Dire piano – Else Lasker-Schüler

Foto di Alessio Albi

 

Tu ti prendesti tutte le stelle
Sul mio cuore.

I miei pensieri si increspano,
Io devo danzare.

Tu fai sempre quello che mi fa guardare in alto,
Stancare la mia vita.

Non posso più sopportare
La sera sopra le siepi.

Nello specchio dei ruscelli
Non ritrovo la mia immagine.

All’arcangelo tu hai rubato
I fluttuanti occhi;

Ma io spizzico il miele
Del loro azzurro.

Il mio cuore va lento sotto
Io non so dove –

Forse nella tua mano.
Dovunque lei si impiglia alla mia rete.

Else Lasker-Schüler

(Traduzione di Nicola Gardini)

dalla rivista “Poesia”, Anno XVIII, Gennaio 2005, N. 190, Crocetti Editore

∗∗∗

Leise sagen –

Du nahmst dir alle Sterne
Über meinem Herzen.

Meine Gedanken kräuseln sich,
Ich muß tanzen.

Immer tust du das, was mich aufschauen läßt,
Mein Leben zu müden.

Ich kann den Abend nicht mehr
Über die Hecken tragen.

Im Spiegel der Bäche
Finde ich mein Bild nicht mehr.

Dem Erzengel hast du
Die schwebenden Augen gestohlen;

Aber ich nasche vom Seim
Ihrer Bläue.

Mein Herz geht langsam unter
Ich weiß nicht wo –

Vielleicht in deiner Hand.
Überall greift sie an mein Gewebe.

Else Lasker-Schüler

da “Meine Wunder. Gedichte”, Dreililien Verlag, Karlsruhe-Leipzig, 1911

Mattino – Roberto Bolaño

Roberto Bolaño

 

Credimi, sono al centro della mia stanza
in attesa che piova. Sono solo. Non m’importa
di finire o meno la mia poesia. Aspetto la pioggia,
bevendo il caffè e guardando dalla finestra un bel paesaggio
di cortili interni, con panni stesi e immobili,
silenziosi panni di marmo nella città, dove non esiste
il vento e in lontananza si sente solo il ronzio
di una televisione a colori, guardata da una famiglia
che a quest’ora, come me, beve il caffè riunita intorno
a un tavolo: credimi: i tavoli di plastica gialla
si moltiplicano fino alla linea dell’orizzonte e oltre:
verso le periferie dove si costruiscono palazzi
di appartamenti, e un ragazzo di 16 anni seduto su
mattoni rossi osserva il movimento dei macchinari.
Il cielo nell’ora del ragazzo è un’enorme
vite cava con cui gioca la brezza. E il ragazzo
gioca con le idee. Con le idee e con scene bloccate.
L’immobilità è una nebbia trasparente e dura
che gli spunta dagli occhi.
Credimi: non sarà l’amore ad arrivare,
ma la bellezza con la sua stola di albe morte.

Roberto Bolaño

(Traduzione di Ilide Carmignani)

da “L’Università Sconosciuta”, SUR, 2020

∗∗∗

Amenecer

Créeme, estoy en el centro de mi habitación
esperando que llueva. Estoy solo. No me importa
terminar o no mi poema. Espero la lluvia,
tomando café y mirando por la ventana un bello paisaje
de patios interiores, con ropas colgadas y quietas,
silenciosas ropas de mármol en la ciudad, donde no existe
el viento y a lo lejos sólo se escucha el zumbido
de una televisión en colores, observada por una familia
que también, a esta hora, toma café reunida alrededor
de una mesa: créeme: las mesas de plástico amarillo
se desdoblan hasta la línea del horizonte y más allá:
hacia los suburbios donde construyen edificios
de departamentos, y un muchacho de 16 sentado sobre
ladrillos rojos contempla el movimiento de las máquinas.
El cielo en la hora del muchacho es un enorme
tornillo hueco con el que la brisa juega. Y el muchacho
juega con ideas. Con ideas y escenas detenidas.
La inmovilidad es una neblina transparente y dura
que sale de sus ojos.
Créeme: no es el amor el que va a venir,
sino la belleza con su estola de albas muertas.

Roberto Bolaño

da “La Universidad Desconocida”, Editorial Anagrama, 2007

Primavera, inverno – Mario Benedetti

Mario Benedetti, foto di Dino Ignani

 

Vado nell’aprile del duemila e dieci
quando la casa era nostra, e l’asfalto,
i fili della luce, le montagne, il sole.

Nessuno ci vedeva e noi vedevamo tutto.
Era il segreto di ognuno per vivere.

Cade quella primavera sulle suole di neve
con il peso di tutti i miei anni:
un bianco pestato in un amaro sale grigio
la sola immagine, il mio corpo di adesso.

∗∗∗

Non potevi saperlo. C’era solo l’erba,
il dorso delle tante mani nella terra,
le dita lunghe arrampicate nell’aria.

Altre si sono annodate alle tue,
la metà che allora ti mancava
hai trovato seguendo la vita.

Non dire niente. Il silenzio ripasserà
e morirai per qualcuno. Cosa puoi fare?
Ora non tutti sono come te. Cantano,

hanno faccende di cui occuparsi,
quasi quotidianamente si sentono eterni.
Anche se è stupido diluire la morte

con la vita, non farti questa domanda:
era all’inizio del gioco, felice
e macabro che non puoi non giocare.

∗∗∗

La guancia sporcata di segale
corre nel prato con la fantasia.
Il respiro della casa è lo sgretolarsi dei muri
nella gola dove preme il sangue che non esce.
Confusi i gambi sdraiati sotto le braccia fredde,
invisibile la fossa del funerale.

∗∗∗

ricordo di Andrea Zanzotto

I fiori tutte le notti aperti, mi guardi scrutando in giro
o dalla finestra il campo come il campo di una volta.
Venuti per i prati, per non poterli dire che erbe e alberi.
Potevamo essere fatti di un ferro, di un muso.
L’orto è solo una cosa che facevamo, una domanda.

∗∗∗

I visi senza le ossa, le nostre cartilagini
tra la sterpaglia sollevano letti di foglie
come farina e acqua impastate senza mani.
Un altro novembre sta seduto nel vuoto,
le parole fanno buche di campo,
alzano berretti di zolle dalla terra arata.

∗∗∗

Dentro i discorsi si perde
la prima cosa che il bambino ha guardato.
Lui gioca silenzioso e gli occhi non muove.
Hanno tagliato l’albero, il tronco è caduto,
lui non muove gli occhi, ascolta il da farsi.
Impara a vivere poveramente.

∗∗∗

Vedere nuda la vita
mentre si parla una lingua per dire qualcosa.
Uscire di sera rende la sera più bella
ma è il poco sole obliquo la sera senza parole.
Vedere nuda la vita quando c’eri con le tue cose.
Adesso le cose sono sole,
non c’è la promessa del tuo svegliarti
e continuare con le ciabatte, le tazze, i cucchiai.
Non è valsa la pena affaccendarsi.
Il gioco dei giorni è la promessa che non sapevi
a perdere sempre da prima.

∗∗∗

Anche io solo come questo attaccapanni,
come sono i tavoli, com’è l’asse da stiro.
Muri e ringhiere, la poltrona, il camino.
Arde il fuoco bruciando l’intero giardino,
tutto il prato, i boschi, tutte le primavere.

Mario Benedetti

da “Tersa morte”, “Lo Specchio” Mondadori, 2013

Primavera nordica – Edith Södergran

Dipinto di Bryce Cameron Liston

 

Tutti i miei castelli d’aria si sono sciolti come neve,
tutti i miei sogni defluiti come acqua,
di tutto ciò che ho amato mi rimane
un cielo azzurro e qualche pallida stella.
Il vento si muove piano tra gli alberi.
Il vuoto riposa. L’acqua è silenziosa.
Il vecchio abete sta sveglio e pensa
alla nuvola bianca baciata in sogno.

Edith Irene Södergran

(Traduzione di Piero Pollesello)

dalla rivista “Poesia”, Anno X, Aprile 1997, N. 105, Crocetti Editore

∗∗∗

Nordisk vår

Alla mina luftslott ha smultit som snö,
alla mina drömmar ha runnit som vatten,
av allt vad jag älskat har jag endast kvar
en blå himmel och några bleka stjärnor.
Vinden rör sig sakta mellan träden.
Tomheten vilar. Vattnet är tyst.
Den gamla granen står vaken och tänker
på det vita molnet, han i drömmen kysst.

Edith Irene Södergran

da “Triumf att finnas till: dikter i urval”, Stockholm: Wahlström & Widstrand, 1948

L’albero del bene e del male – Piero Bigongiari

Irene Kung

 

Ho vissuto, credo di aver vissuto,
come appena potevo. In quale evo
di lacrime ho cercato di sorridere
al richiamo del fato? Me lo dice
quel suono di liuto che scendeva
da una persiana chiusa in una via
deserta e sconosciuta. Dove ero?
Forse lontano solo da me stesso?
Lo ripete Euridice che voltandosi
vide perdersi chi in quel sorriso
muto di lei attizzò il gran fuoco
del suo dolore.

                       Ho perduto poco
dove ho perduto tutto, nel gran gioco
che al di là di ogni perdita l’amore
sostiene intatto in ciò che non ha avuto.
Più nessuna scommessa è ormai possibile
tra il bene e il male, anche se lo scibile
è divenuto un paravento fragile
che lascia trasparire, immortale,
quell’indulto atteso per tanti anni,
chi siede sulle scale della sua
dimora, di non so quale ricordo
che più non vale se è ormai affidato
solo all’oblio.

                      Ora mi sono alzato
al suono di quel liuto senza volto,
non so da dove quale mano pizzicato,
non so a chi rivolto, innamorato,
chi mi sussurra piano all’orecchio
che c’è ancora parecchio da donare,
quasi tutto. È questo il misterioso
frutto che io ancora vedo pendere
promettente sull’albero del bene
e del male.

                       Se mi volto non posso,
sull’orlo del peccato originale,
più sedermi: sparite quelle scale
sono rimasti solo quegli ermi
accenti di un liuto immortale.
Dimoro ormai nell’impeto straziante,
liturgico, di quel suggerimento
mentre il vento geloso mi contende
sin l’ascolto fatale di quel suono
in cui par diluirsi anche la voce
singhiozzante di chi chiede perdono,
troppo, ormai, troppo da me distante
quel mirifico groppo. È luce o pianto
che seduce soltanto ogni distanza?
Quale vanto deserto è in questa stanza
che intrattiene soltanto il mio sconcerto…

Piero Bigongiari

27 giugno 1995

da “L’amore è…”, in “Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996