«quanti ascensori ho già preso fin qui!» – Enrico Testa

Florence Henri, Composition – Autoportrait à l’ombre I, 1938

 

quanti ascensori ho già preso fin qui!
di alberghi condomini uffici musei
università biblioteche ospedali
ciascuno diverso dall’altro
per foggia arredo odore e colore:
déco, intarsiati e aperti
sul vano delle scale
o ermetici di metallo lucente,
rapidissimi su per l’erta di un grattacielo
o lenti e cigolanti nel casamento
di una Praga lontana e deserta.
Con la sensazione anche salendo
di muovermi invece verso il basso
in precipitante discesa.
E ogni volta uscendo voltarmi
per controllare se la mia ombra
mi seguisse fedele
oppure, riottosa, dentro rimanesse
adagiata sul quadrato del pavimento

Enrico Testa

da “Ablativo”, Einaudi, Torino, 2013

Sorrisi – Wisława Szymborska

 

Il mondo vuol vedere la speranza sul viso.
Per gli statisti diventa d’obbligo il sorriso.
Sorridere vuol dire non darsi allo sconforto.
Anche se il gioco è complesso, l’esito incerto,
gli interessi contrastanti – è sempre consolante
che la dentatura sia bianca e ben smagliante.

Devono mostrare una fronte rasserenata
sulla pista e nella sala delle conferenze.
Un’andatura svelta, un’espressione distesa.
Quello dà il benvenuto, quest’altro si accomiata.
È quanto mai necessario un volto sorridente
per gli obiettivi e tutta la gente lì in attesa.

La stomatologia in forza alla diplomazia
garantisce sempre un risultato impressionante.
Canini di buona volontà e incisivi lieti
non possono mancare quando l’aria è pesante.
I nostri tempi non sono ancora così allegri
perché sui visi traspaia la malinconia.

Un’umanità fraterna, dicono i sognatori,
trasformerà la terra nel paese del sorriso.
Ho qualche dubbio. Gli statisti, se fosse vero,
non dovrebbero sorridere il giorno intero.
Solo a volte: perché è primavera, tanti i fiori,
non c’è fretta alcuna, né tensione in viso.
Gli esseri umani sono tristi per natura.
È quanto mi aspetto, e non è poi così dura.

Wisława Szymborska

(Traduzone di Pietro Marchesani)

da “Grande numero”, Libri Scheiwiller, 2006

∗∗∗

Uśmiechy

Z większą nadzieją świat patrzy niż słucha.
Mężowie stanu muszą się uśmiechać.
Uśmiech oznacza, że nie tracą ducha.
Choć gra zawiła, interesy sprzeczne,
wynik niepewny − zawsze to pociecha,
gdy uzębienie białe i serdeczne.

Muszą życzliwe pokazywać czoło
na sali obrad i płycie lotniska.
Ruszać się żwawo, wyglądać wesoło.
Ów tego wita, ten owego żegna.
Twarz uśmiechnięta bardzo jest potrzebna
dla obiektywów i dla zbiegowiska.

Stomatologia w służbie dyplomacji
spektakularny gwarantuje skutek.
Kłów dobrej woli i siekaczy zgodnych
nie może braknąć w groźnej sytuacji.
Jeszcze nie mamy czasów tak pogodnych,
żeby na twarzach widniał zwykły smutek.

Ludzkość braterska, zdaniem marzycieli,
zamieni ziemię w krainę uśmiechu.
Wątpię. Mężowie stanu, dajmy na to,
uśmiechać by się tyle nie musieli.
Tylko czasami: że wiosna, że łato,
bez nerwowego skurczu i pośpiechu.
Istota ludzka smutna jest z natury.
Na taką czekam i cieszę się z góry.

Wisława Szymborska

da “Wielka liczba”, Czytelnik, 1976

Cuore di pietra – Dario Bellezza

Foto di Kaveh Hosseini

 

Scriverti è stare un po’ vicino
al tuo cuore di pietra, alla tua mano
velata di peccato e malinconia;
stringerla era nel letto delle fami
salvare dal naufragio la certezza
del domani, la fuga del mito
verso le isole greche. Ora, l’esilio
è sicuro, la paura di perderti
o vederti immensa come la Sfinge
apparsami in sogno, laboriosa
nel disfare i grani dell’incenso.

O voce umana tante volte sentita
il compiersi del misfatto terreno
sulle mie spalle segna il tempo
e lo spezza, non sentirmi solo
sembra una parvenza ormai svanita
nella leggenda del tuo nome
miracoloso. Svegliami, esulta
svegliati dal torpore mortale
dell’eroina, welcome eroina!
gradassa infernale prima di ogni
crema lenta e girata in casa
del mio rivale alla rampa Brancaleone.

Nessuno ascolta il mio richiamo
nella notte, cercarti mi spaventa
come fossi il privilegiato della sorte.
Non so andare incontro alla morte;
assurdo mi sembra che la vita
mi aspetti al di là delle porte infere
o paradisiache o vuote di tutto,
anche il nulla è mortale,
o la speranza brulla di indiarci.
Non ascoltare la mia sirena notturna:
il canto è spento, la luce non più accesa;
odio la mia vita che si riflette immota
in uno stagno putrido e senza fondo.
Tutto, banale, mi parla di te:
il Neurobiol che prendesti la sera
del nostro primo incontro
per disintossicarti inumano
mentre ti stringevi al mio corpo
sudato urlavi perfetto: «Salvami
o mai più ci rivedremo!» ma io
non sono stato capace di dedicarti
un’ora sola della mia vita; ignoro
se le telefonate anonime mi vengano
da te che spii la mia voce alterata
il pianto sommesso o gridato.

O allergia che m’insegnò il trapasso
abbandonato ai demoni che orrore la fuga
col demonio di nome Angelo, rubandomi
le ghinee consegnate, estorte
per darti la ragione della rottura.

Dario Bellezza

da “Libro di poesia”, Garzanti, 1990

«Ti ho amata sempre nel silenzio» – Michele Mari

Peter Demetz, Sul ponte 2, 2008

 

Ti ho amata sempre nel silenzio
contando sull’ingombro
di quell’amore
                           e di quel silenzio
ed anche quando poi ci siamo scritti
la profilassi guidava la mia mano
perché ogni senso
fosse soltanto negli spazi bianchi
e nondimeno mi sentivo osceno
come se la piú ermetica allusione
grondasse la bava del questuante

Mai in ogni caso dubitai
che tu sapessi
finché scoprimmo insieme
di esser vissuti trent’anni nell’errore
tu ignorando
                         io presumendo
e allora in un punto è stato chiaro
che solo al muto
il battito del cuore
è rimbombante

Michele Mari

da “Cento poesie d’amore a Ladyhawke”, Einaudi, Torino, 2007

L’ultima notte – Paul Éluard

David Turnley, Fearful Palestinian Girl, 1995

I

Questo piccolo mondo assassino
È puntato sull’innocente
Gli toglie il pane di bocca
E dà la sua casa alle fiamme
Gli prende le vesti e le scarpe
Gli prende il tempo e i figli

Questo piccolo mondo assassino
Confonde i morti coi vivi
Assolve il fango grazia i traditori
La parola trasforma in rumore

Grazie mezzanotte dodici fucili
All’innocente rendono la pace
E tocca sempre alle folle
Sotterrare quella sua carne
Sanguinosa e il suo cielo nero
E tocca alle folle comprendere
Quanto debole è chi assassina.

II

Il prodigio sarebbe una spinta leggera
Contro questa muraglia
Sarebbe di potere disperdere questa polvere
Sarebbe essere uniti.

III

Gli avevano scarnite vive le mani piegata la schiena
Gli avevano scavato un foro nel cervello
E per morire aveva dovuto patire
Tutta la vita.

IV

Bellezza creata per chi è felice
Bellezza corri pericolo grande

Queste tue mani in croce alle ginocchia
Sono gli ordigni d’un assassino

Questa tua bocca che canta spiegata
Serve di brocca al mendicante

E questa coppa di latte puro
Diventa il seno d’una puttana.

V

Nel rigagnolo i poveri raccoglievano il pane
Con lo sguardo coprivano la luce
Non c’era piú paura della notte
Tanto deboli quella debolezza
Li faceva sorridere
In fondo al loro buio si portavano i corpi
Si vedevano solo attraverso la miseria
Si scambiavano solo una lingua segreta
E udivo lentamente cautamente parlare
Di un’antica speranza grande come la mano

Udivo calcolare
Le dimensioni multiple della foglia d’autunno
La fusione dell’onda in mezzo al mare calmo
Udivo calcolare
Le dimensioni multiple della forza futura.

VI

Io sono nato dietro una facciata orrida
Ho mangiato ho riso ho sognato ho patito vergogna
Sono vissuto come un’ombra
Eppure il sole ho saputo cantarlo
Il sole intero quello che respira
In ogni petto in ogni occhio
La goccia di candore che brilla dopo il pianto.

VII

Noi buttiamo nel fuoco il sacco delle tenebre
Noi spezziamo i serrami di ruggine dell’ingiustizia
Ecco uomini vengono
Che non hanno piú paura di se stessi
Perché sono sicuri d’ogni uomo
Perché il nemico dal viso d’uomo sparisce.

Paul Éluard

1953

(Traduzione di Franco Fortini)

da “Poésie et vérité”, 1942, in “Paul Éluard, Poesie”, “I Supercoralli” Einaudi, 1955

∗∗∗

La dernière nuit

I

Ce petit monde meurtrier
Est orienté vers l’innocent
Lui ôte le pain de la bouche
Et donne sa maison au feu
Lui prend sa veste et ses souliers
Lui prend son temps et ses enfants

Ce petit monde meurtrier
Confond les morts et les vivants
Blanchit la boue gracie les traîtres
Transforme la parole en bruit

Merci minuit douze fusils
Rendent la paix à l’innocent
Et c’est aux foules d’enterrer
Sa chair sanglante et son ciel noir
Et c’est aux foules de comprendre
La faiblesse des meurtriers.

II

Le prodige serait une légère poussée contre le mur
Ce serait de pouvoir secouer cette poussière
Ce serait d’être unis.

III

Ils avaient mis à vif ses mains courbé son dos
Ils avaient creusé un trou dans sa tête
Et pour mourir il avait dû souffrir
Toute sa vie.

IV

Beauté créée pour les heureux
Beauté tu cours un grand danger

Ces mains croisées sur tes genoux
Sont les outils d’un assassin

Cette bouche chantant très haut
Sert de sébile au mendiant

Et cette coupe de lait pur
Devient le sein d’une putain.

V

Les pauvres ramassaient leur pain dans le ruisseau
Leur regard couvrait la lumière
Et ils n’avaient plus peur la nuit
Très faibles leur faiblesse les faisait sourire
Dans le fond de leur ombre ils emportaient leur corps
Ils ne se voyaient plus qu’à travers leur détresse
Ils ne se servaient plus que d’un langage intime
Et j’entendais parler doucement prudemment
D’un ancien espoir grand comme la main

J’entendais calculer
Les dimensions multipliées de la feuille d’automne
La fonte de la vague au sein de la mer calme
J’entendais calculer
Les dimensions multipliées de la force future.

VI

Je suis né derrière une façade affreuse
J’ai mangé j’ai ri j’ai rêvé j’ai eu honte
J’ai vécu comme une ombre
Et pourtant j’ai su chanter le soleil
Le soleil entier celui qui respire
Dans chaque poitrine et dans tous les yeux
La goutte de candeur qui luit après les larmes.

VII

Nous jetons le fagot des ténèbres au feu
Nous brisons les serrures rouillées de l’injustice
Des hommes vont venir qui n’ont plus peur d’eux-mêmes
Car ils sont sûrs de tous les hommes
Car l’ennemi à figure d’homme disparaît.

Paul Éluard

da “Poésie et vérité”, 1942, Neuchâtel, Edition de la Baconnière, Collection des Cahiers du Rhône, 1943