Poeta in nero – Vittorio Sereni

Vittorio Sereni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nera cintura stivaletti neri
nero il cappelluccio a cencio
tutto bardato di nero se ne sta
ritto sullo sgabello inalbera
un cartello con la scritta: Ich bin
stolz ein Dichter zu sein
muovendo la labbra appena.
Sono fiero di essere un poeta.
Ma perché tanto nero?
gli domando con gli occhi.
Vesto il lutto per voi
da dietro vetri neri
con gli occhi mi risponde.

Vittorio Sereni

da “Stella variabile”, Garzanti, 1981

Les globes – Paul Celan

Paul Celan

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dentro gli occhi smarriti – leggi:

le orbite astrali, e del cuore, il bel
vorticoso Invano.
Le morti e tutto ciò
che ne venne. Delle generazioni
la catena, che
qui giace sepolta
e qui ancora pende, nell’etere,
sfiorando abissi. Di tutti
i volti la scrittura, in cui
si conficcò, sabbia sibilante, la parola – infime
eternità, sillabe.

Tutto
ebbe ali, anche
ciò che più pesa, nulla
che trattenesse.

Paul Celan

(Traduzione di Giuseppe Bevilacqua)

da “La rosa di nessuno”, in “Paul Celan, Poesie”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

∗∗∗

Les globes

In den verfahrenen Augen – lies da:

die Sonnen-, die Herzbahnen, das
sausend-schöne Umsonst.
Die Tode und alles
aus ihnen Geborene. Die
Geschlechterkette,
die hier bestattet liegt und
die hier noch hängt, im Äther,
Abgründe säumend. Aller
Gesichter Schrift, in die sich
schwirrender Wortsand gebohrt—Kleinewiges,
Silben.

Alles,
das Schwerste noch, war
flügge, nichts
hielt zurück.

Paul Celan

da “Die Niemandsrose”, S. Fischer Verlag, 1963

Treni sotterranei – Adam Zagajewski

Adam Zagajewski

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ci sono quadri che mostrano la sofferenza
e la fiammella di una candela; ci sono uomini infelici,
che cercano invano consolazione
come un postino arrancante nella tormenta,

c’è la musica che cresce nella giungla del silenzio,
ci sono i carnefici, ci sono strade tenebrose,
finestre cieche,
giorni che sembrano la festa della crudeltà.

Ci sono coloro che piangono senza speranza
in una soffocante sala d’attesa,
ci sono treni sotterranei, pesanti accuse,
c’è anche l’ordinaria noia delle conversazioni
sullo sport,

e il terrore delle lunghe sere, e gli urli degli ubriachi –
e capitano gli attimi di rivelazione,
quando fieramente sfavillano i fiori dei castani

e con insicurezza procedono fra le erbe
tordi giovinetti frastornati
dal fuoco eracliteo del giardino di maggio.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Marco Bruno)

dalla rivista “Poesia”, Anno XXX, Novembre 2017, N. 331, Crocetti Editore

∗∗∗

Podziemne pociągi

Są obrazy, które pokazują cierpienie
i płomyk świecy; są ludzie nieszczęśliwi,
na próżno szukający pocieszenia
jak listonosz brnący w śnieżnej zawiei,

jest muzyka rosnąca w dżungli milczenia,
są oprawcy, są mroczne ulice, ślepe okna,
dni, które wydają się świętem okrucieństwa.

Są ci co płaczą bez nadziei w ciasnej poczekalni,
są podziemne pociągi, ciężkie oskarżenia,
jest także zwyczajna nuda rozmów o sporcie,

i terror długich wieczorów, i krzyki pijaków –
i zdarzają się chwile objawienia,
kiedy dumnie błyszczą kwiaty kasztanów

i niepewnie idą wśród traw
młodziutkie drozdy oszołomione
heraklitejskim ogniem majowego ogrodu.

Adam Zagajewski

da “Asymetria”, A5 K. Krynicka, 2014

Stanze della funicolare – Giorgio Caproni

Giorgio Caproni

 

 

 

 

 

 

 

 
                                        1.
                               Interludio 

     E intanto ho conosciuto l’Erebo
– l’inverno in una latteria.
Ho conosciuto la mia
Prosèrpina, che nella scialba
veste lavava all’alba
i nuvolosi bicchieri.

     Ho conosciuto neri
tavoli – anime in fretta
posare la bicicletta
allo stipite, e entrare
a perdersi fra i vapori.
E ho conosciuto rossori
indicibili – mani
di gelo sulla segatura
rancida, e senza figura
nel fumo la ragazza
che aspetta con la sua tazza
vuota la mia paura.

∗∗∗

                                2.  
                            Versi

       Una funicolare dove porta,
amici, nella notte? Le pareti
preme una lampada elettrica morta
nei vapori dei fiati – premon cheti
rombi velati di polvere e d’olio
lo scorrevole cavo. E come vibra,
come profondamente vibra ai vetri
anneriti dal tunnel, quella pigra
corda inflessibile che via trascina
de profundis gli utenti e li ha in balía
nei sobbalzi di feltro! È una banchina
bianca, o la tomba, che su in galleria
ora tenue traluce mentre odora
già l’aria d’alba? È l’aperto, ed è là
che procede la corda – non è l’ora
questa, nel buio, di chiedere l’alt.

     È all’improvviso una brezza che apre,
allo sbocco del tunnel, con le spine
delle sue luci acide le enfiate,
fragili vene piú lievi di trine
sanguigne e di capelli dentro gli occhi
d’improvviso feriti – è d’improvviso
l’alba che sa di rifresco dai cocci
e dai rifiuti gelidi, e sul viso
scopre pei finestrini umidi un’urbe
cui i marciapiedi deserti già i primi
fragori di carrette urgono. A turbe
s’urgono gli spazzini cui gli orecchi
ha arrossato una sveglia urlando l’ora
nel profondo del sangue, neppur qua
può aver tregua la corda – non è l’ora
questa, nel caos, di chiedere l’alt.

      E lentamente, in un brivido, l’arca,
di detrito in detrito, entro la lieve
nausea s’inoltra – oscillando defalca
i mercati di pesce e d’erbe, e il piede
via sospinge di felpa oltre le bianche
rocce del giorno. E laddove un colore
di febbre la trascorre sulle panche
ancora intorpidite, a un tratto al sole
ahi quale orchestra frange fresca il mare
col suo respiro di plettri! Col rame
d’un primo melodioso tram nel sale
di cui l’etere vibra, fra il sartiame
d’un porto ancora tenero un’aurora
ecco di mandolini entro cui già
ronza chiusa altra spinta – ecco un’altr’ora
in cui impossibile è chiedere l’alt.

      E via per scogli freschissimi ed aria,
nella tremula Genova, l’antico
legname della barca a fune in aria
nero travalica i ponti – l’intrico
scande d’obliqui deviamenti, e giunge
per terrazze a conoscere l’aperta
trasparenza del giorno. Ove se punge
umido ancora l’occhio una piú certa
scoscesa di cristalli e ardesie, a vela
guai se spinge l’utente oltre il dosato
passo del cavo l’incanto! Si vela
il vetro al vaporoso grido, e il fiato
in nebula condensa la parola
che in nomi vani appanna l’aria – la
cristallina presenza entro cui l’ora
giusta è sfuggita di chiedere l’alt.

      L’ora che accendono bianche le tende
agitate alla prima brezza, e al mare
reca ragazze il cui sciame discende
fresco le scalinate – arde di chiare
maglie la lana e l’acuta profluvie
di capelli e di risa, e gli arrossati
calcagni acri nei sandali tra esuvie
di conchiglie ristora e vetri. I lati
vibrano della muta arpa che inclina
unicorde a altre balze, ma già un Righi
rosso da un’altra Genova la cima
tira inflessibile al cavo – dai gridi
l’arca e dalle persiane verdi l’ora
stacca come un sospiro, oltre cui sta
di specchiere freschissima la sola
stanza ove lieve era chiedere l’alt.
E la mano, chi muove ora? chi accende
la mano corallina che saluta
trasparente di sangue, ora che intende
di soprassalto la barca la cupa
mazza di mezzogiorno sul bandone
ondulato che rulla? A un’Oregina
grigia di casamenti ove il furgone
duro s’inerpica, ahimè se una prima
nube la copre mentre una sassata
fa in frantumi quel sangue – mentre oscura
l’ombra del carro la frigida erbata
fra il pietrisco e i bucati, e a lungo d’una
guerra ch’è esplosa a squarciagola, scola
come a grandine un tetto! Forse è qua
che si teme l’arresto? o forse è l’ora
fra i panni scialbi di chiedere l’alt?

      Forse qui è l’urto… Ma no! allo Zerbino
alto sopra le carceri, nel grigio
fiato di tramontana ora un bambino
corre ancora di piume – porta il viso
ad un palmo dai vetri, e se scompare
nel colpo che di tenebra riannera
l’aria, fra le rovine d’aria appare
dei genovesi in raduno la nera
mutria – la gara a bocce che il fragore
ai lentissimi passi placa, e in rima
i colpi delle bocce col nitore
entro l’arca di colpe chiude. Inclina
l’arca a quel peso di buio, ma ancora
non l’arresta il suo cavo – via la fa
scivolare in silenzio verso altr’ora
d’un piú probabile labile alt.

     E i fanali… Che sera è mai accaduta?
quale notte prelude? Una sterrata
zona, scintilla di cocci e di muta
luna, ch’ora un silenzio copre e aerata
luce di pioggia promessa. La prua
volge l’arca a Staglieno, e se la mano
porta l’utente alla bocca, la sua
fronte è spruzzata a un tratto da un lontano
sciame di gocce gelide che al cuore
l’abbandono impediscono. Giú i vetri
tira, ma ormai una musica incolore
altri vetri infittisce – rada stria
di lucori la notte, e all’inodora
promessa sorvolando muta, la
cheta barca procede verso altr’ora
forse piú giusta di chiedere l’alt.

      E intanto, quale fresca pioggia cade,
notturna, sulla buia funivia
che lentissima scivola e pervade
di silenzio la zona? Mentre via,
via essa ascende vibrando sottile
nella tenebra dolce, da una loggia
che una nebula sciacqua, altra sottile
acqua d’argento s’accende – è una pioggia
piú fresca del respiro che dal mare
all’utente apre il petto, ora ch’ei tocca
timido il fildirame cui trasale
lontanissimo un timpano. La bocca
apre stupita a quel trillo, ma ancora
sulle lastre lavate la città
dal profondo altre voci porge – altr’ora
in cui il nikelio non può segnar l’alt.

      E la funicolare dolce dove
sale, bagnata e celeste, nell’urna
della città di mare umida? dove,
col suo cavo, oliatissima e notturna,
altri scogli raggiunge e una sfilata
di ragazze in amore? A marinai
porgono, andando, la spalla spruzzata
sulle selci ove cantano – ove mai
cadde minuta una pioggia piú fresca
sul tepore degli aliti. E sul mare
che ancora tenerissimo rinfresca
col suo lume la notte, ahi se compare
fra le nubi una luna di cui odora
come un pesce la pietra!… Perché qua
non s’arresta la corda? perché l’ora
neppure in sogno è di chiedere l’alt?

       Oh, una brezza ha potenza, e via trascina,
con il cavo inflessibile, anche il suono
di quei sandali freschi e della prima
voce che si alza sulle altre. E nel tuono
bianco che il mare fa sulla banchina
superata dall’arca, in un lucore
nuovo una nebbia l’appanna – è la prima
luce d’un’alba che non ha calore
di figure e di suoni, e verso cui
l’arca silenziosissima sospira
la sua ultima meta. Ma nei bui
bar lungomare, ohimé la lampadina
che a carbone s’accende per la sola
donna che lava in terra – che già sa
fra i bicchieri del latte ove sia l’ora
in cui l’utente può chiedere l’alt!

     Perché è nebbia, e la nebbia è nebbia, e il latte
nei bicchieri è ancor nebbia, e nebbia ha
nella cornea la donna che in ciabatte
lava la soglia di quei magri bar
dove in Erebo è il passo. E, Proserpína
o una scialba ragazza, mentre sciacqua
i nebbiosi bicchieri, la mattina
è lei che apre alla nebbia che acqua
(solo acqua di nebbia) ha nella nebbia
molle del sole in cui vana scompare
l’arca alla vista. La copre la nebbia
vuota dell’alba, e la funicolare
già lontana ed insipida, scolora
nella nebbia di latte ove si sfa
l’ultima voglia di chiedere l’ora
fra quel lenzuolo di chiedere l’alt.

1947-50.

∗∗∗

                      Sirena

    La mia città dagli amori in salita,
Genova mia di mare tutta scale
e, su dal porto, risucchi di vita
viva fino a raggiungere il crinale
di lamiera dei tetti, ora con quale
spinta nel petto, qui dove è finita
in piombo la parola, iodio e sale
rivibra sulla punta delle dita
che sui tasti mi dolgono?… Oh il carbone
a Di Negro celeste! oh la sirena
marittima, la notte quando appena
l’occhio s’è chiuso, e nel cuore la pena
del futuro s’è aperta col bandone
scosso di soprassalto da un portone!

195…

Giorgio Caproni

da “Il passaggio d’Enea” (1943- 1955), in “Giorgio Caproni, L’opera in versi”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

Il tappeto volante – Piero Bigongiari

Dipinto di Nicolò Bambini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono andato dicendo che non tutto
è perduto per trovare il coraggio
di non riconoscerlo.

Ma che cosa
si perde infine quando tutto, tutto
deve passare per la cruna in cui
il conosciuto si fa sconosciuto
mentre il filo diviene una trama,
il luogo un labirinto, e chi ama
ha lasciato fuori la tessitrice
e l’istrice cammina accanto al santo?

Il costrutto non può preventivare
il progetto, il frutto devi amarlo
quando brilla nell’aria inaspettato.
Se una durata diviene un tessuto,
su quel tappeto proverò a volare
come un mago orientale.

Ho camminato
anche troppo tra cose consuete.
Anche la sete forse non è più
quella che ti toglievi alla giumella
delle mani congiunte. So, la stella
non è quella che brilla in fondo al pozzo.
Occorre alzare gli occhi dall’abisso
occhiuto che ti guarda. Quale ciarla
il secolo ha proposto al proprio muto
interrogarsi! Fissa l’invisibile
parete se tu vuoi oltrepassarla.

Anche l’amore mostra il proprio refe
ma è diverso dal filo che un’Arianna
ti porse. Il labirinto fu tessuto
da chi ne volò via con poca cera
e poche penne. Ne sei tu l’intrico
da lasciare se lasci anche te stesso
e ti trovi sulla riva del mare
dove lo sconosciuto sta arrivando:
è l’altro in te, sei tu nell’altro: è
il tarlo che ha finito di bucare
la caverna. Lascia la luce ondare
sull’onda. Sii la luce, non la sponda.
Pósati dove essa sottrae all’ombra
quell’infinito dire altro del mare,
l’infinito confondersi in se stesso
dell’altro mentre appare, onda di sguardo
che scompare nel tuo stesso ritardo.

Làsciati andare a chi non ti trattiene.
Il discorso si spezza a mezzo, il
singhiozzo è ora quello del gabbiano.
(A Dover il suo pianto era quasi
umano nella notte che passai
cosmica a un passo dalle sue scogliere).
La mano struscia sulla roccia calda
la volontà che aveva di indicare
nel silenzio l’aprirsi della valva
e il suo chiudersi, quel suo respirare
di mitilo nella luce dell’alba.

Piero Bigongiari

(7 febbraio – 3 dicembre 1990)

da “La legge e la leggenda” (1986-1991), “Saggi e testi” Mondadori, 1992