«Le ragazze, quelle che camminano» – Velimir Chlébnikov

Mimmo Jodice, Elena, 1966

 

Le ragazze, quelle che camminano
con stivali di occhi neri
sui fiori del mio cuore.
Le ragazze, che abbassano le lance
sui laghi delle proprie ciglia.
Le ragazze che lavano le gambe
nel lago delle mie parole.

Velimir Chlébnikov

(Traduzione di Angelo Maria Ripellino)

1919-21.

da “Poesie di Chlébnikov”, Einaudi, Torino, 1968

Si confronti il frammento con le seguenti parole del profeta Zangezi:
E voi fanciulle dagli occhi stivali,
che con gli unti stivali delle notti
camminate sul cielo del mio canto,
scagliate le monete dei vostri occhi,
sulle grandi strade seminandole!
Strappate il pungiglione delle vipere
dalle vostre trecce sibilanti! (III, 343).

∗∗∗

«Девушки, те, что шагают»

Девушки, те, что шагают
Сапогами черных глаз
По цветам моего сердца.
Девушки, опустившие копья
На озера своих ресниц.
Девушки, моющие ноги
В озере моих слов.

Велимир Хлебников

da “Sobranie proizvedenij”, a cura di Jurij Tynjanov e Nikolàj Stepànov, Leningrado, 1928-1933, (V, 74-75)

Primi incontri – Arseny Alexandrovich Tarkovsky

 

Ogni istante dei nostri incontri
lo festeggiavamo come un’epifania,
soli a questo mondo. Tu eri
più ardita e lieve di un’ala di uccello,
scendevi come una vertigine
saltando gli scalini, e mi conducevi
oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti
al di là dello specchio.
Quando giunse la notte mi fu fatta
la grazia, le porte dell’iconostasi
furono aperte, e nell’oscurità in cui luceva
e lenta si chinava la nudità
nel destarmi: “Tu sia benedetta”,
dissi, conscio di quanto irriverente fosse
la mia benedizione: tu dormivi,
e il lillà si tendeva dal tavolo
a sfiorarti con l’azzurro della galassia le palpebre,
e sfiorate dall’azzurro le palpebre
stavano quiete, e la mano era calda.

Nel cristallo pulsavano i fiumi,
fumigavano i monti, rilucevano i mari,
mentre assopita sul trono
tenevi in mano la sfera di cristallo,
e – Dio mio! – tu eri mia.

Ti destasti e cangiasti
il vocabolario quotidiano degli umani,
e i discorsi s’empirono veramente
di senso, e la parola tua svelò
il proprio nuovo significato: zar.

Alla luce tutto si trasfigurò, perfino
gli oggetti più semplici – il catino, la brocca – quando,
come a guardia, stava tra noi
l’acqua ghiacciata, a strati.

Fummo condotti chissà dove.
Si aprivano al nostro sguardo, come miraggi,
città sorte per incantesimo,
la menta si stendeva da sé sotto i piedi,
e gli uccelli c’erano compagni di strada,
e i pesci risalivano il fiume,
e il cielo si schiudeva al nostro sguardo…

Quando il destino ci seguiva passo a passo,
come un pazzo con il rasoio in mano.

Arseny Alexandrovich Tarkovsky

(Traduzione di Gario Zappi)

da “Poesie scelte”, Libri Scheiwiller, Milano, 1989

∗∗∗

Первые свидания

Свиданий наших каждое мгновенье
Мы праздновали, как богоявленье,
Одни на целом свете. Ты была
Смелей и легче птичьего крыла,
По лестнице, как головокруженье,
Через ступень сбегала и вела
Сквозь влажную сирень в свои владенья
С той стороны зеркального стекла.

Когда настала ночь, была мне милость
Дарована, алтарные врата
Отворены, и в темноте светилась
И медленно клонилась нагота,
И, просыпаясь: “Будь благословенна!” –
Я говорил и знал, что дерзновенно
Мое благословенье: ты спала,
И тронуть веки синевой вселенной
К тебе сирень тянулась со стола,
И синевою тронутые веки
Спокойны были, и рука тепла.

А в хрустале пульсировали реки,
Дымились горы, брезжили моря,
И ты держала сферу на ладони
Хрустальную, и ты спала на троне,
И – боже правый! – ты была моя.
Ты пробудилась и преобразила
Вседневный человеческий словарь,
И речь по горло полнозвучной силой
Наполнилась, и слово ты раскрыло
Свой новый смысл и означало: царь.

На свете все преобразилось, даже
Простые вещи – таз, кувшин,- когда
Стояла между нами, как на страже,
Слоистая и твердая вода.

Нас повело неведомо куда.
Пред нами расступались, как миражи,
Построенные чудом города,
Сама ложилась мята нам под ноги,
И птицам с нами было по дороге,
И рыбы подымались по реке,
И небо развернулось пред глазами…

Когда судьба по следу шла за нами,
Как сумасшедший с бритвою в руке.

Арсений Александрович Тарковский

1962

A D. – Mario Benedetti

Foto di Anka Zhuravleva

 

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.

Mario Benedetti

da “Umana gloria”, “Lo Specchio” Mondadori, 2004

«So che cosa volevo» – Elena Andreevna Švarc

Elena Švarc alla fine degli anni ’60, photo by N. Koroleva

 

So che cosa volevo,
Adesso non lo voglio piú
Volevo il supplizio e la fama
E finire nelle mani del boia.
Per bruciare i miei poveri giorni
Con questo sigillo corrosivo,
La fine illuminerebbe l’inizio,
E si ricoprirebbero di un senso.
Ma la vita è sfuggita come un topolino,
In essa non c’è tempo neanche per volere,
Ma nella prossima vita voglio
Sbocciare come papavero soporifero.
In un giorno d’estate, simile all’eternità,
Inebriarmi di me stessa,
Senza amare né ricordare nessuno,
E risuonare silenziosa dentro.
So che cosa volevo,
Ma è meglio volere questo –
E con il succo dell’oppio
Eliminare l’embrione della coscienza.

Elena Andreevna Švarc

(Traduzione di Paolo Galvagni)

da “La nuova poesia russa”, Crocetti Editore, 2003

La terza Elegia – Rainer Maria Rilke

Foto di Anka Zhuravleva

 

 Altro è cantar l’amata. Ed altro, ahimè,
quel fluviale Iddio peccaminoso
sprofondato nel sangue.
Il giovine che suo, ella, da lungi
con l’anima ravvisa,
nulla, egli stesso, sa del Dio d’ebbrezza,
che dentro lui talvolta
(innanzi lo placasse la fanciulla;
o come se non fosse stata mai)
il suo capo divino sollevava
dai gorghi di quel sangue solitario,
scatenando la notte a un infinito
tumulto di bufere.
O Nettuno del sangue! O minaccioso
tridente dell’Iddio!
O buio vento, da quel petto, quasi
da ritorta conchiglia!
Odi come la notte si divalla
e s’incaverna… O stelle,
non proviene da voi la bramosia,
che al vólto amato il giovine sospinge?
E lo sguardo, con cui sonda e percorre
gli abissi delle limpide pupille,
oh non proviene
dalla sublime purità degli astri?

     O fanciulla, non tu;
né tu, sua madre, — gli tendeste
allora l’arco scattante delle sopracciglia
in quel cupido agguato.
Non al contatto delle labbra tue,
si piegò la sua bocca in quella curva
ch’è piú feconda di golosi frutti.
Davvero credi, che cosí lo avrebbe
squassato in ogni fibra il passo tuo
al primo sopraggiungere,
lieve come la brezza del mattino?
Il cuore, sí, gli empisti di sgomento.
Ma perché remotissime paure,
all’urto non atteso,
in lui precipitarono ridèste.
Chiamalo!… E, ahimè, da quell’oscuro mondo
interamente non potrai strapparlo…
Certo, egli anela evaderne.
Fatto piú lieve,
alle penombre del tuo cuore occulte
si avvezza già. Ne attinge. E vi si forma.
Ma quando incominciò?
Piccolo tu lo generavi, madre.
Ebbe, da te, principio. E ti fu nuovo.
Sovra quegli occhi appena appena schiusi,
il mondo amico,
piegandoti su lui, madre, inarcavi:
e ne bandivi il cupo mondo ostile.
Dove fuggito è il tempo,
in cui bastava la tua forma snella
ad annientargli il tempestoso caos?
Oh, quanti orrori, nascondesti a lui!
Il tenebrore della stanza infida,
colma di agguati a notte,
innocuo gli rendevi. E dal tuo cuore,
riboccante di placidi rifugi,
spazii piú umani confondesti, allora,
a’ suoi notturni spazii.
Non nell’oscurità, ma dentro il cerchio
del tuo stesso respiro,
sollevavi la lampada notturna,
che ribrillava del tuo stesso affetto.
Non uno scricchiolío, che non chiarivi
col tuo sorriso al figlio,
come se prevedessi ormai da tempo
quando crepiterebbe il secco legno.
Egli origliava, e si facea tranquillo.
Tanto potevi tu, solo sorgendo
tenera innanzi a lui!… Dietro lo stipo
si rifugiava allora ammantellato
il suo Destino. E si acquattava tutto
di tra le pieghe della tenda buia,
ora ravvolta, il suo Destino incerto.

     Ed egli?
Come giaceva piú leggiero, adesso,
sotto le grevi palpebre già chiuse
sciogliendo piano la dolcezza lenta
delle tue lievi forme
entro il sapore di quel greve sonno!
Difeso, egli parea… Ma dentro? Dentro,
chi respingeva, chi frenava in lui
l’onda ancestrale?
Ahi! L’incauto dormiva… Ma dormiva,
preda di sogni e febbri…
Incautamente, abbandonato al sonno.
L’essere nuovo, trepido, sgomento,
come irretito
era di già dentro il perenne crescere
d’íntimi eventi: tortili liane,
strette nel chiuso soffocante intreccio
d’infinita ramaglia,
saettata da sagome di belve!
Ed egli, incauto, si lasciava andare…
Amava quel suo íntimo mistero:
quella selvaggia primigenia selva,
sovra il cui muto crollo
s’ergea, raggiando di una luce verde,
alto il suo cuore.
L’amava… Poi, lo abbandonò: scendendo,
dalle proprie radici, entro i possenti
gorghi delle sue origini profonde,
ove il piccino evento
della nascita sua, —  era trasceso.
Amando,
si profondò nel piú vetusto sangue:
entro le gole in cui, sazio dei padri,
il Tremendo giaceva… Ed ogni orrore
lo riconobbe, súbito ammiccando
in un cenno d’intesa…
Gli sorridea cosí, che poche volte
ebbe da te piú tenero sorriso.
E come, allora, non amarlo, — madre?
Prima di te, lo amò. Ché mentre in grembo
tu lo portavi già, l’Orrore già
era disciolto entro quel dolce siero,
che fa piú lieve il germinante seme.
Guarda! Noi non amiamo — come i fiori —
nel succhio breve di un’annata sola.
Ma ci sale alle braccia, quando amiamo,
la linfa di stagioni immemorabili.
Fanciulla, ecco il mistero!
Oh non amammo, dentro noi, l’amore
che sarebbe venuto:
ma il nostro innumerevole fermento.
Non il figlio a venire. Ma quei padri,
che quasi frane di montagne dormono
giú nel fondo di noi: ma il secco greto
delle madri remote;
ma tutto il paesaggio silenzioso,
sotto il Destino nuvolo o sereno…
Fanciulla, ecco il mistero.
Ed il mistero fu, prima di te.

    E tu, che sai?
In colui che ti amava, prenatali
epoche antiche suscitavi a vita.
E quali sensi, si scavaron su,
verso la luce, tramiti di sbocco
da quegli esseri morti?
Quali mai donne
ti odiarono colà? Quali mai cupi
uomini sollevasti, ora, di nuovo
pei rami delle giovani tue vene?
Bimbi defunti, in ànsito di vita,
ecco, si protendean verso di te.

    Oh lievemente, lievemente, adesso,
ripeti innanzi a lui soltanto un gesto
rassicurante della tua fatica,
ch’è d’ogni giorno.
Accompàgnalo là, lungo il respiro
del placido giardino.
Dàgli il trabocco delle notti immenso!

    Rattienilo, fanciulla…

Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Elegie di Duino (1922)”, in “Rainer Maria Rilke, Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941

***

Die dritte Elegie

Eines ist, die Geliebte zu singen. Ein anderes, wehe,
jenen verborgenen schuldigen Fluß-Gott des Bluts.
Den sie von weitem erkennt, ihren Jüngling, was weiß er
selbst von dem Herren der Lust, der aus dem Einsamen oft,
ehe das Mädchen noch linderte, oft auch als wäre sie nicht,
ach, von welchem Unkenntlichen triefend, das Gotthaupt
aufhob, aufrufend die Nacht zu unendlichem Aufruhr.
O des Blutes Neptun, o sein furchtbarer Dreizack.
O der dunkele Wind seiner Brust aus gewundener Muschel.
Horch, wie die Nacht sich muldet und höhlt. Ihr Sterne,
stammt nicht von euch des Liebenden Lust zu dem Antlitz
seiner Geliebten? Hat er die innige Einsicht
in ihr reines Gesicht nicht aus dem reinen Gestirn?

Du nicht hast ihm, wehe, nicht seine Mutter
hat ihm die Bogen der Braun so zur Erwartung gespannt.
Nicht an dir, ihn fühlendes Mädchen, an dir nicht
bog seine Lippe sich zum fruchtbarern Ausdruck.
Meinst du wirklich, ihn hätte dein leichter Auftritt
also erschüttert, du, die wandelt wie Frühwind?
Zwar du erschrakst ihm das Herz; doch ältere Schrecken
stürzten in ihn bei dem berührenden Anstoß.
Ruf ihn… du rufst ihn nicht ganz aus dunkelem Umgang.
Freilich, er will, er entspringt; erleichtert gewöhnt er
sich in dein heimliches Herz und nimmt und beginnt sich.
Aber begann er sich je?
Mutter, du machtest ihn klein, du warsts, die ihn anfing;
dir war er neu, du beugtest über die neuen
Augen die freundliche Welt und wehrtest der fremden.
Wo, ach, hin sind die Jahre, da du ihm einfach
mit der schlanken Gestalt wallendes Chaos vertratst?
Vieles verbargst du ihm so; das nächtlich-verdächtige Zimmer
machtest du harmlos, aus deinem Herzen voll Zuflucht
mischtest du menschlichern Raum seinem Nacht-Raum hinzu.
Nicht in die Finsternis, nein, in dein näheres Dasein
hast du das Nachtlicht gestellt, und es schien wie aus Freundschaft.
Nirgends ein Knistern, das du nicht lächelnd erklärtest,
so als wüßtest du längst, wann sich die Diele benimmt…
Und er horchte und linderte sich. So vieles vermochte
zärtlich dein Aufstehn; hinter den Schrank trat
hoch im Mantel sein Schicksal, und in die Falten des Vorhangs
paßte, die leicht sich verschob, seine unruhige Zukunft.

Und er selbst, wie er lag, der Erleichterte, unter
schläfernden Lidern deiner leichten Gestaltung
Süße lösend in den gekosteten Vorschlaf -:
schien ein Gehüteter… Aber innen: wer wehrte,
hinderte innen in ihm die Fluten der Herkunft?
Ach, da war keine Vorsicht im Schlafenden; schlafend,
aber träumend, aber in Fiebern: wie er sich ein-ließ.
Er, der Neue, Scheuende, wie er verstrickt war,
mit des innern Geschehns weiterschlagenden Ranken
schon zu Mustern verschlungen, zu würgendem Wachstum, zu tierhaft
jagenden Formen. Wie er sich hingab –. Liebte.
Liebte sein Inneres, seines Inneren Wildnis,
diesen Urwald in ihm, auf dessen stummem Gestürztsein
 lichtgrün sein Herz stand. Liebte. Verließ es, ging die
eigenen Wurzeln hinaus in gewaltigen Ursprung,
wo seine kleine Geburt schon überlebt war. Liebend
stieg er hinab in das ältere Blut, in die Schluchten,
wo das Furchtbare lag, noch satt von den Vätern. Und jedes
Schreckliche kannte ihn, blinzelte, war wie verständigt.
Ja, das Entsetzliche lächelte… Selten
hast du so zärtlich gelächelt, Mutter. Wie sollte
er es nicht lieben, da es ihm lächelte. Vor dir
hat ers geliebt, denn, da du ihn trugst schon,
war es im Wasser gelöst, das den Keimenden leicht macht.

Siehe, wir lieben nicht, wie die Blumen, aus einem
einzigen Jahr; uns steigt, wo wir lieben,
unvordenklicher Saft in die Arme. O Mädchen,
dies: daß wir liebten in uns, nicht Eines, ein Künftiges, sondern
das zahllos Brauende; nicht ein einzelnes Kind,
sondern die Väter, die wie Trümmer Gebirgs
uns im Grunde beruhn; sondern das trockene Flußbett
einstiger Mütter -; sondern die ganze
lautlose Landschaft unter dem wolkigen oder
 reinen Verhängnis -: dies kam dir, Mädchen, zuvor.

Und du selber, was weißt du -, du locktest
Vorzeit empor in dem Liebenden. Welche Gefühle
wühlten herauf aus entwandelten Wesen. Welche
Frauen haßten dich da. Wasfür finstere Männer
regtest du auf im Geäder des Jünglings? Tote
Kinder wollten zu dir… O leise, leise,
tu ein liebes vor ihm, ein verläßliches Tagwerk, – führ ihn
nah an den Garten heran, gieb ihm der Nächte
Übergewicht…
                              Verhalt ihn…

Rainer Maria Rilke

da “Duineser Elegien”, Insel-Verlag, Leipzig, 1923