Ti ha chiesto… – Vladimír Holan

Foto di Paul Apal’kin

 

Una ragazza ti ha chiesto: Che cosa è poesia?
Volevi dirle: Già il fatto che esisti, ah sí, che tu esisti,
e che nel tremore e stupore,
che sono testimonianza del miracolo,
soffrendo mi ingelosisco della tua piena bellezza,
e che non posso baciarti e con te non mi posso giacere,
e che non ho nulla, e che colui che è sprovvisto di doni
è costretto a cantare…

Ma non glielo hai detto, hai taciuto
e lei non ha udito quel canto…

Vladimír Holan 

(Traduzione di Angelo Maria Ripellino)

dalla raccolta “In progresso”, 1964, in “Vladimír Holan, Una notte con Amleto”, Einaudi, Torino, 1966

Visita – Ted Hughes

Wynn Bullock, Woman behind screen door, ca.1970 (particolare)

 

Lucas, il mio amico, uno
di quei tre o quattro che restano immutati
come un io separato,
pietra nel letto del fiume
sotto ogni mutamento, diventò tuo amico.
Lo seppi, messo in guardia. Consumavo
la giovinezza sulla sedia di un ufficio vicino a Slough,
mattina e sera tra Slough e Holborn,
accumulando la paga per finanziare un balzo verso la libertà
all’altro capo della terra − una caduta libera
per strapparmi di dosso la crisalide nella scia.
Nei fine settimana, recidivo, tornavo
all’Alma Mater. La mia ragazza
condivideva supervisore e incontri settimanali
con la tua rivale americana e con te.
Ti detestava. Alimentò di tue foto,
e non sapeva di quale celluloide
infiammabile, il mio silenzioso
e insaziabile futuro, la torcia interna
della mia ricerca a moscacieca. Con l’amico,
dopo mezzanotte, eccomi in un giardino,
a lanciar zolle a una finestra buia.

Lui, ubriaco, era sicuro che fosse la tua.
Io, ubriaco la metà, non sapevo che si sbagliava.
Né sapevo che stavo sostenendo l’audizione
per il ruolo di primo attore nel tuo dramma,
mimando i primi facili movimenti
come a occhi chiusi, cercando a tentoni il personaggio.
Come una marionetta azionata per prova,
o le zampe di una rana morta toccate dagli elettrodi.
Eseguivo quei gesti a scatti − osservato e giudicato
solo dall’oscurità stellata e da un’ombra.
A te ignoto e di te nulla sapendo.
Miravo a trovarti e mancavo il bersaglio e lo mancavo ancora.
Lanciavo terra contro un vetro che non poteva proteggerti
perché non eri lì.

Dieci anni dopo la tua morte
incontro su una pagina del tuo diario, come mai prima,
lo shock della tua gioia
quando ti fu detto. Poi lo shock
delle tue preghiere. E sotto le preghiere il panico
che le preghiere potessero non creare il miracolo,
poi, sotto il panico, l’incubo
che ti arrivava addosso per schiacciarti:
la tua alternativa − l’impensabile
antica disperazione e la nuova angoscia
che si fondevano in un unico ben noto inferno.

D’un tratto leggo tutto questo −
le tue parole, nell’atto di sgorgarti
dalla gola e dalla lingua e di posarsi sulla pagina −
proprio come quando tua figlia, anni fa ormai,
entrando piano e guardandomi fisso,
disorientata,
dove io lavoravo solo
nella casa silenziosa, chiese a un tratto:
«Papà, dov’è la mamma?». La terra gelata
del giardino, mentre la raspavo.
Tutt’intorno a me l’enorme orologio di gelo
di quella mezzanotte. E in un punto
al suo interno, desideroso di non sentire nulla,
un pulsare di febbre. In un punto
di quell’intorpidimento della terra
il nostro futuro che cercava di essere.
Alzo gli occhi − come per incontrare la tua voce
con tutto il suo incalzante futuro
che mi è esploso addosso. Poi torno a guardare
il libro delle parole stampate.
Sei morta da dieci anni. È solo una storia.
La tua storia. La mia storia.

Ted Hughes

(Traduzione di Anna Ravano)

da “Lettere di compleanno”, Mondadori, Milano, 1999

∗∗∗

Visit

Lucas, my friend, one
Among those three or four who stay unchanged
Like a separate self,
A stone in the bed of the river
Under every change, became your friend.
I heard of it, alerted. I was sitting
Youth away in an office near Slough,
Morning and evening between Slough and Holborn,
Hoarding wage to fund a leap to freedom
And the other side of the earth – a free-fall
To strip my chrysalis off me in the slipstream.
Weekends I recidived
Into Alma Mater. Girl-friend
Shared a supervisor and weekly session
With your American rival and you.
She detested you. She fed snapshots
Of you and she did not know what
Inflammable celluloid into my silent
Insatiable future, my blind-man’s-buff
Internal torch of search. With my friend,
After midnight, I stood in a garden
Lobbing soil-clods up at a dark window.

Drunk, he was certain it was yours.
Half as drunk, I did not know he was wrong.
Nor did I know I was being auditioned
For the male lead in your drama,
Miming through the first easy movements
As if with eyes closed, feeling for the role.
As if a puppet were being tried on its strings,
Or a dead frog’s legs touched by electrodes.
I jigged through those gestures – watched and judged
Only by starry darkness and a shadow.
Unknown to you and not knowing you.
Aiming to find you, and missing, and again missing.
Flinging earth at a glass that could not protect you
Because you were not there.

Ten years after your death
I meet on a page of your journal, as never before,
The shock of your joy
When you heard of that. Then the shock
Of your prayers. And under those prayers your panic
That prayers might not create the miracle,
Then, under the panic, the nightmare
That came rolling to crush you:
Your alternative – the unthinkable
Old despair and the new agony
Melting into one familiar hell.

Suddenly I read all this –
Your actual words, as they floated
Out through your throat and tongue and onto your page –
Just as when your daughter, years ago now,
Drifting in, gazing up into my face,
Mystified,
Where I worked alone
In the silent house, asked, suddenly:
‘Daddy, where’s Mummy?’ The freezing soil
Of the garden, as I clawed it.
All round me that midnight’s
Giant clock of frost. And somewhere
Inside it, wanting to feel nothing,
A pulse of fever. Somewhere
Inside that numbness of the earth
Our future trying to happen.
I look up – as if to meet your voice
With all its urgent future
That has burst in on me. Then look back
At the book of the printed words.
You are ten years dead. It is only a story.
Your story. My story.

Ted Hughes

da “Birthday Letters”, London: Faber and Faber, 1998

Poesia – Mark Strand

 

Si intrufola dalla porta di servizio,
di soppiatto oltrepassa la cucina,
il salotto, l’ingresso,
sale le scale ed entra
in camera. Si china
sul mio letto e dice che è venuto
a uccidermi. Il lavoro
lo svolgerà a stadi.

Prima verranno spuntate 
le unghie, poi le dita
dei piedi eccetera fino a che
nulla resti di me.
Stacca un minuscolo attrezzo
dal portachiavi, e attacca.
Sento Il lago dei cigni dallo stereo
di un vicino e canticchio.

Quanto tempo trascorra,
non so dire. Ma quando torno in me
lo sento dire che è arrivato al collo
e che non è in grado di continuare
perché è stanco. Gli dico
che ha fatto abbastanza,
che dovrebbe rincasare, riposare.
Mi ringrazia e se ne va.

Resto sempre stupefatto
come si accontenta facilmente
certa gente.

Mark Strand

(Traduzione di Damiano Abeni)

da “Dormendo con un occhio aperto”, 1964, in “Il futuro non è più quello di una volta”, minimum fax, Roma, 2006

∗∗∗

Poem

He sneaks in the back door,
tiptoes through the kitchen,
the living room, the hall,
climbs the stairs, and enters
the bedroom. He leans
over my bed and says he has come
to kill me. The job
will be done in stages.

First, my toenails
will be clipped, then my toes,
and so on until
nothing is left of me.
He takes a small instrument
from his keychain and begins.
I hear Swan Lake being played
on a neighbor’s hi-fi and start to hum.

How much time passes,
I cannot tell. But when I come to
I hear him say he has reached my neck
and will not be able to continue
because he is tired. I tell him
that he has done enough,
that he should go home and rest.
He thanks me and leaves.

It shall never cease to amaze me
how easily satisfied
some people are.

Mark Strand

da “Sleeping with One Eye Open” (1964), in “Collected Poems”, New York, Alfred A. Knopf/ Random House, 2014

A Pier Paolo Pasolini – Dario Bellezza

Foto di Dino Pedriali

 

M’aggiro fra ricatti e botte e licenzio
la mia anima mezza vuota e peccatrice
e la derelitta crocifissione mia sola
sa chi sono: spia e ricattatore
che odia i suoi simili. E non trovo
pace in questa sordida lotta
contro la mia rovina, il suo sfacelo.
Dio! Non attendo che la morte.
Ignoro il corso della Storia. So solo
la bestia che è in me e latra.

Dario Bellezza

da “Invettive e licenze”, Garzanti, 1971