Prigione – Margherita Guidacci

Patty Maher, She Whispers to the Wind, 2007

 

Se il muro fosse di pietra e non d’aria,
se attraverso il muro non si toccassero gli alberi,
se le alte sbarre d’ombra che ti rigano l’anima
fossero l’ombra di vere sbarre a cui potersi aggrappare,
se ricordassi lo scatto d’una porta che si chiude
alle tue spalle e il tintinnìo delle chiavi
alla cintura del carceriere che si allontana:
quale sollievo ne avresti nell’orrore!
Perché ciò che si chiude può tornare ad aprirsi,
la rocca più imponente può essere distrutta.
Ma dove sei non è porta, e nessuna porta s’aprirà.
E non è muro: nessun muro sarà abbattuto.
Le sbarre d’ombra sono le vere sbarre,
non saranno divelte. Tu confini con l’aria,
tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera,
e sei tu stessa la tua prigione che cammina.

Margherita Guidacci

da “Neurosuite”, Neri Pozza, Vicenza, 1970

«I tuoi occhi di ceramica, le tue membra lussuose» – Amelia Rosselli

Amelia Rosselli, foto di Dino Ignani

 

I tuoi occhi di ceramica, le tue membra lussuose
la tua vigliacca pelle fanno di me il più forte
degli schiavi d’amore. Impertinente fu la mia
vita finché si scontrò con la tua lussuria, tetto
coniugale con tutte le carte in ordine. Il disordine
della mia passione attirò il tuo petto di brace
le mie sconvolgenti frasi d’imploro commossero
i tuoi occhi pieni di lacrime, cibo preferito
degli dei scanzonati. Una canzone avvolse la
mia mira nella tua rete; tu la rompesti,
avvolgendola nel tuo cuore di uomo con tutte le
carte in un disordine tipico del tuo cuore senza
amore. Amare frasi andai ripetendo finché non ti
rintracciai sul tuo trono di viande e disperazioni.
Due azioni mi portarono vicino a te: la tua frase
ignorante e il tuo cuore di tufo, seppellito
oramai nelle mie lunghe braccia trionfanti
d’amore e di lussuria regina della notte e delle
stelle.

Amelia Rosselli

da “Variazioni belliche”, 1964, in “Amelia Rosselli, Le poesie”, Garzanti, 1977

Cartografie del silenzio – Adrienne Rich

Wolfgang Sievers, Berlin, 1938

1.

Una conversazione inizia
con una menzogna. E chiunque

parli la cosiddetta lingua comune avverte
lo spaccarsi dell’iceberg, la deriva

come impotente, come contro
una forza della natura

Una poesia può iniziare
con una menzogna. Ed essere strappata.

Una conversazione segue altre leggi
si ricarica con la propria

falsa energia. Non può essere
strappata. Ci si infiltra nel sangue. Si ripete.

Con la sua punta irreversibile incide
l’isolamento che nega.

2.

Il programma di musica classica
che per ore e ore risuona nell’appartamento

il sollevare e risollevare
e sollevare ancora il telefono

le sillabe che scandiscono
ora e sempre il vecchio soggetto

la solitudine del bugiardo
che abita la rete convenzionale della bugia

gira i comandi per affogare il terrore
sotto la parola non detta

3.

La tecnologia del silenzio
I rituali, il bon ton

la confusione di termini
silenzio non assenza

di parole o musica o persino
suoni grezzi

II silenzio può essere un piano
rigorosamente eseguito

la cianografia di una vita

È una presenza
ha una storia         una forma

Non confonderlo
con alcun tipo di assenza

4.

Quanto calme, quanto inoffensive queste parole
cominciano a sembrarmi

se pure iniziate in dolore e rabbia
Posso sfondare questa pellicola di astrazione

senza ferire me o te?
Qui c’è abbastanza sofferenza

È per questo che suona la stazione classica o jazz?
Per dare una base di senso alla nostra sofferenza?

5.

Il silenzio che denuda:
nella Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer

la faccia di Falconetti, capelli tosati, una vasta geografia
silenziosamente percorsa dalla cinepresa

Se esistesse una poesia in cui ciò potesse accadere
e non come spazi bianchi o parole

stese come una pelle sui significati
ma come il silenzio che viene alla fine

di una notte che due persone hanno passato
parlando fino all’alba

6.

L’urlo
di una voce illegittima

Ha smesso di sentirsi, e quindi
si chiede

Come riesco a esistere?

Questo era il silenzio che volevo rompere in te
con domande, ma non avresti risposto

con risposte, ma non le avresti utilizzate
Tutto vano per te e forse per altri

7.

Era un vecchio tema anche per me:
Il linguaggio non è onnipotente –

disegnalo sui muri dove
i poeti morti riposano nei loro mausolei

Se a un cenno del poeta la poesia
potesse trasformarsi in una cosa

un fianco di granito messo a nudo, una testa alzata
accesa di rugiada

Se potesse semplicemente guardarti in faccia
con le cornee nude, inchiodandoti

fino a quando tu – e io che sogno questa cosa –
fossimo finalmente fatti luce insieme nel suo sguardo

8.

No. Lasciami questa polvere,
queste nubi esangui cupamente sospese, queste parole

che si muovono con la feroce precisione
delle dita del bambino cieco

o della bocca dell’infante
violenta per la fame

Nessuno può darmelo, già da tempo
ho assunto questo metodo

della crusca fuoriuscita dalla trama del sacco troppo larga
o della fiamma blu del gas al minimo

Se di tanto in tanto invidio
le pure epifanie allo sguardo

la visio beatifica
se di tanto in tanto sogno di voltarmi

come lo ierofante eleusino
con la sua semplice spiga di grano

per tornare al mondo concreto e immortale
quello che in fondo continuo a scegliere

sono queste parole, questi sussurri, conversazioni
da cui di tanto in tanto la verità erompe umida e verde.

Adrienne Rich

1975

(Traduzione di Maria Luisa Vezzali)

da “Il sogno di un linguaggio comune”, in “Cartografie del silenzio”, Crocetti Editore, 2000

“Dreyer”. Il regista danese, autore di La passione di Giovanna d’Arco (1928), con Renée Falconetti (1893-1946) nella parte della santa.

∗∗∗

Cartographies of Silence

1.

A conversation begins
with a lie. And each

speaker of the so-called common language feels
the ice-floe split, the drift apart

as if powerless, as if up against
a force of nature

A poem can begin
with a lie. And be torn up.

A conversation has other laws
recharges itself with its own

false energy. Cannot be torn
up. Infiltrates our blood. Repeats itself.

Inscribes with its unreturning stylus
the isolation it denies.

2.

The classical music station
playing hour upon hour in the apartment

the picking up and picking up
and again picking up the telephone

The syllables uttering
the old script over and over

The loneliness of the liar
living in the formal network of the lie

twisting the dials to drown the terror
beneath the unsaid word

3.

The technology of silence
The rituals, etiquette

the blurring of terms
silence not absence

of words or music or even
raw sounds

Silence can be a plan
rigorously executed

the blueprint to a life

It is a presence
it has a history        a form

Do not confuse it
with any kind of absence

4.

How calm, how inoffensive these words
begin to seem to me

though begun in grief and anger
Can I break through this film of the abstract

without wounding myself or you
there is enough pain here

This is why the classical or the jazz music station plays?
to give a ground of meaning to our pain?

5.

The silence that strips bare:
In Dreyer’s Passion of Joan

Falconetti’s face, hair shorn, a great geography
mutely surveyed by the camera

If there were a poetry where this could happen
not as blank spaces or as words

stretched like a skin over meanings
but as silence falls at the end

of a night through which two people
have talked till dawn

6.

The scream
of an illegitimate voice

It has ceased to hear itself, therefore
it asks itself

How do I exist?

This was the silence I wanted to break in you
I had questions but you would not answer

I had answers but you could not use them
This is useless to you and perhaps to others

7.

It was an old theme even for me:
Language cannot do everything—

chalk it on the walls where the dead poets
lie in their mausoleums

If at the will of the poet the poem
could turn into a thing

a granite flank laid bare, a lifted head
alight with dew

If it could simply look you in the face
with naked eyeballs, not letting you turn

till you, and I who long to make this thing,
were finally clarified together in its stare

8.

No. Let me have this dust,
these pale clouds dourly lingering, these words

moving with ferocious accuracy
like the blind child’s fingers

or the newborn infant’s mouth
violent with hunger

No one can give me, I have long ago
taken this method

whether of bran pouring from the loose-woven sack
or of the bunsen-flame turned low and blue

If from time to time I envy
the pure annunciations to the eye

the visio beatifica
if from time to time I long to turn

like the Eleusinian hierophant
holding up a simple ear of grain

for return to the concrete and everlasting world
what in fact I keep choosing

are these words, these whispers, conversations
from which time after time the truth breaks moist and green.

Adrienne Rich

1975

da “The Dream of a Common Language”, 1974-1977, W. W. Norton & Co, 1978

Il quarto Inno alla notte – Novalis

Caspar David Friedrich, Kreuz im Gebirge, 1823

 

Ora io so quando si leverà l’ultimo giorno; quando la Luce
non fugherà più, spauriti, la Notte e l’Amore; quando sarà
eterno il Sonno e senza fine il Sogno. Avverto, in me, una
stanchezza celeste. Lungo e spossante mi fu il pellegrinaggio a
questa sacra tomba. Estenuante, su le spalle, la croce. Chi ha
gustato l’onda cristallina che, impercettibile ai sensi comuni,
sgorga dal grembo oscuro del monte, a’ cui piedi si rompe la
risacca terrena; chi stette lassú su quelle cuspidi, agli estremi
confini della Vita, e spinse di là gli sguardi verso la Terra
Promessa, verso i soggiorni della Notte, non tornerà piú invero
al travagliato mondo: alle contrade dove abita la Luce, irrequie-
tudine perenne. Costruisce là in cima, le sue capanne: asili 
di pace. Brama, ed ama. Scruta di là, lontano. Fin che la piú
perfetta delle ore non lo trae giú, alle scaturigini del fonte.
Ogni cosa terrestre vi sornuota, respinta dagli uragani. Ma ciò
che santo si fece per virtú d’amore, scorre disciolto per oscuri
tramiti all’opposto versante: e qui si mesce, aereo, con gli
altri amori addormentati.

 

Gioiosa Luce! E tu mi dèsti , ancóra,
stanco, al lavoro.
Un’ebbrezza di vivere m’infondi;
ma non riesci ad allettarmi via
dal simulacro della Ricordanza,
rivestito di musco.

Ben io vorrò muover le mani industri;
cercar, d’intorno, dove
l’opera mia ti giovi;
glorificar la tua magnificenza;
assiduo perseguir l’alta armonia
di che la tua sublime arte s’informa;
la corsa rimirar, ricca di sensi,
delle sfere sul fulgido quadrante
che ti misura, imperioso, il tempo;
l’equilibrio scrutar delle tue forze;
e le leggi indagare, a cui rispondi
nel prodigioso giuoco
degli infiniti spazii
e dell’età infinite.

Ma il mio segreto cuore
resta fedele alla Notte divina
ed al nato da Lei fattivo Amore.
Puoi, tu, mostrarmi un’anima
che resti salda in fedeltà perenne?
Possiede il sole tuo sguardi amorosi
che mi ravvisino?
La mano mia giunge bramosa a stringere
le tue splendenti stelle?
Mi rendon, esse, la carezza blanda
ed un tenero eloquio,
ond’io le vo rivezzeggiando?
Sei tu, che ornasti di tinte soavi
l’immensità notturna,
e che chiudevi le sue forme vaghe
in fluidi contorni;
o non piuttosto conferí la Notte
piú profonda incantevole piacenza
alle tue grazie?
Qual voluttà, qual mai delizia offerte
son dalla vita tua che ribilancino
l’ebbrezza della Notte?
Maternamente al seno Ella ti stringe,
e devi il tuo splendore a Lei soltanto.
Vaniresti in te stessa, dileguando
nell’infinito spazio,
s’Ella non ti reggesse al petto avvinta,
s’Ella non ti scaldasse
a generar con la tua fiamma il mondo.

Io ero, in verità,  —  prima che fossi.
La madre Notte mi mandò, co’ miei
simili tanti, ad abitar la terra
per adornarla con la ricca mèsse
di non mai vizzi fiori;
per farla santa col divino Amore
e che si ergesse in simulacro, ignudo
agli ammiranti sguardi…

Maturi ancor non sono
questi celesti pensamenti. Ancóra,
questa svelata Verità non conta
che scarse tracce.
Ma un giorno il tuo quadrante segnerà
l’ora postrema al Tempo.
Fatta mortale come noi mortali,
allor ti andrai spegnendo
colma di ardenti insodisfatti aneliti,
per esalare l’ultimo respiro.

Avverto in me la fine
dell’operosa tua fatica lunga,
il beato ritorno a una celeste
libertà primigenia.
Con irruente sofferenza, sento
l’esilio tuo dalla patria terrena,
l’impeto tuo ribelle all’almo antico
maraviglioso Cielo.

Ma il tuo furore tempestoso, è vano.
Ché inconsutile sta, alta, la Croce:
il trionfal vesillo
della progenie umana.

Travarco i confini del Giorno:
ed ogni tormento, ogni pena,
assilli colà diverranno
d’ebbrezze infinite.

Attendi: ché infrante, tra poco,
saran le diurne catene;
ed ebbro cadrò, per posarvi,
in grembo all’Amore.

Un mare infinito di vita
mi ondeggia irruente nel cuore.
Riguardo dall’alto già vinta
la Luce del mondo.

Laggiú, sovra il tragico Gòlgota,
si spegne il suo vivo fulgore.
La Notte, ne nasce. Ed effonde
frescure soavi.

Sollevami, Amato, con foga
possente al tuo cuore celeste,
cosí chi’io mi addorma in un sonno
capace d’amore.

La Morte, da’ flutti suoi neri,
mi genera a vita novella:
avverto mutarsi il mio sangue
in balsamo etèreo.

Io vivo nel corso dei giorni
ricolmo d’intrepida fede;
e muoio le notti, in un rogo
di ardore divino.

Novalis

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Inni alla notte”, riduzione in versi italiani e introduzione di Vincenzo Errante, Gruppo Editoriale Domus, Milano, 1942

Esemplare N.759

∗∗∗

Die vierte Hymne an die Nacht

Nun weiss ich, wenn der letzte Morgen sein wird — wenn das
Licht nicht mehr die Nacht und die Liebe scheucht — wenn
der Schlummer ewig und nur ein unerschöpflicher Traum sein
wird. Himmlische Müdigkeit fühl ich in mir. — Weit und
ermüdend ward mir die Wallfahrt zum heiligen Grabe, drückend
das Kreuz. Die kristallene Woge, die, gemeinen Sinnen unvernehm-
lich, in des Hügels dunklen Schoss quillt, an dessen Fuss die
irdische Flut bricht, wer sie gekostet, wer oben stand auf dem
Grenzgebürge der Welt, und hinübersah in das neue Land, in
der Nacht Wohnsitz, — wahrlich, der kehrt nicht in das Treiben
der Welt zurück, in das Land, wo das Licht in ewiger Unruh
hauset.
Oben baut er sich Hütten, Hütten des Friedens, sehnt sich
und liebt, schaut hinüber, bis die willkommenste aller Stunden
hinunter ihn in den Brunnen der Quelle zieht — das Irdische
schwimmt obenauf, wird von Stürmen zurückgeführt, aber was
heilig durch der Liebe Berührung ward, rinnt aufgelöst in
verborgenen Gängen auf das jenseitige Gebiet, wo es, wie Düfte,
sich mit entschlummerten Lieben mischt.

 

Noch weckst du,
muntres Licht,
den Müden zur Arbeit.
Flössest fröhliches Leben mir ein.
Aber du lockst mich
von der Erinnerung
moosigem Denkmal nicht.
Gern will ich
die fleissigen Hände rühren,
überall umschaun,
wo du mich brauchst,
rühmen deines Glanzes
volle Pracht,
unverdrossen verfolgen
deines künstlichen Werks
schönen Zusammenhang,
gern betrachten
deiner gewaltigen,
leuchtenden Uhr
sinnvollen Gang,
ergründen der Kräfte
Ebenmass
und die Regeln
des Wunderspiels
unzähliger Räume
und ihrer Zeiten.
Aber getreu der Nacht
bleibt mein geheimes Herz.
und der schaffenden Liebe,
ihrer Tochter.
Kannst du mir zeigen
ein ewig treues Herz?
Hat deine Sonne
freundliche Augen,
die mich erkennen?
Fassen deine Sterne
meine verlangende Hand?
Geben mir wieder
den zärtlichen Druck
und das kosende Wort?
Hast du mit Farben
und leichtem Umriss
Sie geziert,
oder war sie es,
die deinem Schmuck
höhere, liebere Bedeutung gab?
Welche Wollust,
welchen Genuss
bietet dein Leben,
die aufwögen
des Todes Entzückungen?
Trägt nicht alles,
was uns begeistert,
die Farbe der Nacht?
Sie trägt dich mütterlich,
und ihr verdankst du
all deine Herrlichkeit.
Du verflögst
in dir selbst,
in endlosen Raum
zergingst du,
wenn sie dich nicht hielte,
dich nicht bände,
dass du warm würdest
und flammend
die Welt zeugtest.

Wahrlich, ich war, eh du warst.
Die Mutter schickte
mit meinen Geschwistern mich,
zu bewohnen deine Welt,
sie zu heiligen mit Liebe,
dass sie ein ewig
angeschautes Denkmal werde,
zu bepflanzen sie
mit unverwelklichen Blumen.
Noch reiften sie nicht
diese göttlichen Gedanken.
Noch sind der Spuren
unserer Offenbarung
wenig.
Einst zeigt deine Uhr
das Ende der Zeit,
wenn du wirst wie unser einer,
und voll Sehnsucht und Inbrunst
auslöschest und stirbst.
In mir fühl ich
deiner Geschäftigkeit Ende,
himmlische Freiheit,
selige Rückkehr.
In wilden Schmerzen
erkenn ich deine Entfernung
von unsrer Heimat,
deinen Widerstand
gegen den alten,
herrlichen Himmel.

Deine Wut und dein Toben
ist vergebens.
Unverbrennlich
steht das Kreuz
eine Siegesfahne
unsers Geschlechts.

Hinüber wall ich,
Und jede Pein
Wird einst ein Stachel
Der Wollust sein.

Noch wenig Zeiten,
So bin ich los,
Und liege trunken
Der Liebe im Schoss.

Unendliches Leben
Wogt mächtig in mir
Ich schaue von oben
Herunter nach dir.

An jenem Hügel
Verlischt dein Glanz.
Ein Schatten bringet
Den kühlenden Kranz.

Oh! sauge, Geliebter,
Gewaltig mich an,
Dass ich entschlummern
Und lieben kann.

Ich fühle des Todes
Verjüngende Flut,
Zu Balsam und Äther
Verwandelt mein Blut.

Ich lebe bei Tage
Voll Glauben und Mut
Und sterbe die Nächte
In heiliger Glut.

Novalis

da “Hymnen an die Nacht”, Athenäum-Fassung, 1800

Il secondo Inno alla notte – Novalis


Friedrich Eduard Eichens, Portrait of Novalis, 1906

 

Ritornerà, dunque, in eterno il sole?
E non avrà mai fine
il prepotente giorno?
Una dannata attività distrugge
il sacro volo della Notte santa.
Non arderà perenne,
nel suo mistero avvolto,
l’olocausto d’amore?
Fu misurato, all’alma Luce,
il tempo.
Ma senza tempo e senza spazio
è della Notte il regno;
e sempiterno il Sonno.
Sonno divino! Troppo raramente
oh, non bear, nel travaglio terreno,
quelli fra noi mortali
che la Notte iniziava ai proprii incanti!
I folli solamente, ti rinnegano:
non conoscono Sonno,
se non quell’ombra
che tu spandi pietosa su di noi
nei tornanti crepuscolari
della notte verace.
Non ti avvertono, no, nei flutti d’oro
dei grappoli premuti,
nell’olio prodigioso delle mandorle,
nel succo dei papaveri.
Non sanno che sei tu che aleggi al seno
della tenera vergine,
e che converti in cielo il grembo suo.
Non han sentore
che fuor dai mondi delle storie antiche
avanzi aprendo i cieli,
ed hai le chiavi dei soggiorni elisii
in cui stanno i Beati,
o taciturno Araldo
dei misteri infiniti!

Novalis

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Inni alla notte”, riduzione in versi italiani e introduzione di Vincenzo Errante, Gruppo Editoriale Domus, Milano, 1942

***

Die zweite Hymne an die Nacht

Muss immer der Morgen wiederkommen?
Endet nie des Irrdischen Gewalt?
Unselige Geschäftigkeit verzehrt
den himmlischen Anflug der Nacht.
Wird nie der Liebe geheimes Opfer
ewig brennen?
Zugemessen ward
dem Lichte seine Zeit;
aber zeitlos und raumlos
ist der Nacht Herrschaft.
Ewig ist die Dauer des Schlafs.
Heiliger Schlaf!
Beglücke zu selten nicht
der Nacht Geweihte,
in diesem irrdischen Tagwerk.
Nur die Toren verkennen dich
und wissen von keinem Schlafe,
als dem Schatten,
den du in jener Dämmerung
der wahrhaften Nacht
mitleidig auf uns wirfst.
Sie fühlen dich nicht
in der goldnen Flut der Trauben,
in des Mandelbaums
Wunderöl,
und dem braunen Safte des Mohns.
Sie wissen nicht,
dass du es bist
der des zarten Mädchens
Busen umschwebt
und zum Himmel den Schoos macht;
ahnden nicht,
dass aus alten Geschichten
du himmelöffnend entgegen trittst
und den Schlüssel trägst
zu den Wohnungen der Seligen,
unendlicher Geheimnisse
schweigender Bote.

Novalis

da “Hymnen an die Nacht”, Athenäum-Fassung, 1800