La storia della poesia – Mark Strand

Foto di Chris Felver

 

I nostri maestri se ne sono andati e se tornassero
chi tra noi li sentirebbe, chi riconoscerebbe
il suono corporeo del paradiso o il paradisiaco
suono del corpo, infinito ed evanescente, che dava sintonia
ai nostri giorni prima che le stelle roteanti
venissero private di ogni potere? La risposta è
nessuno di noi qui. E cosa significa se vediamo
le montagne invetriate di luna e il paese con le porte
e i serbatoi piezometrici muti, e ci viene da alzare la voce
un poco, o a volte a fine autunno
quando la sera fiorisce un momento sui monti a occidente
e ci immaginiamo angeli che si precipitano lungo gli scalini freddi
dell’aria per augurarci il bene, se abbiamo perso ogni volontà
e non facciamo altro che poltrire, udendo e non udendo, i sospiri
di questa o quella brezza vagare senza meta sulle fattorie in malora
e i giardini sterili? Questi giorni quando ci svegliamo
ogni cosa risplende della stessa luce celeste
che colmava il nostro sonno qualche minuto prima,
così non facciamo altro se non contare alberi, nubi,
i pochi uccelli rimasti; poi decidiamo che non dovremmo
essere severi con noi stessi, che il passato non era meglio
di adesso, perché non è forse sempre esistito il nemico,
e la chiesa del mondo non era già in macerie?

Mark Strand

(Traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan)

da “La vita ininterrotta”, 1990, in “Mark Strand, Tutte le poesie”, Mondadori, 2019

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The history of poetry

Our masters are gone and if they returned
Who among us would hear them, who would know
The bodily sound of heaven or the heavenly sound
Of the body, endless and vanishing, that tuned
Our days before the wheeling stars
Were stripped of power? The answer is
None of us here. And what does it mean if we see
The moon-glazed mountains and the town with its silent doors
And water towers, and feel like raising our voices
Just a little, or sometimes during late autumn
When the evening flowers a moment over the western range
And we imagine angels rushing down the air’s cold steps
To wish us well, if we have lost our will,
And do nothing but doze, half-hearing the sighs
Of this or that breeze drift aimlessly over the failed farms
And wasted gardens? These days when we waken,
Everything shines with the same blue light
That filled our sleep moments before,
So we do nothing but count the trees, the clouds,
The few birds left; then we decide that we shouldn’t
Be hard on ourselves, that the past was no better
Than now, for hasn’t the enemy always existed,
And wasn’t the church of the world already in ruins?

Mark Strand

da “The Continuous Life”, in “Collected Poems”, Alfred A. Knopf, 2014

«Cos’è, creatura amata» – Roberto Carifi

Josef Sudek, Untitled, n.d.

 

Cos’è, creatura amata,
questa luce arata dal destino,
la trasparenza dove continuo a vederti,
che inchioda la mia anima al tuo viso?
Lo bacio nell’assenza, l’accarezzo
come nei sogni si sfiora il nostro desiderio,
quello che nella veglia si sottrae.
Se chiudo gli occhi
e vorrei soffocarmi nel cuscino
i tuoi si accampano nel sonno
e in questa specie di morte fanno il nido.
Al mio risveglio li ritrovo,
principio della luce.
Così i tuoi occhi
sono la notte e il giorno,
la mia fuga nei sogni e il mio ritorno.
Se non fossero lì, custodi del silenzio,
chi mai difenderebbe il labile confine
che sta tra il sonno e la mia fine?

Roberto Carifi

da “Amore d’autunno”, Guanda Editore, 1998

Canto di uscita – Rainer Maria Rilke

Leonid Pasternak, Rainer Maria Rilke

     

     Placido Amico delle lontananze!
Senti come lo spazio, al tuo respiro,
cresce! Tra i ceppi bui delle campane,
divieni squilla! Ciò che in te si strugge,

     si fa vigore in te, poi che ti nutre.
Sii la risacca del Mutar perenne!
Qual sofferenza, non provasti ancóra?
Se amaro il vino è a te, diventa vino!

     In questa notte, ove trabocchi, sii
magica forza, al crocevia dei sensi:
simbolo, in cui si esprima il loro incontro.

     E se il mondo, di te, si è fatto cieco,
grida alla terra, che sta ferma: Io scorro;
rigrida all’acqua, che fluisce: Io sto.

Rainer Maria Rilke

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “I sonetti a Orfeo” (1922), in “Rainer Maria Rilke, Liriche scelte e tradotte da Vincenzo Errante”, Sansoni, 1941

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II, 29

Stiller Freund der vielen Fernen, fühle,
wie dein Atem noch den Raum vermehrt.
Im Gebälk der finsteren Glockenstühle
laß dich läuten. Das, was an dir zehrt,

wird ein Starkes über dieser Nahrung.
Geh in der Verwandlung aus und ein.
Was ist deine leidendste Erfahrung?
Ist dir Trinken bitter, werde Wein.

Sei in dieser Nacht aus Übermaß
Zauberkraft am Kreuzweg Deiner Sinne,
ihrer seltsamen Begegnung Sinn.

Und wenn dich das Irdische vergaß,
zu der stillen Erde sag: Ich rinne.
Zu dem raschen Wasser sprich: Ich bin.

Rainer Maria Rilke

da “Die Sonette an Orpheus”, Insel-Verlag, Lipsia, 1923

«Essere… essere, sì, intimi, nel cuore» – Giovanni Raboni

Pietro Canonica, L’abisso, 1909, Museo Canonica, Roma

 

Essere… essere, sì, intimi, nel cuore,
nel midollo, con chi è noi, con chi
d’altro noi siamo – forse è tutto qui
il segreto, è così che si fa onore

alla vita se è solo per ardore
che le duecentosei ossa non si
dissaldano innanzi tempo, se è di
estraneità alla vita che si muore,

con minima pena, come lasciamo
una casa senza fuoco. E forse, ossa
dimenticate, una provvida mente

ci penserà, due amanti! e nuovamente
vivi traslocheremo dalla fossa
all’apparirci, all’esserci che siamo.

Giovanni Raboni

da “Ogni terzo pensiero”, “Lo Specchio” Mondadori, 1993

A Varsavia – Czesław Miłosz

Czesław Miłosz, foto di Marek Śmieja

 

Che fai, poeta, sulle macerie
Della cattedrale di San Giovanni,
In questa calda giornata di primavera?

Cosa pensi qui, dove il vento
Che soffia dalla Vistola sparge
La rossa polvere delle rovine?

Hai giurato che mai saresti stato
Una prefica.
Hai giurato che mai avresti toccato
Le grandi ferite del tuo popolo,
Per trasformarle in santità,
La maledetta santità che perseguita
Nei secoli seguenti i posteri.

Ma questo pianto di Antigone
Che cerca il fratello
Oltrepassa davvero la misura
Della sopportazione. E il cuore
È una pietra, dove come un insetto
È racchiuso l’amore oscuro
Per la più disgraziata delle terre.

Non volevo amare tanto,
Non era questa la mia intenzione.
Non volevo impietosirmi tanto,
Non era questa la mia intenzione.
La mia penna è più leggera
Di una piuma di colibrì. Questo peso
Non è per le mie forze.
Come posso abitare in un paese
Dove il piede urta le ossa
Insepolte di chi ti fu più caro?
Odo voci, vedo sorrisi. Non posso
Scrivere niente, perché cinque mani
Mi afferrano la penna,
E mi ordinano di scrivere la loro storia,
La storia della loro vita e della loro morte.
Sono forse stato creato
Per diventare una prefica?
Io voglio cantare i festini,
I boschetti gioiosi dove
Mi conduceva Shakespeare. Lasciate
Ai poeti un istante di gioia,
O perirà il vostro mondo.

È una follìa vivere così senza sorriso
E ripetere due parole
A voi rivolte, o morti,
A voi, cui spettava
Allegrezza
Di gesti pensieri e corpo, di canti e banchetti.
Due parole salvate:
Verità e giustizia.

Czesław Miłosz

1945, Cracovia

(Traduzione di Pietro Marchesani)

da “Salvezza”, in “Czesław Miłosz, Il castigo della speranza”, All’insegna del pesce d’oro, 1981

Mille copie numerate – Copia N. 39
Avvertenza: Per i testi originali delle poesie qui pubblicate abbiamo seguito l’edizione americana dell’opera poetica di Milosz Utwory poetyckie. Poems, Michigan Slavic Publications, Ann Arbor 1976.  (Pietro Marchesani)

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W Warszawie

Co czynisz na gruzach katedry
Świętego Jana, poeto,
W ten ciepły, wiosenny dzień?

Co myślisz tutaj, gdzie wiatr
Od Wisły wiejąc rozwiewa
Czerwony pył rumowiska?

Przysięgałeś, że nigdy nie będziesz
Płaczką żałobną.
Przysięgałeś, że nigdy nie dotkniesz
Ran wielkich swego narodu,
Aby nie zmienić ich w świętość,
Przeklętą świętość, co ściga
Przez dalsze wieki potomnych.

Ale ten płacz Antygony,
Co szuka swojego brata,
To jest zaiste nad miarę
Wytrzymałości. A serce
To kamień, w którym jak owad
Zamknięta jest ciemna miłość
Najnieszczęśliwszej ziemi.

Nie chciałem kochać tak,
Nie było to moim zamierem.
Nie chciałem litować się tak,
Nie było to moim zamiarem.
Moje pióro jest lżejsze
Niż pióro kolibra. To brzemię
Nie jest na moje siły.
Jakże mam mieszkać w tym kraju,
Gdzie noga potrąca o kości
Niepogrzebane najbliższych?
Słyszę głosy, widzę uśmiechy. Nie mogę
Nic napisać, bo pięcioro rąk
Chwyta mi moje pióro
I każe pisać ich dzieje,
Dzieje ich życia i śmierci.
Czyż na to jestem stworzony,
By zostać płaczką żałobną?
Ja chcę opiewać festyny,
Radosne gaje, do których
Wprowadzał mnie Szekspir. Zostawcie
Poetom chwilę radości,
Bo zginie wasz świat.

Szaleństwo tak żyć bez uśmiechu
I dwa powtarzać wyrazy
Zwrócone do was, umarli.
Do was, których udziałem
Miało być wesele
Czynów myśli i ciała, pieśni, uczt.
Dwa ocalone wyrazy:
Prawda i sprawiedliwość.

Czesław Miłosz

                                                             1945, Kraków

da “Ocalenie”, 1945, in “Czesław Miłosz, Utwory poetyckie. Poems”, Michigan Slavic Publications, Ann Arbor, 1976