L’invetriata – Dino Campana

Dino Campana nel 1912

 

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – C’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è
Sempre una piaga rossa languente.

Dino Campana

da “Notturni”, in “Canti Orfici”, Marradi, Tipografia F. Ravagli, 1914

Canto d’amore – Rainer Maria Rilke

Arnold Genthe, Julia Marlowe, ca. 1911

 

   E come tratterrò l’anima mia,
perché la tua non sfiori?
Come la leverò verso altre sfere,
dove tu piú non sia?

   Oh, celarla vorrei presso qualcosa
che si smarrisse in buia solitudine,
in un angolo ignoto e silenzioso
che non vibrasse piú quando rivibrano
gli abissi tuoi!…

   Ma tutto ciò che appena ne disfiora,
ci prende insieme al pari dell’archetto
che da due corde trae solo una voce.

   Su qual strumento, ahimè, siamo noi tesi?
E chi lo regge e suona?… Oh melodia!

Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Vincenzo Errante)

dalle “Nuove Poesie”, in “Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941

***

Liebes – Lied

Wie soll ich meine Seele halten, daß
sie nicht an deine rührt? Wie soll ich sie
hinheben über dich zu andern Dingen?
Ach gerne möcht ich sie bei irgendwas
Verlorenem im Dunkel unterbringen
an einer fremden stillen Stelle, die
nicht weiterschwingt, wenn deine Tiefen schwingen.
Doch alles, was uns anrührt, dich und mich,
nimmt uns zusammen wie ein Bogenstrich,
der aus zwei Saiten eine Stimme zieht.
Auf welches Instrument sind wir gespannt?
Und welcher Spieler hat uns in der Hand?
O süßes Lied.

Rainer Maria Rilke

da “­Neue Gedichte”, Insel-Verlag, Leipzig, 1907

Dopo la pioggia – Lars Gustafsson

Josef Hoflehner, Chestnut Trees, France

 

Il cielo della pioggia estiva come una radiografia
dove luci e vaghe ombre s’intravedono.
Il bosco silenzioso e neanche un uccello.
Il tuo occhio come una goccia versata sotto le nuvole
ha il riflesso del mondo: luci e ombre vaghe.
E all’improvviso tu vedi chi sei veramente:
estraneo confuso tra l’anima e le nuvole.
Dalla sola sottile membrana di un’immagine
il profondo universo e la tenebra dell’occhio sono scissi.

Lars Gustafsson

(Traduzione di Maria Cristina Lombardi)

da “Sulla ricchezza dei mondi abitati”, Crocetti Editore, 2010

∗∗∗

Efter regn

Sommarregnets himmel som en röntgenplåt
där ljus och vaga skuggor skymtar.
Skogen tyst och inte ens en fågel.
Ditt eget öga som en utspilld droppe under molnen,
med speglingen av världen: ljus och vaga skuggor.
Och plötsligt ser du vem du är:
förvirrad främling mellan själ och molnen,
blott av den tunna hinnan av en bild
hålls världens djup och ögats mörker skilda.

Lars Gustafsson

da “Ballongfararna”, Norstedt, 1962 

«Ora che il mio destino si rischiara» – Dario Bellezza

Foto di Édouard Boubat

 

Ora che il mio destino si rischiara
non posso fare a meno di pensare a te
lacrima eterna del mio pianto.

Intenso o soffocato il tuo amore
è l’unico suono del tempo involato
che m’incanta.

L’immagine cara che non tradisce
rimane intatta; sei vicino a me, ti tocco
ti bacio la bocca, gli occhi allegri o mesti,
tutta tutta la svaporata essenza
mi risveglia, accorre verso il punto
che s’estingue nel lagno delle stagioni
che richiamo alla carezza.

Dario Bellezza

da “Libro d’Amore”, Guanda, 1982

Le porte dell’arsenale – Czesław Miłosz

Foto di Rodney Smith

 

Teneri animali fedeli, tacendo, calmi
spiavano le terre dei parchi, socchiudendo
i loro occhi d’olivo. Le statue raccoglievano
sul capo foglie di castagni e con il rotolo
in pietra di leggi da tempo passate o i resti
di una spada andavano, coperte dall’alloro
di nuovi autunni, sull’acqua, là dove nuotava
una barchetta di carta. Da sotto la terra
cresceva una luce, un freddo bagliore traluceva
dal mantello striato dei guardinghi animali
giacenti, dalle cantine degli edifici
chiazzati dalla schiuma del giorno, e si scorgevano
le ali degli alberi volare nel fumo.

Fiamma, o fiamma, immense musiche risuonano,
un moto eterno turba i boschi, con le mani
legate, a cavallo, su affusti, sotto un turbine
immobile, soffiando in muti flauti, girano
i viaggiatori, incrociandosi in cerchio, a vicenda
mostrandosi le labbra saldate dal gelo,
storte nel richiamo, o i sopraccigli sdruciti
della saggezza, o le dita in cerca di cibo
nel petto spogliato di nastri, ordini, cordoni.

Un brusìo tempestoso, un fragor d’onda, un frusciare
di pianoforti si leva dal baratro. Là forse
gruppi di betulle suonano piccole nubi,
o greggi di capre tuffano le bianche barbe
nel dolce vaso di una verde forra, o gli argini
rispondono ai ruscelli delle valli arate
e avanzano i carri pieni con la sera a fianco,
finiscono di ardere le stoppie insieme
al riso della gente, al trapestìo dei passi?

O giardini sonnambuli, regni di profondi
sogni, benignamente accoglietela, viene
dal mondo in cui cresce tutta la beltà che vive.
Così, come non fosse cosa caduca, un pugno
di cenere, per quanto breve dura
il sole nel suo volo, voi prendetela,
che mai non debba chiamare a sé l’amore.

Avanza nei viali bluastri, lontananti, dentro
il brillante corteo, non conoscendo il fondo
dei nebbiosi giardini, una donna giovane
facendosi schermo agli occhi con la mano.
Gli animali distolgono i musi dal prato
e il barbuto custode trotta su un cavallino
storto, tendendo l’arco con la freccia d’oro.

Stormisce una bufera sotto i piedi che avanzano
nel falso silenzio e una nuvola di capelli
castani spiove dalla fronte levata, piccolo
pianeta. Argento stilla dalle labbra,
la paura spegne il rossore, ansima inquieto
il petto rappreso in due gocce di ghiaccio, un lampo
scocca. Per la luce, tutto ciò che è vivo muore.

Cadono le vesti incenerite, arde il cespo
della peluria e nudo il ventre apparirà
come un cerchio d’ottone, le agili cosce
più non reggeranno i sogni, nude e pure
fumeranno come rossicce Pompei.

E se nascerà un bimbo da questo sangue slavo,
occhi d’albugine, rotolerà dai gradini
giù con la testa greve, a quattro zampe nell’aria
dormirà giorno e notte come un cavallo morto
sopra la corta erba dei pascoli bruciati.

Riti e ghirlande su lei s’intrecceranno,
la sera le porrà sulla fronte spine d’ombra
e la mano che sparge semi agli angeli gobbi
darà un riposo eterno a tutte le bufere.

Facendo girare cerchi gialli e portando
navi cariche d’un esercito di soldati
di latta, venivano ragazzi dalle piazze,
una pioggerella fresca cadeva e cantava
un uccello, una piccola nuvola entrava
lentamente nella luna divisa in due.
Con occhi umidi cavalieri guardavano
dritti nel tramonto. E c’erano rincorse
di cani sulle aiole. Sopra scale dorate
sedevano gli amanti. Sulla terra un silenzio,
un’orchestra tuffata alle porte del crepuscolo
ammutoliva nella lunga via e sulle siepi
le mimose gelavano chinandosi alla notte.

Czesław Miłosz

Parigi, 1934

(Traduzione di Valeria Rosselli)

da “Tre inverni”, in “Czesław Miłosz, La fodera del mondo”, Fondazione Piazzolla, Roma, 1966

***

Bramy arsenału

Czułe zwierzęta wierne, milcząc, ze spokojem
obszar parków śledziły, mrużąc lekko szpary
swoich oliwnych oczu. Posągi zbierały
liść kasztanów na głowy i z kamiennym zwojem
praw dawno przeminionych albo śladem miecza
szły, oblepione nowych jesieni wawrzynem
nad wodę, gdzie okręcik papierowy płynął.
Spod ziemi rosło światło, zimny blask przeświecał
przez sierść czujnie leżących zwierząt pręgowaną,
przez piwnice budowli zbryzganych dnia pianą,
i widać było skrzydła drzew, lecące w dymie.

Płomieniu, o płomieniu, muzyki olbrzymie
rozlegają się, wieczny ruch zamąca gaje,
z rękami związanemi, konno, na lawetach,
pod nieruchomym wichrem, to na niemych fletach
dmący, krążą podróżni, mijając się kołem,
ukazując nawzajem usta mrozem skute,
wykrzywione w wołaniu, albo brwi rozprute
mądrością, albo palce szukające żeru
w piersi odartej z wstążek, sznurów i orderów.

Szum burzliwy, huk fali, fortepianów wianie
odzywa się z przepaści. Tam, czy stada brzóz
dzwonią w drobne obłoczki, czy gromady kóz
biaie brody nurzają w pieszczotliwym dzbanie
zielonego wąwozu, czy może zastawy
grają strumieniom doJin pogodnej orawy
i jadą pełne wozy, wieczór mając z boku,
a dogasają rżyska, śmiech Judzi, chrzęst kroków?

Ogrody lunatyczne, snów głuchych mocarstwa,
z sercem dobrem przyjmijcie tę, która przychodzi
ze świata, gdzie wyrasta wszelka piękność żywa.
Jakby nie była mama, zebranego garstka
popiołu, na niedługie, jak lot słońca trwanie,
weźcie ją, niech miłości nigdy nie przyzywa.

W siną dalekość alej, w połyski pochodów
dąży, nie znając głębi zamglonych ogrodów,
młoda kobieta, oczy przesłaniając ręką.
Zwierzęta obracają pyski znad trawników
i brodacz stróż kłusuje na krzywym koniku,
na złotej strzale niosąc cięciwę napiętą.

Żwir pod stopą, w fałszywej stąpającą ciszy,
szeleści i kłąb włosów kasztanowych spływa
z czoła podniesionego jak mała planeta.
Srebro sączy się w usta, lęk rumieńce ściera,
pierś stężała w dwa sople niespokojnie dyszy,
blask tnie. Od światła wszystko, co żywe, umiera.

Suknie spadną zetlałe, krzak włosów zgoreje
i brzuch goły odsłoni jak koło z mosiądzu,
uda ruchliwe odtąd marzeniem nie rządzą,
nagie i czyste dymią jak rude Pompeje.

A jeśli dziecko zrodzi się z tej krwi słowiańskiej,
patrząc bielmem, łbem ciężkim na stopnie potoczy
i z czworgiem łap w powietrzu w dzień będzie i w nocy
spać jak koń martwy w runi wypalonych pastwisk.

Korowody i wieńce zaplotą się na niej,
wieczór ciernie cieniste położy na czoło,
i takie będzie wieczne burz odpoczywanie,
z ręką, sypiącą ziarno garbatym aniołom.

Tocząc żółte obręcze, żaglowe okręty
naładowane wojskiem blaszanych żołnierzy
niosąc, szli chłopcy z placów, deszczyk padał świeży
i śpiewał ptak, a chmurką na dwoje przecięty
księżyc wschodził powoli. Oczami mokremi
jeźdźcy patrzyli prosto na zachód. Psów rody
goniły się na klombach. Nad złotawe schody
siadali zakochani. Spokój był na ziemi,
tylko orkiestra, w zmierzchu zanurzona wrota
milkła w długiej ulicy, i na żywopłotach
stygły krzaki mimozy kłaniając się nocy.

Czesław Miłosz

Paryż, 1934

da “Trzy zimy”, Warszawa-Wilno: Związek Zawodowy, Literatów Polskich, 1936