L’albero del bene e del male – Piero Bigongiari

Irene Kung

 

Ho vissuto, credo di aver vissuto,
come appena potevo. In quale evo
di lacrime ho cercato di sorridere
al richiamo del fato? Me lo dice
quel suono di liuto che scendeva
da una persiana chiusa in una via
deserta e sconosciuta. Dove ero?
Forse lontano solo da me stesso?
Lo ripete Euridice che voltandosi
vide perdersi chi in quel sorriso
muto di lei attizzò il gran fuoco
del suo dolore.

                       Ho perduto poco
dove ho perduto tutto, nel gran gioco
che al di là di ogni perdita l’amore
sostiene intatto in ciò che non ha avuto.
Più nessuna scommessa è ormai possibile
tra il bene e il male, anche se lo scibile
è divenuto un paravento fragile
che lascia trasparire, immortale,
quell’indulto atteso per tanti anni,
chi siede sulle scale della sua
dimora, di non so quale ricordo
che più non vale se è ormai affidato
solo all’oblio.

                      Ora mi sono alzato
al suono di quel liuto senza volto,
non so da dove quale mano pizzicato,
non so a chi rivolto, innamorato,
chi mi sussurra piano all’orecchio
che c’è ancora parecchio da donare,
quasi tutto. È questo il misterioso
frutto che io ancora vedo pendere
promettente sull’albero del bene
e del male.

                       Se mi volto non posso,
sull’orlo del peccato originale,
più sedermi: sparite quelle scale
sono rimasti solo quegli ermi
accenti di un liuto immortale.
Dimoro ormai nell’impeto straziante,
liturgico, di quel suggerimento
mentre il vento geloso mi contende
sin l’ascolto fatale di quel suono
in cui par diluirsi anche la voce
singhiozzante di chi chiede perdono,
troppo, ormai, troppo da me distante
quel mirifico groppo. È luce o pianto
che seduce soltanto ogni distanza?
Quale vanto deserto è in questa stanza
che intrattiene soltanto il mio sconcerto…

Piero Bigongiari

27 giugno 1995

da “L’amore è…”, in “Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996

Restituzione – Julio Cortázar

Julio Cortázar in Paris in 1978

 

Se della tua bocca non so che la tua voce
e dei tuoi seni solo il verde o l’arancione delle bluse,
come posso iattarmi di avere di te
più della grazia di un’ombra che passa sull’acqua.
Nella memoria porto gesti, la moina che tanto
felice mi faceva, e questo modo di restartene
in te stessa, con il curvo riposo
di una immagine d’avorio.
Non è gran cosa questo tutto che mi resta.
In più opinioni, collere, teorie,
nomi di fratelli e sorelle,
l’indirizzo postale e il numero del telefono,
cinque fotografie, un profumo di capelli,
una pressione di piccolette mani fra le quali nessuno direbbe
che mi si nasconde il mondo.
Questo tutto me lo porto senza sforzo, perdendolo poco a poco.
Non inventerò l’inutile menzogna della perpetuità,
meglio passare i ponti con le mani
piene di te,
tirando via a piccoli pezzi il mio ricordo,
dandolo alle colombe, ai fedeli
passeri, che ti mangino
fra canti, arruffio e svolazzi.

Julio Cortázar

(Traduzione di Gianni Toti)

da “Le ragioni della collera”, Edizioni Fahrenheit 451, 1995

***

Restitución

Si de tu boca no sé más que la voz
y de tus senos sólo el verde o el naranja de las blusas,
cómo jactarme de tener de ti
más que la gracia de una sombra que pasa sobre el agua.
En la memoria llevo gestos, el mohín
que tan feliz me hacía, y ese modo
de quedarte en ti misma, con el curvo
reposo de una imagen de marfil.
No es gran cosa ese todo que me queda.
Además opiniones, cóleras, teorías,
nombres de hermanos y de hermanas,
la dirección postal y telefónica,
cinco fotografías, un perfume de pelo,
una presión de manos pequeñitas donde nadie diría
que se me esconde el mundo.
Todo lo llevo sin esfuerzo, perdiéndolo de a poco.
No inventaré la inútil mentira de la perpetuidad,
mejor cruzar los puentes con las manos
ileanas de ti
tirando a pedacitos mi recuerdo,
dándolos a las palomas, a los fieles
gorriones, que te coman
entre cantos y bullas y aleteos.

Julio Cortázar

da “Pameos y meopas”, Barcelona: OCNOS, Editorial Llibres De Sinera, 1971

«In questo luogo di corpi sedati» – Milo De Angelis

Kaveh Hosseini, Vagueness

 

In questo luogo di corpi sedati
in questo luogo consacrato al rimpianto
si aggirano anime guaste e inattese
e noi camminiamo con loro verso la notte spoglia
camminiamo verso il punto saliente
respiriamo un profumo eterno di frittelle
attendiamo che la notte riporti il primo errore
e la paura antica di sbagliare la traduzione
di ombra in ombra si dissolve tutto il tempo
tutto il tempo si fa gemma e cenere
della vita fanciulla.

Ora precipitiamo nella scintilla originale
ora si delinea il primogenito
viso smarrito in una follia di tulipani:
lo possiedo, lo saluto, lo canto, lo frantumo
con lo sguardo malfermo sul crimine,
lo aspettiamo insieme al confine del mondo
invocando la sponda delle canzoni felici,
le figure sul rovescio della medaglia, il duetto
delle nostre pure apparenze, la strofa primitiva
dove le lettere del nome amato ritornano
e ci chiamano per sempre.

Il nome, il nome, il nome.
Lo ripetiamo certi o increduli,
in un tremore di pernici, lo incidiamo
nell’urlo, lo salviamo
con lo stupore inconfondibile dell’unico dono
che abbiamo meritato: giunge
dalla nostra alba più remota e ci nomina,
ci attende, ci pretende, ci chiede
la parola e la protegge nel silenzio dei pioppeti.

È di tutti la splendida uccisa, la sorridente,
cammina nei corridoi, dea o spettro, cantico
del grande zafferano, si aggira come un oltraggio
alla morte, ritorna puntuale al mattino
nelle battaglie tenebrose del risveglio,
si stende sulla branda, si toglie i sandali,
sorride ancora una volta. Oppure esce nel mondo
e mostra alle strade il nostro errore e la collera
di noi che abbiamo ucciso la cosa più amata
e ora la tocchiamo, tracciamo per terra
un annuncio oscuro di linee
e parole, barlumi di volti e di città: un disegno
di salvezza, forse, o un’esecuzione.

Milo De Angelis

da “Incontri e agguati”, “Lo Specchio” Mondadori, 2015

«Se tu sapessi che questo» – Pedro Salinas

Anna Karina, da “Vivre sa vie” di Jean-Luc Godard, Francia, 1962

 

[LXI]

Se tu sapessi che questo
enorme singhiozzo che stringi
fra le braccia, che questa
lacrima che asciughi
baciandola,
vengono da te, sono te,
dolore tuo mutato in lacrime
mie, singhiozzi miei!

Allora
non chiederesti piú
ai cieli, al passato,
alla fronte, alle carte,
perché soffro, che ho.
E tutta silenziosa,
con quel grande silenzio
della luce e del sapere,
mi baceresti ancora,
e desolatamente.
Con la desolazione
di chi non ha vicino
un altro essere, un dolore
altrui; di chi è solo
ormai con la sua pena.
E vuole consolare
in un chimerico altro,
il gran dolore ch’è suo.

Pedro Salinas

(Traduzione di Emma Scoles)

 da “La voce a te dovuta”, Einaudi, Torino, 1979
 
***

[LXI]

¡Si tú supieras que ese
gran sollozo que estrechas
en tus brazos, que esa
lágrima que tú secas
besándola,
vienen de ti, son tú,
dolor de ti hecho lágrimas
mías, sollozos míos!

Entonces
ya no preguntaría
sal pasado, a los cielos,
a la frente, a las cartas,
qué tengo, por qué sufro.
Y toda silenciosa,
con ese gran silencio
de la luz y el saber,
me besarías más,
y desoladamente.
Con la desolación
de que no tiene al lado
otro ser, un dolor
ajeno; del que está
sólo ya con su pena.
Queriendo consolar
en un otro quimérico,
el gran dolor que es tuyo.

Pedro Salinas

 da “La voz a ti debida”, Madrid, Signo, 1933

«C’è nella vita vegetativa di un poeta» – Sergej Gandlevskij

Foto di Josef Sudek

 

C’è nella vita vegetativa di un poeta
Un periodo malefico, nel quale
Egli fugge la luce del cielo
E teme il giudizio degli uomini.
E dal fondo di un pozzo cittadino
Spargendo il miglio ai colombi
Con un orribile giuramento promette
Di vendicarsi alla prima occasione, ma,

Grazie a Dio, sulla veranda della dacia,
Dove il gelsomino arriva alla mano,
Abbiamo imparato a volare
Dal violino furioso di Vivaldi –
Ecco, il vuoto sale in alto,
Dall’altezza del vuoto l’anima
Cade a terra e si sente raggelare,
Ma i fiori toccano il gomito…

Non conosciamo nulla per bene,
Siamo vigliacchi, beviamo vodka,
Spezziamo i fiammiferi per l’agitazione
E rompiamo le stoviglie per debolezza,
Ci impegniamo a dire la cruda verità
Senza lusinghe, a bruciapelo.
Ma i versi non sono strumento di vendetta,
Bensí la fonte di un onore argenteo.

Sergej Gandlevskij

1983

(Traduzione di Paolo Galvagni)

da “La nuova poesia russa”, Crocetti Editore, 2003

∗∗∗

«Есть в растительном жизни поэта»

Есть в растительном жизни поэта
Злополучный период, когда
Он дичится небесного света
И боится людского суда.
И со дна городского колодца,
Сизарям рассыпая пшено,
Он ужасною клятвой клянется
Расквитаться при случае, но,

Слава Богу, на дачной веранде,
Где жасмин до руки достает,
У припадочной скрипки Вивальди
Мы учились полету — и вот
Пустота высоту набирает,
И душа с высоты пустоты
Наземь падает и обмирает,
Но касаются локтя цветы…

Ничего-то мы толком не знаем,
Труса празднуем, горькую пьем,
От волнения спички ломаем
И посуду по слабости бьем,
Обязуемся ре зать без лести
Правду-матку как есть напрямик.
Но стихи не орудие мести,
А серебряной чести родник.

Сергей Гандлевский

1983

da “Счастливая ошибка. Стихи и эссе о стихах”, Издательство АСТ, 2019