«quanti ascensori ho già preso fin qui!» – Enrico Testa

Florence Henri, Composition – Autoportrait à l’ombre I, 1938

 

quanti ascensori ho già preso fin qui!
di alberghi condomini uffici musei
università biblioteche ospedali
ciascuno diverso dall’altro
per foggia arredo odore e colore:
déco, intarsiati e aperti
sul vano delle scale
o ermetici di metallo lucente,
rapidissimi su per l’erta di un grattacielo
o lenti e cigolanti nel casamento
di una Praga lontana e deserta.
Con la sensazione anche salendo
di muovermi invece verso il basso
in precipitante discesa.
E ogni volta uscendo voltarmi
per controllare se la mia ombra
mi seguisse fedele
oppure, riottosa, dentro rimanesse
adagiata sul quadrato del pavimento

Enrico Testa

da “Ablativo”, Einaudi, Torino, 2013

«il tempo: quasi trent’anni fa» – Enrico Testa

Foto di Annie Leibovitz

 

il tempo: quasi trent’anni fa
tra fine primavera e inizio estate
il luogo: un’osteria deserta
dietro corso Aurelio Saffi
vicino alla Scuola Ortofrenica.
Gerani rossi in vecchie scatole di conserva
tavolini di lamiera smaltata
e, dentro, ancora il rosso
– anche se piú spento –
delle tovaglie di cerata.
Il cibo e il vino non erano un granché:
le briciole dimenticate sul pavimento
invitavano i colombi ad entrare.
Si sentiva vicino il mare.
Allora – in quei primi incontri –
successe qualcosa che solo ora ricordo:
dalla pergola della rosa
scendeva un passaggio di luce
che, insieme a te,
immaginavo cosí dolce e domestica
da fare anche a meno di me

Enrico Testa

da “Ablativo”, Einaudi, Torino, 2013

«a filo d’acqua intravedo» – Enrico Testa

Foto di Ansel Adams

 

a filo d’acqua intravedo
gli oleandri fioriti sulla riva
il porto tranquillo
le case sulla collina
il campanile della mia chiesa
i bagnanti di porcellana
illuminati dal sole.

Ma all’improvviso la scena appassisce
come un’eclisse.
Basta – gorgoglio mentre l’onda
mi schiuma in gola –
basta di tutto questo!
Non sentite quanta pena
si nasconde, ritrosa,
dietro l’idillio?

Allora – mi dico – meglio scendere
e scendere ancora nel profondo
sino a toccare l’ombra
vagante sola sul fondo…

Enrico Testa

da “Ablativo”, Einaudi, Torino, 2013

Grammatica – Enrico Testa

Will Barnet, Woman by the Sea

 

la litania dei casi recitata al ginnasio
s’è fatta prognosi postuma dei giorni:
se tutto sommato poco frequentati
– anche colpevolmente, lo ammetto –
i primi due,
tra dativo e accusativo invece
s’è consumato il maggior tempo.
Seguiti dal vocativo
per veglie albe notti,
preghiere a volti muti, ascolti
sempre in duplice tensione:
rivolto altrove e ad altri
o nell’attesa di una chiamata.
Ora vivo all’ablativo

sotto, nel fondo, anche quando
parliamo falsi o compiti
o arroganti nelle nostre riunioni,
c’è sempre una corrente impetuosa
di frammenti di sogni,
di cantilene, di grida,
di frasi a metà, di visioni,
di foglie che il vento disperde:
ulivi, salici, olmi:
preghiere al verde

sto per i nomi propri
di persona e di luogo
(Giovanni Francesca
Rupanego Calacoto)
per i forse e i qualcosa
per i proverbi,
anche banali o insulsi,
e i modi di dire antichi:
le concrezioni geologiche della lingua
di cui (se mai c’è stato)
s’è perduto l’inventore,
per i mattoni cotti
nella fornace comune
e non per i fragili e raffinati vasi
foggiati dal ceramista solitario
nel suo studio

elma in turco significa mela.
Iridescente prisma delle lettere
che riflette separa ricongiunge
anche qui tra mura e minareti
cipressi scuri e costa d’asia
o ragnatelo esile e incerto
che se pure manca la sua cosa
(luce prima o mosca)
ci tiene – tra sbreghi impacci e nodi –
ancora legati insieme

oh venisse una sua breve notizia
(fioca e speranzosa)
lungo il viale dei tigli
che porta alla stazione…
mi basterebbe una lettera sola
anche smangiata o corrosa…

Enrico Testa

da “Ablativo”, Einaudi, Torino, 2013