«Che luce negli occhi nel farsi carne l’amore!» – Franco Loi

Mario Giacomelli, Un uomo, una donna, un amore, 1960 – 61

 

Che luce negli occhi nel farsi carne l’amore!
E viene a noi dell’aria il capovolgersi del tempo,
la quiete della campagna e quel sapore
di foglie di lauro e d’uccelli sul fieno
che si fan d’aria nell’abbandonarsi al vento…
E come lucida ai fossi e la bardana!
il cielo che cala tra i refoli del frumento!
Mistero guardarsi e nel pensarsi lontani…
E non lontani da noi, ma noi nel vento,
tra i mais e l’uva, i salici, le cavagne,
i monti dietro i cipressi che chiamano la sera
e l’ovatta delle nuvole sui castagni
al tuo ritrovarti ragazza nella spera
di polvere del sole e tacere nel farsi vetro
le erbe e i lampioni, nel bere la vera
pazienza del cercarsi e mai toccarsi.

Franco Loi

da “Amur del temp”, Crocetti Editore, 1999

***

Che lüs di öcc nel fâss carna l’amur!
E vègn a nüm de aria el reultâss del temp,
la quièt de la campagna e quèl savur
de föj de làvur e d’üsej sül fen
che se fànn d’aria nel sbandunâss al vent…
E cume lüstra aj foss l’è la bardana!
el ciel che scend tra i rèful del furment!
Mister vardass e nel pensass luntan…
E no luntan de nüm, ma nüm nel vent,
fra i maíss e l’üga, i sàres, i cavagn,
i munt dré i arciprèss che ciamen sera
e i bumbâs di nüver süj castagn
al tò truâss de tusa ne la spera
pulver del sû e tâs ne l’invedriâss
di èrb e di lampiun, nel bév la vera
passiensa del cercâss e mai tuccâss.

A mia figlia – Umberto Saba

Édouard Boubat, Portrait of Anne- Marie Edvina, 1961

 

Mio tenero germoglio,
che non amo perché sulla mia pianta
sei rifiorita, ma perché sei tanto
debole e amore ti ha concesso a me;
o mia figliola, tu non sei dei sogni
miei la speranza; e non più che per ogni
altro germoglio è il mio amore per te.

La mia vita mia cara
bambina,
è l’erta solitaria, l’erta chiusa
dal muricciolo,
dove al tramonto solo
siedo, a celati miei pensieri in vista.
Se tu non vivi a quei pensieri in cima,
pur nel tuo mondo li fai divagare;
e mi piace da presso riguardare
la tua conquista.

Ti conquisti la casa a poco a poco,
e il cuore della tua selvaggia mamma.
Come la vedi, di gioia s’infiamma
la tua guancia, ed a lei corri dal gioco.
Ti accoglie in grembo una sì bella e pia
mamma, e ti gode. E il suo vecchio amore oblia.

Umberto Saba

da “Il canzoniere” (1900-1954), “I Millenni” Einaudi, 1965

Confessione – Vladimír Holan

Randolph Fritz, Court Yard Door

 

Come esserti grato
che mi sei vicina e che ho dove andare,
quando la disperazione suda con l’universo così disumanamente
finché la miseria, come una certezza, la riporta indietro nel tempo?
Aver dove andare, anche se sei di quelle donne
che disprezzano una bollente parola solo perché
fu detta durante la sbronza!

Come esserti grato
che sei così lenta, quando pure il mio male
è più veloce dell’intuizione?…
Un istante solo che t’ho dimenticata
e la notte si è fatta forte a tal segno
che s’è aperta da sola la porta di casa
da cui in fretta e furia mi ha sfrattato
la tua assenza…

Vladimír Holan

(Traduzione dal ceco di Vlasta Fesslová. Versi italiani di Marco Ceriani)

Dalla raccolta In progresso (Versi degli anni 1943 -1948)

da “Vladimír Holan, Addio?”, Arcipelago Edizioni, 2014

∗∗∗

Vyznání

Jak ti mám býti vděčný za to,
že jsi blízko a že mám kam jít,
když zoufání se potí vesmírem tak nelidsky,
až bída, jako jistota, je vrací v čas?
Míti kam jít, i když jsi z oněch žen,
jež pohrdají vroucím slovem jen proto,
že bylo praveno při opilství!

Jak ti mám býti vděčný za to,
že jsi tak pomalá, když přece moje zlo
je rychlejší než vnuknutí?…
Jen chvíli jsem tě zapomněl,
a noc tak zesílila,
že si sama otevřela dveře do bytu,
odkud mne narychlo vystěhovala
tvá nepřítomnost…

Vladimír Holan

da “Na postupu: verše z let 1943-1948”, Československý spisovatel, 1964

Un segno con l’unghia – Gesualdo Bufalino

Édouard Boubat, Lella, France, 1949

 

Di questa terra di uve soavi,
cuore, ti scorderai,
dell’erba che tremava al soffio della luna,
delle corse, dei baci, dei mandolini.
Sulla tua soglia, ora che il tempo s’inferocisce,
non son rimaste che rondini uccise,
e cenere di passi, cenere di parole.
Richiudi, o cuore, il libro del tuo giorno:
accanto a un viso fa’ un segno con l’unghia.

Gesualdo Bufalino

da “La festa breve”, in “Gesualdo Bufalino, Opere: 1 [1981, 1988]”, Bompiani, 2006

Jandira – Murilo Mendes

Foto di Peter Coulson

 

Il mondo cominciava nel seno di Jandira.

Poi spuntarono altri brani della creazione:
nacquero i capelli a coprire il corpo,
(a volte il braccio sinistro spariva nel caos),
e gli occhi, a vigilare tutto il resto.
E dalla gola di Jandira sbocciarono sirene:
l’aria tutta fu circondata da suoni
palpabili piú degli uccelli.

E le antenne delle mani di Jandira
captavano oggetti animati, inanimati,
dominavano la rosa, il pesce, la macchina.
E i morti si destavano nei sentieri visibili dell’aria
quando Jandira pettinava le sue chiome…

Poi il mondo fu tutto rivelato,
si sollevò, armato di annunci luminosi.
E intera apparve Jandira
dalla testa ai piedi.
Tutte le parti del meccanismo erano essenziali.

Ed ella si mostrò, ragazza, seguita dal corteo
di padre e madre e fratelli.
Ed erano loro a obbedire
ad ogni cenno di Jandira
che cresceva dentro la vita con grazia, bellezza e violenza.

Passavano gli innamorati, odoravano il seno di Jandira
ed erano precipitati nelle delizie dell’inferno.
Giocavano per Jandira,
per Jandira abbandonavano mogli, madri e sorelle.
E il bello è che Jandira non aveva chiesto nulla.
Certi spasimanti vivevano e morivano
per un particolare di Jandira.
Uno si suicidò per la bocca di Jandira.
Un altro per via d’un neo della guancia sinistra di Jandira.

E i capelli le crescevano con la forza delle macchine;
non un filo cadeva,
né lei li spuntava.
Ed era un disco rosso la sua bocca
quasi minimo sole.
Torno torno all’odore di Jandira
la famiglia intontita.
Quelli che venivano in visita s’impacciavano nei discorsi
per via di Jandira.
E un prete in piena messa
si dimenticò il segno della croce per colpa di Jandira.

E Jandira si sposò.
E il suo corpo inaugurò una vita nuova,
vennero fuori certi ritmi ch’erano rimasti di riserva,
combinazioni di movimento fra il seno e le anche.
All’ombra del suo corpo nacquero quattro bambine, e ripetono
le forme e i modi di Jandira fin dal principio del tempo.

E il marito di Jandira
morí nell’epidemia di spagnola.
E Jandira coprí la tomba coi capelli.
Il terzo giorno il marito
cominciò a fare un grande sforzo per risuscitare:
non si rassegna, nella sua buia stanza,
all’idea che Jandira viva sola,
che il seno, i capelli di lei perturbino la città
mentre lui resta lí, sprecato.

E le figlie di Jandira
sembrano piú vecchie di lei.
E Jandira non muore,
aspetta che le trombe del giudizio finale
vengano a chiamare il suo corpo.
Ma no, non vengono,
e anche se venissero il corpo di Jandira
risusciterebbe ancora piú bello,
agile,
trasparente.

Murilo Mendes

(Traduzione di Ruggero Jacobbi)

da “Il visionario”, (1930-1933), in “Murilo Mendes, Poesie”, Nuova Accademia Editrice, 1961

∗∗∗

Jandira 

O mundo começava nos seios de Jandira.

Depois surgiram outras peças da criação:
surgiram os cabelos para cobrir o corpo,
(às vezes o braço esquerdo desaparecia no caos).
E surgiram os olhos para vigiar o resto do corpo.
E surgiram sereias da garganta de Jandira:
o ar inteirinho ficou rodeado de sons
mais palpáveis do que pássaros.
E as antenas das mãos de Jandira
captavam objetos animados, inanimados,
dominavam a rosa, o peixe, a máquina.
E os mortos acordavam nos caminhos visíveis do ar
quando Jandira penteava a cabeleira…

Depois o mundo desvendou-se completamente,
foi-se levantando, armado de anúncios luminosos.
E jandira apareceu inteiriça,
de cabeça aos pés.
Todas as partes do mecanismo tinham importância.
E a moça apareceu com o cortejo do seu pai,
de sua mãe, de seus irmãos.
Eles é que obedecem aos sinais de Jandira
crescendo na vida em graça, beleza, violência.
Os namorados passavam, cheiravam os seios de Jandira
e eram precipitados nas delícias do inferno.
Eles jogavam por causa de Jandira,
deixavam noivas, esposas, mães, irmãs
por causa de Jandira.
E Jandira não tinha pedido coisa alguma.
E vieram retratos no jornal
e apareceram cadáveres boiando por causa de Jandira.
Certos namorados viviam e morriam
por causa de um detalhe de Jandira.
Um deles suicidou-se por causa da boca de Jandira.
Outro, por causa de uma pinta na face esquerda de Jandira.
E seus cabelos cresciam furiosamente com a força das máquinas;
não caía nem um fio,
nem ela os aparava.
E sua boca era um disco vermelho
tal qual um sol mirim.
Em roda do cheiro de Jandira
a família andava tonta.
As visitas tropeçavam nas conversações
por causa de Jandira.

E um padre na missa
esqueceu de fazer o sinal-da-cruz por causa de Jandira.

E Jandira se casou.
E seu corpo inaugurou uma vida nova,
apareceram ritmos que estavam de reserva,
combinações de movimento entre as ancas e os seios.
À sombra do seu corpo nasceram quatro meninas que repetem
as formas e os sestros de Jandira desde o princípio do tempo.

E o marido de Jandira
morreu na epidemia de gripe espanhola.
E Jandira cobriu a sepultura com os cabelos dela.
Desde o terceiro dia o marido
fez um grande esforço para ressucitar:
não se conforma, no quarto escuro onde está,
que Jandira viva sozinha,
que os seios, a cabeleira dela transtornem a cidade
e que ele fique ali à toa.

E as filhas de Jandira
inda parecem mais velhas do que ela.
E Jandira não morre,
espera que os clarins do juízo final
venham chamar seu corpo,
mas eles não vêm.
E mesmo que venham, o corpo de Jandira
ressuscitará inda mais belo, mais ágil e transparente.

Murilo Mendes

da “O visionário”, Rio de Janeiro: Jose Olympio, 1941