da «Monologo» – Mario Luzi

 

I

Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d’essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte…
Era, donde scendesse, un salto d’acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d’astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l’angoscia d’esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.

Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.

Con lo sgomento d’una porta
che s’apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d’eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest’ora ti edifica e ti schianta.

L’uno ancora implacato, l’altro urgeva —
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n’ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza,
vita tu irreparabile, dovuta,
prima ancora che accolta già caduta
fuori di me, nel fiume indifferente.

Mario Luzi

da “Poesie sparse (1945-48)”, in “Il giusto della vita”, Garzanti, Milano, 1960

Finzioni – Alfonso Brezmes

Foto di Katia Chausheva

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dimmi che questo è solo un sogno
o tutt’al piú un altro racconto di Borges,
che i sentieri che percorre l’amore
sono labirinti che si biforcano
e si perdono, si biforcano
e si perdono, e che il tuo ricordo
è solo un uccello che attraversa
volando
le frontiere incerte della poesia.
Un universo in piú
tra i mille universi possibili.
Un’ultima
e dolce
e superba
metafora dell’oblio.

Alfonso Brezmes

(Traduzione di Mirta Amanda Barbonetti)

da “La notte tatuata”, in “Quando non ci sono”, Einaudi, Torino, 2021

***

Ficciones

Dime que esto sólo es un sueño
o a lo sumo otro cuento de Borges,
que los caminos que recorre el amor
son laberintos que se bifurcan
y se pierden, se bifurcan
y se pierden, y que tu recuerdo
es sólo un ave que cruza
volando
las fronteras dudosas del poema.
Un universo más
entre los miles de universos posibles.
Una última
y dulce
y soberbia
metáfora del olvido.

Alfonso Brezmes

da “La noche tatuada”, Editorial Renacimiento, 2013

Tiara – Piero Bigongiari

Vojtěch Hynais, Anka, 1913

 

Muore nel ghiaccio bianca la tua voce
che dal sangue luceva sopra i vepri: 
tu nascosta che giri o è la luna
questo triste richiamo spento d’elitre?

Piú fedele di me, piú del tuo battito
è quest’orma di miele, un soffio, l’alluce
che preme un po’ piú triste. Dove insiste
il passo oltre la cerchia, oltre la vita

il gesto che disfiora la magnolia
fumida. La tiara raggia ancora:
sono sguardi? lo scatto delle dita?
l’unghie gemmate coprono la morte?

Non ha sorte l’evento che sostiene
sopra il vento celeste un altro blu,
le rideste parvenze dove tu
rifiorisci sul vento che ti ara.

Piero Bigongiari

da “La figlia di Babilonia”, 1942, in “Stato di cose”, “Lo Specchio” Mondadori, 1968

Valzer – Adam Zagajewski

 

Sono così sgargianti i giorni, così chiari,
che la polvere bianca della disattenzione
copre persino le rare esili palme.
Le serpi scivolano silenziose nelle vigne,
ma alla sera il mare si fa cupo e i gabbiani
sospesi nell’aria si muovono appena,
punteggiatura di un più alto scritto.
Sulle tue labbra una goccia di vino.
Le montagne calcaree all’orizzonte si dissolvono
lente mentre una stella appare.
La notte, in piazza, un’orchestra di marinai
in uniformi bianche immacolate
suona un valzer di Šostakovič; piangono
i bimbi, come se intuissero
di cosa parla quella musica allegra.
Siamo stati rinchiusi nella scatola del mondo.
L’amore ci renderà liberi, il tempo ci ucciderà.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Krystyna Jaworska)

da “Desiderio”, 1999, in “Dalla vita degli oggetti”, Poesie 1983-2005, Adelphi, 2012

∗∗∗

Walczyk

Dni są tak jaskrawe, tak jasne,
że nawet nieliczne, wąskie palmy
pokryte są białym kurzem nieuwagi.
Węże w winnicach ślizgają się cicho,
ale wieczorem morze ciemnieje i mewy
zawieszone w powietrzu jak interpunkcja
najwyższego pisma zaledwie się poruszają.
Na twoich wargach zapisała się kropla wina.
Wapienne góry na horyzoncie rozpływają się
powoli i pojawia się gwiazda.
W nocy, na placu, orkiestra marynarzy
w nieskazitelnie białych mundurach,
gra walczyka Szostakowicza; małe dzieci
płaczą, jakby domyślały się,
o czym mówi wesoła muzyka.
Zostaliśmy zamknięci w pudełku świata,
miłość nas wyzwoli, czas zabije.

Adam Zagajewski

da “Pragnienie”, Kraków: Wydawn. a5, 1999

Il richiamo del bosco – Moka

Foto di Moka

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La tua ombra canina
Corre, graffia, protegge,
Nelle unghie hai coralli di albe,
col naso annusi l’aria rosa rugosa
e indaghi certi stati d’anima,
difficilmente ti accomodi
sulle mie ginocchia,
ti piace giocare a vedere il Sole
cadere nel blu infinito della collina
finché con le orecchie
accetti l’invito dei caprioli
“Dai, vieni a giocare”.

Moka

da “L’arte di osservare il bosco”, Babbomorto Editore

“L’arte di osservare il bosco” è risultata vincitrice ex – aequo del Primo Premio “L’apostrofo Poesia”, pubblicazione con Babbomorto Editore