Trovare la vena – Milo De Angelis

Foto di Jeanloup Sieff

 

Cresce l’ansia nei bicchieri
dal tuo turbine segreto alla luce
verde del reparto, ai corridoi,
al vetro sbarrato, all’addio
con le ciglia asciutte, questa morte
che non ha più tempo.

*

È follia di tutti, l’estate, traffico
di cantieri nella città lasciata. Ognuno
è lo stadio terminale, ognuno è l’estate, questa
estate vissuta in una sillaba, in un tremito
della sostanza, in una scala mobile,
in un filo di mani. Ognuno chiede dov’è
la vena, presto, la vena.

*

Nessuna gloria in excelsis, ma un groviglio
nervoso, un raschiare di suoni e occhi
fissi all’ingiù, quel niente
che tiene freddo il pensiero, quel tremito
di lampadine e aghi, qualcosa
che s’incarcera dove grida. Il viso
toccava già la sua terra, vedeva lo scorrere
pallido dei fenomeni
                                       oh dormi, dissi, dormi
eppure io ero con te
e tu non eri con me.

*

Poi ci fu l’esplorazione atterrita del tuo
seno, il rifiuto delle cose consegnate
al tempo, la richiesta di antiche
concordanze: ogni istante della mano
sulla pelle, ogni respiro, era quell’assoluto
fragile, quello scandalo
che una frazione imprime al tutto
e la tavolozza delle cellule si spargeva
sui vestiti, sulle lenzuola, sulle lampadine
e sul quaderno, sulle dita
di chi ha già varcato la sua immagine.

*

Sei un lontano passo di danza
mentre saluti tra i corridoi,
un ventaglio di grazia che il male
non ha ucciso, diagonale
tra i quattro cantoni, silenzio
di fate e di foglie, finché il giallo
si fa scuro, si fa minaccia nel cielo,
il sorriso fragile e la gola
resta lì, sospesa e selvaggia.

*

Un suono di ninna nanna chiama la morte
per sentirla più viva, chiama il seno
che si spezzò in un agosto, l’intero creato
di una poesia. In ogni stanza un appello.
L’ora non è paga di se stessa, domanda l’età vera,
un altro sangue che morbido si accese, una parola
una parola che fu intera assedia la testa,
fruga tra le macerie, fissa incredula
quella luce sovrumana.

*

Potenza del minuto contato, culmine
della sete nelle visite serali:
ogni parola era battuta dal vento, ogni
gesto sulle rive di un oceano, tutto
era immenso e smarrito tra i corridoi, tutto
cedeva di schianto, centimetro
in cui non si entra, preciso mistero
della febbre alta.

*

I battiti carnali si stringono a una doccia,
chiedono una tregua, una posizione
per il sangue, a strappi, a morsi, gli aghi
entrano in te che cerchi
di stare con le cose.
                                    Ci dev’essere un’alba
terrena, dicevi, un seme intatto,
una fiammella, un preludio che esce
dagli ospedali, suonato da una piccola mano,
una corona di spighe regalata al guaritore.

*

Come un fiore che non ha prodigio, come un passo
che si arresta nel suo globulo,
ossa che il male restringe, nodi
che strozzano l’anima, finché una creazione
comincia e le finestre di Roserio
cantano l’assoluto stretto a un momento
solo, a un’alba di tram e di ciminiere.
Non andartene, abisso, dal mio fianco.

*

Toccandoti la fronte sentivi il mare,
parlavi di un mattino aperto come in guerra
nel buio dell’ora smarrita parlavi
senza domani e senza libri, parlavi
alla presenza assoluta di una lacrima,
una rapida memoria di ulivi e di luce,
una gloria dell’uno e di ogni altro, ma
non si trova la via per la sorgente, ma
non si trova la vena, dio mio, non si trova.

Milo De Angelis

da “Tema dell’addio”, “Lo Specchio” Mondadori, 2005

«Creature di nebbia» – Nelly Sachs

Foto di Anja Buehrer

 

Creature di nebbia
andiamo di sogno in sogno
sprofondiamo attraverso mura di luce
dai sette colori –

Ma infine scoloriti, muti,
elemento di morte
nella conca cristallina dell’eternità
spogliati dalle ali notturne
di ogni mistero…

Nelly Sachs

(Traduzione di Ida Porena)

da “Le stelle si oscurano”, in “Al di là della polvere”, Einaudi, Torino, 1966

∗∗∗

«Wie Nebelwesen»

Wie Nebelwesen
gehen wir durch Träume und Träume
Mauern von siebenfarbigem Licht
durchsinken wir –

Aber endlich farblos, wortlos
des Todes Element
im Kristallbecken der Ewigkeit
abgestreift aller Geheimnisse Nachtflügel…

Nelly Sachs

da “Sternverdunkelung: Gedichte”, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1949

Gente sul ponte – Wisława Szymborska

 

Strano pianeta e strana la gente che lo abita.
Sottostanno al tempo, ma non vogliono accettarlo.
Hanno modi per esprimere la loro protesta.
Fanno quadretti, ad esempio questo:

A un primo sguardo nulla di particolare.
Si vede uno specchio d’acqua.
Si vede una delle sue sponde.
Si vede una barchetta che s’affatica.
Si vede un ponte sull’acqua e gente sul ponte.
La gente affretta visibilmente il passo
perché da una nuvola scura la pioggia
ha appena cominciato a scrosciare.

Il fatto è che poi non accade nulla.
La nuvola non muta colore né forma.
La pioggia né aumenta né smette.
La barchetta naviga immobile.
La gente sul ponte corre proprio
là dov’era un attimo prima.

È difficile esimersi qui da un commento.
Il quadretto non è affatto innocente.
Qui il tempo è stato fermato.
Non si è più tenuto conto delle sue leggi.
Lo si è privato dell’influsso sul corso degli eventi.
Lo si è ignorato e offeso.

A causa d’un ribelle,
un tale Hiroshige Utagawa
(un essere che del resto
da un pezzo, e come è giusto, è scomparso),
il tempo è inciampato e caduto.

Forse non è che una burla innocua,
uno scherzo della portata di solo qualche galassia,
tuttavia a ogni buon conto
aggiungiamo quanto segue:

Qui è bon ton
apprezzare molto questo quadretto,
ammirarlo e commuoversene da generazioni.

Per alcuni non basta neanche questo.
Sentono perfino il fruscio della pioggia,
sentono il freddo delle gocce sul collo e sul dorso,
guardano il ponte e la gente
come se là vedessero se stessi,
in quella stessa corsa che non finisce mai
per una strada senza fine, sempre da percorrere,
e credono nella loro arroganza
che sia davvero così.

Wisława Szymborska

(Traduzione di Pietro Marchesani)

da “Gente sul ponte”, Libri Scheiwiller, 1996

∗∗∗

Ludzie na moście

Dziwna planeta i dziwni na niej ci ludzie.
Ulegają czasowi, ale nie chcą go uznać.
Mają sposoby, żeby swój sprzeciw wyrazić.
Robią obrazki jak na przykład ten:

Nic szczególnego na pierwszy rzut oka.
Widać wodę.
Widać jeden z jej brzegów.
Widać czółno mozolnie płynące pod prąd.
Widać nad wodą most i widać ludzi na moście.
Ludzie wyraźnie przyspieszają kroku,
bo właśnie z ciemnej chmury
zaczął deszcz ostro zacinać.

Cała rzecz w tym, że nic nie dzieje się dalej.
Chmura nie zmienia barwy ani kształtu.
Deszcz ani się nie wzmaga, ani nie ustaje.
Czółno płynie bez ruchu.
Ludzie na moście biegną
ściśle tam, co przed chwilą.

Trudno tu obejść się bez komentarza:
To nie jest wcale obrazek niewinny.
Zatrzymano tu czas.
Przestano liczyć się z prawami jego.
Pozbawiono go wpływu na rozwój wypadków.
Zlekceważono go i znieważono.

Za sprawą buntownika,
jakiegoś Hiroshige Utagawy,
(istoty, która zresztą
dawno i jak należy minęła),
czas potknął się i upadł.

Może to tylko psota bez znaczenia,
wybryk na skalę paru zaledwie galaktyk,
na wszelki jednak wypadek
dodajmy, co następuje:

Bywa tu w dobrym tonie
wysoko sobie cenić ten obrazek,
zachwycać się nim i wzruszać od pokoleń.

Są tacy, którym i to nie wystarcza.
Słyszą nawet szum deszczu,
czują chłód kropel na karkach i plecach,
patrzą na most i ludzi,
jakby widzieli tam siebie,
w tym samym biegu nigdy nie dobiegającym
drogą bez końca, wiecznie do odbycia
i wierzą w swoim zuchwalstwie,
że tak jest rzeczywiście.

Wisława Szymborska

da “Ludzie na moście”, Czytelnik, Warszawa, 1986 

«Preferisco venire dal silenzio» – Valerio Magrelli

Foto di Gerard Laurenceau

 

Preferisco venire dal silenzio
per parlare. Preparare la parola
con cura, perché arrivi alla sua sponda
scivolando sommessa come una barca,
mentre la scia del pensiero
ne disegna la curva.
La scrittura è una morte serena:
il mondo diventato luminoso si allarga
e brucia per sempre un suo angolo.

Valerio Magrelli

da “Rima palpebralis”, in “Ora serrata retinae”, Feltrinelli, 1980

«Nella casa di fronte a me e ai miei sogni» – Fernando Pessoa

Florence Henri, Untitled, 1928–30

 

Nella casa di fronte a me e ai miei sogni,
che felicità c’è sempre!

Vi abitano persone sconosciute che ho già visto ma non ho visto.

Sono felici, perché loro non sono io.

I bambini, che giocano sugli alti terrazzini,
vivono tra vasi di fiori,
eternamente, senza dubbio.

Le voci che salgono dall’intimità domestica
cantano sempre, senza dubbio.
Sì, devono cantare.

Quando è festa qua fuori, è festa là dentro.
E così deve essere laddove tutto si adatta –
l’uomo alla Natura, perché la città è Natura.

Che grande felicità non essere io!

Ma non penseranno così anche gli altri?
Quali altri? Non ci sono altri.
Quanto pensano gli altri è una casa con la finestra chiusa,
o se si apre,
è perché i bambini possano giocare sul terrazzo inferriato,
tra i vasi di fiori che non ho mai visto quali fossero.

Gli altri non sentono mai.
Chi sente siamo noi,
sì, tutti noi,
perfino io, che ora non sento più nulla.

Nulla? Non so…
Un nulla che fa male…

Fernando Pessoa

16 giugno 1934

(Traduzione di Antonio Tabucchi)

da “Poesie di Álvaro de Campos”, Adelphi Edizioni, 1993

***

«Na casa defronte de mim e dos meus sonhos»

Na casa defronte de mim e dos meus sonhos,
Que felicidade há sempre!

Moram ali pessoas que desconheço, que já vi mas não vi.
São felizes, porque não são eu.

As crianças, que brincam às sacadas altas,
Vivem entre vasos de flores,
Sem dúvida, eternamente.

As vozes, que sobem do interior do doméstico,
Cantam sempre, sem dúvida.
Sim, devem cantar.

Quando há festa cá fora, há festa lá dentro.
Assim tem que ser onde tudo se ajusta —
O homem à Natureza, porque a cidade é Natureza.

Que grande felicidade não ser eu!

Mas os outros não sentirão assim também?
Quais outros? Não há outros.
O que os outros sentem é uma casa com a janela fechada,
Ou, quando se abre,
É para as crianças brincarem na varanda de grades,
Entre os vasos de flores que nunca vi quais eram.

Os outros nunca sentem.
Quem sente somos nós,
Sim, todos nós,
Até eu, que neste momento já não estou sentindo nada.

Nada? Não sei…
Um nada que dói…

Fernando Pessoa

da “Álvaro de Campos, Poesia”, Assírio & Alvim, Lisboa, 2002