoto)
per i forse e i qualcosa
per i proverbi,
anche banali o insulsi,
e i modi di dire antichi:
le concrezioni geologiche della lingua
di cui (se mai c’è stato)
s’è perduto l’inventore,
per i mattoni cotti
nella fornace comune
e non per i fragili e raffinati vasi
foggiati dal ceramista solitario
nel suo studio

elma in turco significa mela.
Iridescente prisma delle lettere
che riflette separa ricongiunge
anche qui tra mura e minareti
cipressi scuri e costa d’asia
o ragnatelo esile e incerto
che se pure manca la sua cosa
(luce prima o mosca)
ci tiene – tra sbreghi impacci e nodi –
ancora legati insieme

oh venisse una sua breve notizia
(fioca e speranzosa)
lungo il viale dei tigli
che porta alla stazione…
mi basterebbe una lettera sola
anche smangiata o corrosa…

Enrico Testa

da “Ablativo”, Einaudi, Torino, 2013

Dipendevi da quello a cui non servi – Milo De Angelis

Milo De Angelis, foto di Viviana Nicodemo

 

Subendo questa fine
senza capire
per i morti ingiustificati, le tue
domande irrilevanti
in questi luoghi di pioppeti
dove non s’incontra il vuoto o l’essere
a cui ti volevi fedele. Solo una storia
già decisa: finirai e nemmeno
morire sarà un gesto personale.
Nemmeno urlare dietro un albero
che non ti salvi. Ora tutto è semplice:
percorrendo questa campagna
si fa inverno: un novecento
impietoso ha definito il tuo tempo
non chiesto e ti consuma. O ti coglie preoccupato
di lasciare giustificazione: ma senza
punti d’appoggio. Per le gerarchie fortunose
di un mattino al liceo, la decisione
di studiare la morte. Ma sai
che è per caso, ora,
con il sasso che tiri: ti scopri
nell’azione e non è possibile
legarla col resto, con la vita devastata
a cui rifiutavi un senso: e lo rifiuti
ma per farlo tu affermi
e non ti dà tregua,
in mezzo a piccole foglie, materia
che dopo la negazione
è la stessa. Tra le file
dei tronchi, con la nebbia che le chiude
sei dipendenza
da ogni forma, che vedi durare
vicina. Solo resti a rodere l’avvenimento,
il rancore che una negazione completa
lasci immutato
tutto.
Tu hai capito
che la tua vita è inutile.

Milo De Angelis

dalla rivista “Poesia”, Anno XXIII, Maggio 2017, N. 326, Crocetti Editore

Testo inedito da “Poesie giovanili (1968-1973)”

«Sa morire cosí solo un uccello» – Jaroslav Seifert

Foto di Tina Fersino

X.

Sa morire cosí solo un uccello
e cade a piombo dentro la rugiada.
Nessuno racconta come gli accada,
e non sanno di questo né di quello.

Forse cadde ad alte nubi, un anello
di fiamma da una làvica contrada.
Sa morire cosí solo un uccello,
e cade a piombo dentro la rugiada.

Di cenere era il terreno mantello,
fra i mendicanti una carcassa brada,
ma varcò il buio ed ebbe il suggello,
la gloria e la luce che mai dirada.

Sa morire cosí solo un uccello.

Jaroslav Seifert

(Traduzione di Sergio Corduas)

da “Mozart a Praga (Tredici rondò su Praga)”, 1951, in “Jaroslav Seifert, Vestita di luce”, Einaudi, Torino, 1986

***

X.

Tak umí umřít jenom pták
a padá střemhlav v rosu trávy.
Vždyť nikdo o tom nevypráví,
nevědí ani kdy a jak.

Možná že padal do oblak
jak plamen rozžhavené lávy.
Tak umí umřít jenom pták
a padá střemhlav v rosu trávy.

A s žebráky jak lidský vrak
šat z hlíny měl jen popelavý,
když prošel tmou a vcházel pak
už přímo do světel a slávy.

Tak umí umřít jenom pták.

Jaroslav Seifert

da “Mozart v Praze: třináct rondeaux”, Československý spisovatel, 1956