Odissea (I, 1-129) – Nikos Kazantzakis

Nikos Kazantzakis

 

Dopo la strage dei Proci

Dopo che nelle ampie sale Ulisse ha sterminato
i giovani arroganti, e l’arco ormai sazio appende,
entra nel bagno caldo a lavare il possente corpo.
Due schiave versano l’acqua, ma appena vedono il padrone
strillano, perché il ventre ricciuto e le cosce fumano,
e un sangue denso e nero gli gocciola dalle mani;
le brocche di rame rotolano in terra con frastuono.
L’Errabondo ride mansueto sotto la barba crespa
e congeda le ancelle con un cenno dei sopraccigli.
Si gode a lungo il bagno tiepido, e le vene del corpo
si distendono come fiumi, si rinfrescano i lombi;
nell’acqua la grande mente si rasserena e si acquieta.
Si addolcisce, e lentamente, con oli profumati,
unge i lunghi capelli e il corpo rinsecchito dal sale;
la giovinezza rifiorisce dopo l’inverno della carne.
Nella penombra odorosa, sopra i chiavelli dorati,
brillano in fila gli abiti tessuti dalla casta sposa,
ornati di navi rapide, venti impetuosi e numi;
allunga il braccio arso dal sole e con cura sceglie
la veste più fiammante e se la infila sulle spalle,
poi ancora fumante tira il chiavaccio ed esce.
Gli schiavi sono abbagliati, le travi nere per il fumo
nel palazzo paterno mandano riverberi di fiamma.
Penelope, che aspetta sul trono pallida e muta,
si volge e guarda, le ginocchia sciolte per il terrore:
“Non è questo, Dio mio, l’uomo atteso per tanti anni!
È un drago gigantesco che calpesta la mia casa!”
Il perspicace Arciere intuisce il terrore oscuro
della misera donna, e al proprio cuore gonfio sussurra:
“Mio cuore, questa è la donna che per anni ha atteso
che le aprissi le ginocchia e con lei godessi il pianto,
è la donna per cui smaniavi lottando contro i mari,
contro i numi e le voci gravi della mente immortale!”
Così dice, ma il cuore non sobbalza nel petto virile.
Gli sale di nuovo alle nari il bollore della strage,
rivede ancora la moglie avvinta ai corpi giovani,
e lo sguardo acuto si vela; sarebbe mancato poco
che nella foga del massacro la trafiggesse con la spada.
Passa veloce, si ferma muto davanti all’ampia soglia;
il sole ardente tramonta, getta ombre azzurre e rosa
in ogni angolo della casa e sulle dispense a volta.
Al centro, il nero altare di Atena ormai sazio fuma,
nei lunghi portici ondeggiano al fresco della sera
file di schiave pallide appese con la lingua fuori.
Con sguardo calmo scruta gli occhi stellati della notte,
che cala giù dai monti con le greggi dal vello riccio;
nel petto, come un sogno cupo, stilla e si acquieta
il lungo giorno della strage e il sibilo dei dardi;
il tigre del cuore nell’ombra si lecca le labbra sazio.
Dopo la gioia del bagno, la mente è rasserenata,
non guarda indietro al sangue versato, né più ripensa
a come i suoi subdoli tranelli possano salvare
dai gravi pericoli incombenti la sua tremenda testa;
il tormentato Ulisse si gode in pace l’ora santa,
senza pensieri, fresco di bagno, sulla paterna soglia.

Nikos Kazantzakis

(Traduzione di Nicola Crocetti)

da “Nikos Kazantzakis, Odissea”, Crocetti Editore, 2020

«non ci diremo addio» – Enrico Testa

Mario De Biasi, Amanti, Londra, 1965

 

non ci diremo addio.
Non sappiamo come dirlo,
e non vale la pena di impararlo

Enrico Testa

da “Ora e qui”, in “Cairn”, Einaudi, Torino, 2018

Aggiunta – Billy Collins

René-Jacques, Aux environs de Royan, Charente-Maritime, 1932

 

Quel che ho dimenticato di dirvi in quell’ultima poesia
se avete prestato un minimo di attenzione
è che l’amavo davvero allora.

La luce marittima negli ultimi versi
poteva sembrare artefatta,
falsa come ogni borioso sonetto italiano,

e lo stesso si poteva dire
dei fiori delle alte scogliere
che mi vantavo di averle messo nei capelli

e certo, delle molte lune immaginarie
che ho detto ruotavano sul nostro letto mentre dormivamo,
del cosmo racchiuso dalle pareti della stanza.

Ma la verità è che ci piaceva
fare lunghe passeggiate sulle spiagge ventose,
non le spiagge fra il mare di lei

e la terra simbolica di me,
ma le vere spiagge di conchiglie vuote,
mentre il sole sorge e l’acqua viene avanti e ritorna.

Billy Collins

(Traduzione di Franco Nasi)

da “Balistica”, Fazi Editore, 2011

∗∗∗

Addendum

What I forgot to tell you in that last poem
if you were paying attention at all
was that I really did love her at the time.

The maritime light in the final lines
might have seemed contrived,
and false as any puffed up Italian sonnet,

and the same could be said
for the high cliffside flowers
I claimed to have introduced to her hair

and sure, the many imaginary moons
I said were circling that our bed while we slept,
the cosmos enclosed by the walls of the room.

But the truth is that we loved
to take long walks on the windy shore,
not the beach between the sea of her

and the symbolic land of me,
but the real shorel of empty shells,
the sun rising, the water running up and and back.

Billy Collins

da “Ballistics”, by Random House, New York, 2008

Lo sguardo di ferro non si piega nella dimora dell’essere – Piero Bigongiari

André Kertész, Elevated Train Platform, New York, 1937

 

Fuoco di notte, spada che sguaina
i vivi ai morti, miccia folgorante
verso il sottopassaggio
dell’Arca, così detto perché forse
qualcosa si solleva all’orizzonte azzurrino
se i binari ancora lungimirano
violenti attorno a casa mia
né il forzuto ricordo riesce,
col vento che strisciava sufolando
vespertino dall’antica via
del Vento su per soglie androni scale,
avviata allo spasimo la mente
– quelle scale ricurve -, a piegarli, a spiegarli.

Nel trepestio ferito degli scambi
avviandosi a filo delle more
lacerate dai fischi, in mezzo ai gelsi e ai filugelli
covata alfine soddisfatta, intesero
essi intesero, essi, i non piegabili,
sui glicini fiorire inesplicata
la voce della madre, inesplicabili
le carezze sul fuoco hanno modellato
il fuoco, la ciotola
con la poca minestra raffreddandosi
lentamente in un canto,
la fame che saliva accalorata
pel cammino in convolvoli violacei.

Ma serpenti di fango odono crescere
strisciando tra loriche l’acqua, smossa
da un altro fuoco traversare lenta
la strada, non è l’Arca a sollevarsi
con le antiche bestemmie zoomorfe
dei facchini patriarchi: sollevavano
pesi immensi, facevano discendere
gli animali salvati. Più lontano
l’azzurro rabescato delle fruste
barriva di probosciti oscillanti.
Ma la madre era in alto, il regno della
madre, all’asciutto, intangibile ai tentacoli,
era lei a tentarli dal fuoco, azzurrini, soffiandovi sopra
perché il cibo fosse anche la fine della tentazione,
il semel una volta per tutte colasse di latte tepido.

Non la maschera nutre le sue lacrime
né il fango può impastarsene a sufficienza,
ma è questa morte che vive nuda tra le spine tenere,
questa ferita che non brucia ancora dove il fuoco si stamperà,
a dirti che l’asciutto dovrà infangarsi
mentre l’irriconoscibile sarà conosciuto: lì apri impietosa la ferita,
allargane le labbra: anche la ferita ha una maschera,
può piangere il suo sangue insufficiente,
può lasciarti rigata sul tuo volto
l’impronta dell’abbraccio insanguinato.
Tu deponila accanto al pane e al vino
rimasto nel bicchiere, riprendi la carezza dalla fiamma,
apri la porta all’acqua infuocata con calma,
lávati il volto, né ti voltare, non ti voltare
finché la vergogna non te l’abbia asciugato.
Ma non vergognarti di vergognarti: è la felicità
leggera e soffice come il semel materno
sollevato dal latte come una spuma tepida di sangue.

Piero Bigongiari

10 -11 febbraio ’74

da “Il tuo amore si è fermato sotto un sicomoro”, in  “Moses, Frammenti del poema”, “Lo Specchio” Mondadori, 1979

Un vecchio sulla riva del fiume – Giorgio Seferis

Foto di Herbert List

A Nanis Patiaghiotòpulos

Ma bisogna pensare a come andiamo avanti:
ché sentire non basta, né pensare né muoversi
né rischiare alla vecchia feritoia,
quando l’olio bollente e il piombo fuso
rigano la muraglia.

Ma bisogna pensare dove andiamo,
non come vuole il nostro dolore, i nostri figli
affamati, lo iato d’un appello di compagni
dall’altra riva,
né secondo il bisbiglio della luce
illividita nell’ospedaletto,
il barbaglio di clinica
al capezzale di quel giovine operato
a mezzogiorno,
ma in qualche altra maniera. Io vorrei dire come
il lungo fiume che nasce
dai grandi laghi chiusi in fondo all’Africa
(divinità, una volta, e poi via, donatore,
giudice, delta)
sempre da sé diverso, come gli antichi dotti
insegnavano, eppure
eguale corpo sempre, letto eguale, eguale Segno,
orientamento eguale.

Voglio solo parlare semplicemente: chiedo questa grazia.
Anche il canto l’abbiamo caricato di tante
musiche, che annega a poco a poco,
e l’arte nostra tanto decorata, che il volto
n’è roso dagli orpelli.
Ora è tempo di dire le nostre poche sillabe,
perché domani l’anima fa vela.

La sofferenza è umana, ma non siamo
uomini solo per soffrire.
Perciò medito tanto, questi giorni, il grande fiume,
questo senso che incede fra erbe e macchie grame
e animali che pascono e si dissetano
e uomini che seminano e mietono
e grandi tombe e piccoli abituri di morti.
Questa corrente va per la sua strada. Non diversa
dal sangue umano
e dagli occhi degli uomini che fissano lontano
senza paura in cuore,
senza trasalimenti quotidiani per piccole faccende
o – sia pure – per grandi,
che fissano lontano come il viandante avvezzo
a misurare la sua via con gli astri,
non come noi che l’altro giorno guardavamo
il giardinetto chiuso nella casa araba addormentata,
dietro le grate, il giardinetto fresco
cangiare forma, farsi grande farsi piccolo.
Cangiavamo, a misura dello sguardo,
anche noi la figura della nostra
brama, del nostro cuore,
nello stillare del meriggio, noi, docile pasta
d’un mondo che c’incalza e che ci plasma,
impigliati alle reti sfarzose d’una vita
ch’era giusta e s’è fatta polvere ed è colata
a picco nella rena,
lasciandosi dietro soltanto
l’indefinito dondolio d’un’alta
palma, che ci ha stordito.

Giorgio Seferis

Il Cairo, 20 giugno 1942

(Traduzione di Filippo Maria Pontani)

(da Giornale di bordo II, 1944)

da “Giorgio Seferis, Poesie”, “Lo Specchio” Mondadori, 1963

∗∗∗

ΕΝΑΣ ΓΕΡΟΝΤΑΣ ΣΤΗΝ ΑΚΡΟΠΟΤΑΜΙΑ
Στό Νάνη Παναγιωτόπουλο

Κι’ ὅμως πρέπει νά λογαριάσουμε πῶς πρυχωροῦμε,
Νά αἰσθάνεσαι δέ φτάνει μήτε νά σϰέπτεσοιι μήτε νά ϰινεῖσαι
μήτε νά ϰινδυνεύει τό σῶμα σου στήν παλιά πολεμίστρα,
ὅταν τό λάδι ζεματιστό ϰαί τό λειωμένο μολύβι αὐλαϰώνουνε τά τειχιά.

Κι’ ὅμως πρέπει νά λογαριάσουμε ϰατά ποῦ προχωροῦμε,
ὅχι ϰαθώς ὁ πόνος μοις τό θέλει ϰαί τά πεινϰσμένα παιδιά μοις
ϰαί τό χάσμα τῆς πρόσϰλησης τῶν συντρόφων ἀπό τό ν ἀντίπερα γιαλό·
μήτε ϰαθώς τό ψιθυρίζει τό μελανιασμένο φῶς στό πρόχειρο νοσοϰομεῖο,
τό φαρμακευτικό λαμπύρισμα στό προσκέφαλο τοῦ παλικαριοῦ ποέ χειρουργήθηκε τό μεσημέρι·
ἀλλά μέ κάποιον ἄλλο τρόπο, μπορεῖ νά θέλω νά πῶ καθώς
τό μαϰρύ ποτάμι πού βγαίνει ἀπό τίς μεγάλες λίμνες τίς ϰλειστές βαθιά στήν Ἀφριϰή
ϰαί εἴτανε ϰάποτε θεός ϰι’ ἔπειτα γένηϰε δρόμος ϰαί δωρητής ϰαί διϰαστής ϰαί δέλτα·
πού δέν εἶναι ποτές του τό ἴδιο, ϰατά πού δίδασϰαν οἱ παλαιοί γραμματισμένοι,
ϰι’ ὡστόσο μένει πάντα τό ἴδιο σῶμα, τό ἴδω στρῶμα, ϰαί τό ἴδιο Σημεῖο,
ὁ ἴδιος προσανατολισμός.

Δέ θέλω τίποτε ἄλλο παρά νά μιλήσω ἁπά νά μοῦ δοθεῖ ἐτούτη ἡ χάρη.
Γιατί ϰαί τό τραγούδι τό ῳορτώσαμε μέ τόσες μουσιϰές πού σιγά-σιγά βουλιάζει
ϰαί τήν τέχνη μας τή στολίσαμε τόσο πολύ πού φαγώθηϰε
ἀπό τά μαλάματα τό πρόσωπά της
ϰι’ εἶναι ϰαιρός νά ποῦμε τά λιγοστά μας λόγια γιατί ἡ ψυχή μας αὔριο ϰάνει πανιά.

Ἂν εἶναι ἀνθρώπινος ὁ πόνος ὃέν εἴμαστε ἄνθρωποι μόνο γιά νά πονοῦμε
γι’ αὐτό συλλογίζομαι τόσο πολύ, τοῦτες τίς μέρες, τό μεγάλο ποτάμι
αὐτό τό νόημα πού προχωρεῖ ἀνάμεσα σέ βότανα ϰαί σέ χόρτα
ϰαί ζωντανά πού βόσϰουν ϰαί ξεό ιψοῦν ια’ ἀνθρώπους πού σπέρνουν ϰαί πού θερίζουν
ϰαί σέ μεγάλους τάφους ἀϰόμη ϰαί μιϰρές ϰατοιϰίες τῶν νεϰρῷν.
Αὐτό τό ρέμα πού τραβάει τό δρόμο του ϰαί πού δέν εἶναι τόσο διαφορετιϰό ἀπό τό αἷμα τῶν ἀνθρώπων
ϰι’ ἀπό τά μάτια τῶν ἀνθρώπων ὅταν ϰοιτάζουν ἴσια-πέρα χωρίς τό φόβο μές στήν ϰαρδιά τους,
χωρίς τήν ϰαθημερινή τρεμούλα γιά τά μιϰροπράματα ἢ ἔστω ϰαί γιά τά μεγάλα·
ὅταν ϰοιτάζουν ἴσια-πέρα ϰαθώς ὁ στρατοϰόπος πού συνήθισε ν’ ἀναμετρᾶ τό δρόμο του μέ τ’ ἄστρα,
ὄχι ὅπως ἐμεῖς, τήν ἄλλη μέρα, ϰοιτάζοντας τό ϰλειστό περιβόλι στό ϰοιμισμένο ἀράπιϰο σπίτι,
πίσω ἀπό τά ϰαφασωτά, τό δροσερό περιβολάϰι ν’ ἀλλάζεμ
σχῆμα, νά μεγαλώνει ϰαί νᾶ μιϰραίνει·
ἀλλάζοντας ϰαθώς ϰοιτάζαμε, ϰι’ ἐμεῖς, τό σχῆμα τοῦ πόθου μας ϰαί τῆς ϰαρδιᾶς μοις,
στή στάλα τοῦ μεσημεριοῦ, ἐμεῖς τό ὑπομονετιϰό ζυμάρι ἑνός ϰόσμου πού μᾶς διώχνει ϰαί πού μᾶς πλάθει,
πιασμένοι στά πλουμισμένα δίχτυα μιᾶς ζωῆς πού εἴτανε σωστή ϰι’ ἕγινε σϰόνη ϰαί βούλιαξε μέσα στήν ἄμμο
ἀφήνοντας πίσω της μονάχα ἐϰεῖνο τό ἀπροσδιόριστο λίϰνισμα πού μᾶς ζάλισε μιᾶς ἀψηλῆς φοινιϰιᾶς.

Γιώργος Σεφέρης

Κάῖρο, 20 Ἰουνίου 1942

da “ Ἡμερολόγιο ϰαταστρώματος, Β’”, 1944