
Mario Benedetti, foto di Dino Ignani
Vado nell’aprile del duemila e dieci
quando la casa era nostra, e l’asfalto,
i fili della luce, le montagne, il sole.
Nessuno ci vedeva e noi vedevamo tutto.
Era il segreto di ognuno per vivere.
Cade quella primavera sulle suole di neve
con il peso di tutti i miei anni:
un bianco pestato in un amaro sale grigio
la sola immagine, il mio corpo di adesso.
∗∗∗
Non potevi saperlo. C’era solo l’erba,
il dorso delle tante mani nella terra,
le dita lunghe arrampicate nell’aria.
Altre si sono annodate alle tue,
la metà che allora ti mancava
hai trovato seguendo la vita.
Non dire niente. Il silenzio ripasserà
e morirai per qualcuno. Cosa puoi fare?
Ora non tutti sono come te. Cantano,
hanno faccende di cui occuparsi,
quasi quotidianamente si sentono eterni.
Anche se è stupido diluire la morte
con la vita, non farti questa domanda:
era all’inizio del gioco, felice
e macabro che non puoi non giocare.
∗∗∗
La guancia sporcata di segale
corre nel prato con la fantasia.
Il respiro della casa è lo sgretolarsi dei muri
nella gola dove preme il sangue che non esce.
Confusi i gambi sdraiati sotto le braccia fredde,
invisibile la fossa del funerale.
∗∗∗
ricordo di Andrea Zanzotto
I fiori tutte le notti aperti, mi guardi scrutando in giro
o dalla finestra il campo come il campo di una volta.
Venuti per i prati, per non poterli dire che erbe e alberi.
Potevamo essere fatti di un ferro, di un muso.
L’orto è solo una cosa che facevamo, una domanda.
∗∗∗
I visi senza le ossa, le nostre cartilagini
tra la sterpaglia sollevano letti di foglie
come farina e acqua impastate senza mani.
Un altro novembre sta seduto nel vuoto,
le parole fanno buche di campo,
alzano berretti di zolle dalla terra arata.
∗∗∗
Dentro i discorsi si perde
la prima cosa che il bambino ha guardato.
Lui gioca silenzioso e gli occhi non muove.
Hanno tagliato l’albero, il tronco è caduto,
lui non muove gli occhi, ascolta il da farsi.
Impara a vivere poveramente.
∗∗∗
Vedere nuda la vita
mentre si parla una lingua per dire qualcosa.
Uscire di sera rende la sera più bella
ma è il poco sole obliquo la sera senza parole.
Vedere nuda la vita quando c’eri con le tue cose.
Adesso le cose sono sole,
non c’è la promessa del tuo svegliarti
e continuare con le ciabatte, le tazze, i cucchiai.
Non è valsa la pena affaccendarsi.
Il gioco dei giorni è la promessa che non sapevi
a perdere sempre da prima.
∗∗∗
Anche io solo come questo attaccapanni,
come sono i tavoli, com’è l’asse da stiro.
Muri e ringhiere, la poltrona, il camino.
Arde il fuoco bruciando l’intero giardino,
tutto il prato, i boschi, tutte le primavere.
Mario Benedetti
da “Tersa morte”, “Lo Specchio” Mondadori, 2013
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