Sulle date e i numeri fatali – Vladimir Vysotsky

Vladimir Vysotsky

Vladimir Vysotsky

Ai miei amici poeti

Chi è morto tragicamente, è un vero poeta,
E se al momento giusto, lo è del tutto.
Al numero 26 uno di loro andò dritto verso una pallottola,
Un altro infilò la testa nel cappio all’Angleterre.¹

A 33 anni Cristo… (Era un poeta, diceva:
«Su, non uccidere! Se ucciderai, io ti troverò dappertutto».)
Ma gli misero i chiodi alle mani, perché non combinasse qualcosa,
Perché non scrivesse e perché pensasse meno.

A me, a 37 anni, – ora come ora mi sta passando la sbornia.
Ed ecco rabbrividisco:
A questo numero, Puškin arrivò giusto in tempo per il suo duello
E Majakovskij incollò la tempia alla bocca della pistola.²

Fermiamoci al numero 37! Dio è perfido,
Pose la questione come aut-aut.
Byron e Rimbaud sono caduti a questa soglia,
Ma i nostri contemporanei l’hanno oltrepassata.

Il duello non ha avuto luogo o forse è stato rinviato,
A 33 anni c’è stata crocefissione, ma non grave.
E a 33 anni non c’è stato sangue, ma che sangue?! E i capelli bianchi
Non hanno macchiato troppo le tempie.

E tirarsi un colpo? Da un pezzo il cuore è saltato in gola.
Pazienza, psicopatici e isterici!
I poeti camminano sul filo del rasoio
E si tagliano a sangue le loro anime scalze.

Il poeta ha un collo troppo lungo.
Accorciare il poeta! La conclusione è chiara, –
Ha un coltello conficcato! Ma lui è felice di pendere sgozzato
Dalla lama, per essere stato pericoloso!

Vi compatisco fanatici delle date e dei numeri fatali!
Languite come concubine nell’harem!
La durata della vita è aumentata, e forse anche la fine
Dei poeti si è spostata di un po’!

Vladimir Vysotsky

(Traduzione di Silvana Aversa)

da “19 canzoni”, Stampa Alternativa, 1992

¹Il riferimento è al poeta Lermontov, morto nel 1841 in seguito a un duello, all’età di 26 anni.
Esenin si impiccò nell’hotel “Angleterre” nella notte tra il 26 e il 27 dicembre 1925.
²Puškin fu ferito a morte in un duello nel 1837.
Majakovskij si suicidò con un colpo di pistola nel 1930 all’età di 37 anni.

Salonicco, giorni del 1969 d.C. – Manolis Anaghnostakis

Immagine dal web

 

In via Egitto – prima laterale sulla destra –
Ora si erge l’edificio della Banca del Commercio
Agenzie turistiche e uffici di emigrazione
E i ragazzini non possono piú giocare da quanti veicoli passano
Del resto i bambini sono cresciuti, è passato quel tempo che conoscevate
Adesso ormai non ridono piú, non mormorano segreti, non si confidano,
Quelli che sono sopravvissuti, s’intende, perché da allora sono sopraggiunte gravi malattie
Inondazioni, voragini, terremoti, soldati armati fino ai denti:
Ricordano le parole del padre: tu conoscerai giorni migliori
Non ha importanza in fin dei conti se non li hanno conosciuti, loro ripetono la lezione ai propri figli
Sperando sempre che un giorno si fermi la catena
Forse con i figli dei loro figli o con i figli dei figli dei loro figli.
Per il momento, nella vecchia strada che dicevamo, si erge la Banca del Commercio
– io commercio, tu commerci, egli commercia –
Agenzie turistiche e uffici di emigrazione
– noi emigriamo, voi emigrate, essi emigrano –
Dovunque viaggio la Grecia m’accora, diceva il Poeta
La Grecia con le belle isole, i begli uffici, le belle chiese

La Grecia dei Greci.

Manolis Anaghnostakis

(Traduzione di Filippomaria Pontani)

(da Il bersaglio, 1970)

da “Antologia della poesia greca contemporanea”, Crocetti Editore, 2004

∗∗∗

Θεσσαλονίϰη, μέρες τοῦ 1969 μ.Χ.

Στήν ὁδό Αἰγύπτου – πρώτη πάροδος δεξιά –
Τώρα ὑψώνεται τό μέγαρο τῆς Τράπεζας Συναλλαγῶν
Τουριστιϰά γραφεῖα ϰαί πραϰτορεῖα μεταναστεύσεως.
Καί τά παιδάϰια δέν μποροῦνε πιά νά παίξουνε ἀπό
τά τόσα τροχοφόρα πού περνοῦνε.
Ἄλλωστε τά παιδιά μεγάλωσαν, ὁ ϰαιρός ἐϰεῖνος πέρασε πού ξέρατε
Τώρα πι δέ γελοῦν, δέν ψιθυρίζουν μυστιϰά, δέν ἐμπιστεύονται,
Ὅσα ἐπιζήσαν, ἐννοεῖται, γιατί ᾔρθανε βαριές ἀρρώστιες ἀπό τότε
Πλημμύρες, ϰαταποντισμοί, σεισμοί, θωραϰισμένοι στρατιῶτες,˙
Θυμοῦνται τά λόγια τοῦ πατέρα: ἐσύ θ γνωρίσεις ϰαλύτερες μέρες
Δέν ἔχει σημασία τελιϰ ἂν δέν τίς γνώρισαν, λένε τό μάθημα
οἱ ἴδιοι στά παιδιά τους
Ἐλπίζοντας πάντοτε πώς ϰάποτε θά σταματήσει ἡ ἁλυσίδα
Ἴσως στά παιδιά τῶν παιδιῶν τους ἣ στά παιδι τῶν παιδιῶν
τῶν παιδιῶν τους.
Πρός τό παρόν, στόν παλιό δρόμο πού λέγαμε, ὑψώνεται
ἡ Τράπεζα Συναλλαγῶν
– ἐγώ συναλλάσσομαι, ἐσύ συναλλάσσεσαι, αὐτός συναλλάσσεται –
Τουριστιϰά γραφεῖα ϰαί πραϰτορεῖα μεταναστεύσεως
– ἐμεῖς μεταναστεύουμε, ἐσεῖς μεταναστεύετε, αὐτοί μεταναστεύουν –
Ὅπου ϰαί νά ταξιδέψω ἡ Ἑλλάδα μέ πληγώνει, ἔλεγε ϰι ὁ Ποιητής
Ἡ Ἑλλάδα μέ τά ὡραῖα νησιά, τά ὡραῖα γραφεῖα,
τίς ὡραῖες ἐϰϰλησιές

Ἡ Ἑλλάς τῶν Ἑλλήνων.

Μανόλης Ἀναγνωστάκης

da “ Ὁ Στόχος”, 1970

L’amica dei poeti – Marcello Comitini

Benedetto De Lisi, Le due amiche (particolare)

 

Di te, del tuo sguardo, del tuo corpo di donna
dei tuoi timori e del grigio annuncio del futuro
– cieco all’improvviso divenuto sordo –
tutto ho perduto.
Tutti i dolori e tutte le paure.
Né le tue gioie – mai potrei trovarle
nascoste dietro un velo di parole.
Non tue ma dei poeti
che scavalcano i monti
con l’orgoglio di chi conosce il cielo.
Volano
ti rapiscono con gli artigli delle aquile
ti portano più in alto dove è limpida l’aria.

Di tutto questo soffro. Ma tu
non puoi vederlo perché per te l’amore
sorge a un orizzonte rabbuiato dalle nuvole.
E mi accusi d’essere inetto ed incapace
di volare assieme a te,
di spegnere la sete che la luce infonde a chi
v’immerge le ali del sogno.
Cosa posso fare io cantore e cieco?
Trascino le mie ali lungo il mio deserto
di polvere e di gesso.
– Io poeta sordo al mio stesso canto.

Marcello Comitini

da “Quarto Giorno: poesie”, Edizioni Caffè Tergeste, 2018

AMAZON – Marcello Comitini, Quarto Giorno: poesie, Edizioni Caffè Tergeste, 2018
FELTRINELLI – Marcello Comitini, Quarto Giorno: poesie, Edizioni Caffè Tergeste, 2018

Opera postuma – Adam Zagajewski

Foto di Grzegorz Jakubowski

 

Il treno si fermò in un campo; l’improvviso silenzio
svegliò anche i fanatici fautori del sonno.
Le lontane luci dei magazzini o delle fabbriche
luccicavano nella nebbia come i gialli occhi dei lupi.
Itineranti uomini d’affari sgobbavano al computer,
calcolando il profitto e la perdita del giorno trascorso.
L’hostess portava caffè in cui era confitta l’amarezza.
Ewig, ewig, l’ultima parola di Das Lied von der Erde,
ripetuta tante volte; ricordi, ascoltavamo
insieme questa musica e questa promessa alla quale
volevamo allora così tanto credere.

Non si sa se siamo ancora in Olanda,
o già in Belgio. Ma che differenza fa?
Sbocciava una sera d’inverno e la terra era nascosta
sotto le grosse strisce del crepuscolo; potevamo
immaginare la vicina presenza della nera acqua del canale,
immobile, privata della gioia dei torrenti montani
e della gran meraviglia dei nostri oceani.
I gialli occhi dei lupi tremavano di una nervosa luce
al neon, ma nessuno temeva l’attacco degli indiani.
Il treno si fermò nell’ora in cui non dorme
la ragione, ma dorme l’anima, il suo nobile desiderio.
In un altro momento ascoltavamo
il quintetto postumo di Schubert, dove la disperazione
si dichiara tante volte, appassionata, quasi ossessiva,
rinnovando il suo attacco all’indifferenza
raffinata della sala, delle dame in pelliccia
e dei recensori, piccoli emissari di grandi riviste.
Mentre una volta, a passeggio, a mezzanotte, in campagna,
d’estate, ci trattenne un suono molto singolare: lo sbuffare
e nitrire d’invisibili cavalli al pascolo. Come se la notte
ridesse, fra sé e sé, felice. Cos’è la poesia, se tanto poco vediamo?

Cosa saranno la salvezza, il sopravvivere, il riscatto,
se nulla ci minaccia? Un quintetto postumo! Solo la musica cresce
anche dopo la morte, la musica e le chiome degli alberi.
Se i fiumi ci dessero il miele e il latte dell’incanto,
se le danzatrici tornassero a ballare nel delirio…
Ma non siamo soli. L’antiquata chitarra un giorno
comincerà a cantare, sola con se stessa, a se stessa.
E il treno infine si metterà in moto, la terra si cullerà
sotto il suo maestoso peso e lenta
si avvicinerà a Parigi, con la sua aura dorata,
col suo grigio dubitare.

Adam Zagajewski

(Traduzione di Marco Bruno)

da “Desiderio, 1999”, in “Guarire dal silenzio, Nuovi versi e poesie scelte”, “Lo Specchio” Mondadori, 2020

∗∗∗

Opus pośmiertne

Pociąg zatrzymał się w polu; nagła cisza
zbudziła nawet fanatycznych wyznawców snu.
Dalekie światła magazynów czy fabryk
migotały we mgle jak żółte oczy wilków.
Wędrowni biznesmeni ślęczeli nad komputerem,
obliczając zysk i stratę minionego dnia.
Stewardesa niosła kawę, w której tkwiła gorycz.
Ewig, ewig, ostatnie słowo Pieśni o ziemi,
powtarzane tyle razy; pamiętasz, słuchaliśmy
razem tej muzyki i tej obietnicy, w którą
tak bardzo chcieliśmy wtedy uwierzyć.

Nie wiadomo, czy jeszcze jesteśmy w Holandii,
czy może już w Belgii. Co to za różnica.
Był wczesny zimowy wieczór i ziemia ukryła się
pod grubymi smugami zmierzchu; można się było
domyślić bliskiej obecności czarnej wody kanału,
nieruchomej, pozbawionej radości górskich potoków
i wielkiego zdziwienia naszych oceanów.
Żółte ślepia wilków drżały nerwowym, neonowym
światłem, lecz nikt się nie bał ataku Indian.
Pociąg zatrzymał się w momencie, kiedy rozum
nie śpi, ale śpi dusza, jej szlachetne pragnienie.

Kiedy indziej słuchaliśmy pośmiertnego kwintetu
Schuberta, w którym rozpacz deklaruje się
wielokrotnie, namiętnie, nieomal natrętnie,
ponawiając swój atak na obojętność
wytwornej sali koncertowej, dam w futrach
i recenzentów, małych wysłanników wielkich pism.
A kiedyś na spacerze, o północy, na wsi, w lecie,
zatrzymał nas niezwykły dźwięk: parskanie i rżenie
niewidocznych koni na pastwisku. To było tak,
jakby noc się śmiała, sama dla siebie, szczęśliwa.
Czym jest poezja, skoro tak mało widzimy?

Czym może być ocalenie, jeśli nic nam nie zagraża?
Pośmiertny kwintet! Tylko muzyka rośnie
jeszcze po śmierci, muzyka i włosy drzew.
Gdyby rzeki dały nam miód i mleko zachwytu,
gdyby tancerki znowu zaczęły tańczyć w obłąkaniu…
A jednak nie jesteśmy sami. Staroświecka gitara
któregoś dnia zacznie śpiewać, sama dla siebie.
I pociąg ruszy wreszcie, ziemia zakołysze się
pod jego majestatycznym ciężarem i powoli
zacznie się przybliżać Paryż, z jego złotą aurą,
z jego szarym wątpieniem.

Adam Zagajewski

da “Pragnienie”, Wydawnictwo a5, Kraków, 1999

«E finalmente ho trovato» – Marina Ivanovna Cvetaeva

Salvatore Fiume, A Susette (Ritratto di Marina Cvetaeva), 1956

 

E finalmente ho trovato
chi mi è necessario:
qualcuno ha bisogno di me
— come aria.

Quanto più nero e mortale –
Più necessario è il bisogno
dell’altro — di te. Di chi
non può fare a meno

di me — suo pane e respiro.
Occorro — a qualcuno:
accorro, rispondo
al prima richiamo.

Più alto, più certo e sicuro
delle montagne: a qualcuno
serve una mano: la mia!
sulle piaghe!

E tutto il braccio — nel fuoco!
Più della luce degli occhi
mi serve l’umano bisogno
di me — come fiato.

Marina Ivanovna Cvetaeva

11 settembre 1936. Savoia

(Traduzione di Serena Vitale)

da “Poesie non raccolte in volume” (1928-1941), in “Dopo la Russia”, 1988

∗∗∗

Наконец-то встретила
Надобного − мне:
У кого-то смертная
Над оба − во мне.

Что для ока − радуга,
Злаку − чернозем −
Человеку − надоба
Человека − в нем.

Мне дождя и радуги
И руки − нужней
Человека надоба
Рук − в руке моей.

Это − шире Ладоги
И горы верней −
Человека надоба
Ран − в руке моей.

И за то, что — с язвою
Мне принес ладонь −
Эту руку − сразу бы
За тебя в огонь!

Марина Ивановна Цветаева

11 сентября 1936. Савойя