La Vergine di Spoleto – Aleksandr Aleksandrovič Blok

Paolo Roversi, Vlada Roslyakova

 

Sottile sei come un cero del tempio,
l’occhio hai trafitto da spade d’amore.
Io non ti chiedo un sol bacio: in silenzio
vorrei deporre sul rogo il mio cuore.

Io non ti chiedo una sola carezza:
t’offenderebbe la mia rozza mano.
Ma dal cancello ti guardo in purezza
rose di porpora cogliere e t’amo.

Sempre ti bruciano i raggi del sole
e via t’involi sul vento che fugge.
Su te c’è un angelo senza parole:
io gusto in cuore il dolor che mi strugge.

Mentre t’intreccio nei riccioli, adagio,
dei versi ignoti gli strani diamanti,
getto il mio cuore invaghito nel lago
meraviglioso degli occhi raggianti.

Aleksandr Aleksandrovič Blok

(Traduzione di Renato Poggioli)

da Il fiore del verso russo”, Passigli Editori, 1998

∗∗∗

Девушка из Spoleto

Строен твой стан, как церковные свечи.
Взор твой – мечами пронзающий взор.
Дева, не жду ослепительной встречи –
Дай, как монаху, взойти на костёр!

Счастья не требую. Ласки не надо.
Лаской ли грубой тебя оскорблю?
Лишь, как художник, смотрю за ограду,
Где ты срываешь цветы,- и люблю!

Мимо, всё мимо – ты ветром гонима –
Солнцем палима – Мария! Позволь
Взору – прозреть над тобой херувима,
Сердцу – изведать сладчайшую боль!

Тихо я в тёмные кудри вплетаю
Тайных стихов драгоценный алмаз.
Жадно влюблённое сердце бросаю
В тёмный источник сияющих глаз.

Алекса́ндр Алекса́ндрович Блок

3 Июнь 1909

da “Стихотворения. Поэмы. Театр”, Гос. изд-во худож. лит-ры, 1955

Vivi – Alfonso Gatto

Foto di Johan van der Keuken

 

Una casa da nulla, una ragazza alle persiane
e il meriggio era dolce di vivere,
d’aver speranze e paure.

Il meriggio era vapori che lavorano
e gli uomini del canale
che mostrano il bianco degli occhi, ma vivi.

Una casa da nulla pareti accostate
fragile ma viva,
e sera che lascia aperta la porta
e s’ode la fontanina
s’ode la lampada apparsa sulla tovaglia.

Non venga la notte, non venga la morte
degli oziosi re di pietra,
non venga la legge delle paure.
Chi vive è leggero,
è stanco in tutto il mondo.

Chi vive è senza gloria.

Alfonso Gatto

da “Amore della vita, 1944”, in “La storia delle vittime. Poesie della resistenza”, Mondadori, Milano, 1966

«Ah!, quante cose perdute» – Pedro Salinas

Foto di Alessio Albi

[X]

Ah!, quante cose perdute
che perdute non erano.
Tutte le serbavi tu.

Minuti grani di tempo,
che portò via un giorno il vento.
Alfabeti della spuma,
che un giorno il mare travolse.
Io li credevo perduti.

E perdute le nubi
che pretendevo fermare
nel cielo
fissandole con occhiate.
E l’allegria alta
dell’amore, e l’angoscia
di non amare abbastanza,
e l’ansia
di amare, di amarti, di piú.
Tutto perduto, tutto
nell’essere stato un tempo,
nel non esistere piú.

E allora tu sei venuta
dal buio, radiosa
di giovane pazienza profonda,
agile, perché non pesava
sui tuoi fianchi snelli,
sulle tue spalle nude,
il passato che tu,
cosí giovane, portavi per me.
Ti guardavo alla luce dei baci
vergini che mi hai dato,
e tempi e spume
e nubi e amori perduti
furono salvi.
Se da me fuggirono un giorno,
non fu per morire
nel nulla.
In te continuavano a vivere.
Ciò che chiamavo oblio
eri tu.

Pedro Salinas

(Traduzione di Emma Scoles)

da “La voce a te dovuta”, Einaudi, Torino, 1979

∗∗∗

[X]

«¡Ay!, cuántas cosas perdidas»

¡Ay!, cuántas cosas perdidas
que no se perdieron nunca.
Todas las guardabas tú.

Menudos granos de tiempo,
que un día se llevó el aire.
Alfabetos de la espuma,
que un día se llevó el mar.

Yo por perdidos los daba.
Y por perdidas las nubes
que yo quise sujetar
en el cielo
clavándolas con miradas.
Y las alegrías altas
del querer, y las angustias
de estar aún queriendo poco,
y las ansias
de querer, quererte, más.
Todo por perdido, todo
en el haber sido antes,
en el no ser nunca, ya.

Y entonces viniste tú
de lo oscuro, iluminada
de joven paciencia honda,
ligera, sin que pesara
sobre tu cintura fina,
sobre tus hombros desnudos,
el pasado que traías
tú, tan joven, para mí.
Cuando te miré a los besos
vírgenes que tú me diste,
los tiempos y las espumas,
las nubes y los amores
que perdí estaban salvados.
Si de mí se me escaparon,
no fue para ir a morirse
en la nada.
En ti seguían viviendo.
Lo que yo llamaba olvido
eras tú.

Pedro Salinas

da “La voz a ti debida”, Madrid, Signo, 1933

Innocenza – Patrick Kavanagh

W. Eugene Smith, Walk to Paradise Garden, 1946

 

Loro ridevano dell’unica cosa che amavo –
Quella collina a forma di triangolo appesa
Com’è al Big Forth. Dicevano

Che ero incatenato da siepi di biancospino
Siepi di fattoria e non conoscevo il mondo.
E invece sapevo che la porta d’accesso che l’amore dà sulla vita
È la stessa porta d’accesso, ovunque.

Imbarazzato da questo mio amore
Fuggii da lei e la chiamai cunetta
Sebbene lei mi guardasse con un sorriso di viole.

Ma ora sono tornato qui nell’abbraccio dei suoi tralci.
La rugiada mattutina di un’estate indiana riposa
Sugli steli imbiancati delle patate –
Che età ho?

Non so che età io abbia
Non ho un’età mortale;
Non so nulla di donne,
Nulla di città,
Ma non posso morire
Senza oltrepassare queste siepi di biancospino.

Patrick Kavanagh

(Traduzione di Saverio Simonelli)

da “Andremo a rubare in cielo”, Ancora, 2009

∗∗∗

Innocence

They laughed at one I loved –
The triangular hill that hung
Under the Big Forth. They said

That I was bounded by the whitethorn hedges
Of the little farm and did not know the world.
But I knew that love’s doorway to life
Is the same doorway everywhere.

Ashamed of what I loved
I flung her from me and called her a ditch
Although she was smiling at me with violets.

But now I am back in her briary arms;
The dew of an Indian Summer morning lies
On bleached potato-stalks –
What age am I?

I do not know what age I am,
I am no mortal age;
I know nothing of women,
Nothing of cities,
I cannot die
Unless I walk outside these whitethorn hedges.

Patrick Kavanagh

da “Collected Poems”, W. W. Norton & Company, 1964

La traversata – Maurizio Cucchi

Foto di Luigi Ghirri

 

Arrivo al porto con l’ansia
e la gioia dell’avventura.
È stato difficile. Voglio dire venir fuori
per vivere. Star dentro
per non morire, e dire:
ventre, acqua, tetto, morbido
cuore, letto.

∗∗∗

Nell’attesa, per quei pochi minuti
mi accomodo sereno e vedo
come un film, per me, la sospensione,
il giorno che agisce fresco e scorre
nei gesti degli uomini.
Sento le cose ruvide
addosso, mie. Le cose
sporche e piene. Così
ci sono dentro. Anch’io.
Sarà la polvere nel vento
leggero, la barca sudicia e il rampone,
la cassetta, il guanto del pescatore,
le macchie d’olio, le cicche,
i saluti scomposti e le risate,
l’odore del cuoio che mi piace.

∗∗∗

L’insegnamento è sempre uguale:
succhiare questa sola radice di terra
con ansia, sfiorare questa macchia di morchia.
Se no perdiamo vita, presente e conoscenza.
Perdiamo conoscenza. L’incontro
dev’essere in attrito
diretto e fisico fino a farsi
abrasivo:
ruvido il mondo,
l’esperienza
abrasiva.
Far fruttare anche il minimo gesto.

∗∗∗

È tutto pieno nel suo passaggio,
vivo. Come l’aurora, il vento
o questo mediocre paesaggio
carico di memoria, affetti,
e quest’angoscia distratta.

∗∗∗

Guardo con attenzione, indugio
diligente e curioso. Non so.
Guardo il furgone azzurro, il risalto
granuloso di ruggine che mangia
materia, che mangia la materia.
L’autista che carica i bagagli,
le unghie cerchiate di nero,
le dita nere, sorridente,
la cicca tra le labbra, la camicia
appiccicata alla schiena.
Max e il camionista che al volo
si passano le casse pesantissime:
da fracassare i muscoli, i muscoli
che invece tengono.

∗∗∗

La traversata, così attesa. Il battello
screpolato, mezz’ora di avventura. Mi sposto,
guardo in alto la casa anche per me
intonacata di luce.
Scavalco la merce, le valigie
e l’operaio che si guarda le mani.
Ha toccato la catena e ha le dita
tutte macchiate di morchia.

∗∗∗

Seduto in fondo, rido per l’acqua
che arriva a schizzi sui sedili
sverniciati. Ho visto il volto terreo
dell’oste, il grande corpo
smangiato e d’improvviso, con un brivido,
il cranio rasato della dolce postina. Parlottavo,
leggero. Ma quando ho mosso lo sguardo
verso l’orizzonte
è sceso un cupo silenzio
e mi ha assorbito. Desideroso
di luce e terra l’orizzonte è una lama,
uno specchio che mi cancella.

∗∗∗

Oppure una linea sottile,
immaginaria, che si intreccia a cappio,
orlo di un precipizio, un Maelström,
che chissà cosa inghiotte e annulla,
divora eternamente; sul disco piatto
della terra, sotto il sole che va.
Una sabbia mobile o un invisibile
immenso borro
di un astro immenso collassato.

∗∗∗

Mi venivano in mente,
mentre guardavo gli amici malati,
certe strane idee.
Dio, anima: parole,
concetti remotissimi, inservibili,
bolle svuotate, strutture
di pensiero arcaico.

∗∗∗

Il marinaio scende nella botola
con uno straccio, fischiettando,
e dal fondo si alza subito un rumore
assordante di macchina. Poi ricompare,
si aggiusta il berretto sulla fronte
e guarda l’orizzonte, indifferente.
Sa già che presto si rivedrà il paese.
Ho sentito la mia voce che diceva:
«Tutto è materia, c’è un vorticare
di materia. Fuori, dentro di noi,
nel cosmo, in questo sasso
che sto gettando in mare, in quello
che tu chiami il vuoto, o che tu chiami
lo spazio. Aggregazioni varie di materia
orribili e mirabili. Campi e forze,
vibrazioni che creano
materia».

∗∗∗

Evapora poi lento, nel tempo
che non sappiamo, lento, in un crescendo
di luminosità, l’enorme
caverna materia, spaziale.
Inarrestabile
diventa allora lieve, evanescente
e il suo orizzonte
al confine estremo delle cose,
degli eventi, sembra dissolversi
e svanire
lasciandosi alle spalle il nulla.

Ma che cos’è
il nulla?

∗∗∗

Allora ho pensato a te,
che mi chiamavi e alzando
quel poco lo sguardo ho osservato
prima indistinta, come una suggestione,
infine quasi chiara, una forma
avanzare, oscillare. Come una nave,
o di sicuro una nave
che rompeva l’orizzonte arrivando
in una strana, confusa evanescenza.
Come un messaggio sbucava, come
un’informazione viva
o superstite, integra,
emersa da un nero immenso tutto.

∗∗∗

Infatti, sulla superficie vasta del deserto
d’ebano galleggiavano avanzi, rottami
rigettati dall’abbraccio del vortice, sottratti
al precipizio eterno.

∗∗∗

Restava poco, pochissimo,
prima di mettere a terra il piede.
Sentivo il cibo covare attivo dentro,
caldo come un’eco di sapore
di calmo conforto silenzioso.
Il corpo-cibo della madre che ti scalda.
Pensavo anch’io: il grembo è tutto.

∗∗∗

Ecco le cose che ancora
sanno di noi, il semplice
che come nostro vive
nella mano e nel gesto,
negli occhi e nel cuore.
Le cose felici, perché nostre,
perché di noi ricolme.
Pierre vide il soldato,
l’ometto nei suoi gesti tondi,
accurati, sciogliersi le cordicelle
della gamba, appendere a un uncino
le scarpe, mettersi a posto gli abiti
che odoravano di lui.
Tutto il male, pensava, non viene
dalla mancanza delle cose,
ma dal loro superfluo.

∗∗∗

Perché l’eccesso – dico io – distrae,
rende discreto, occasionale,
il tuo attrito vivo con le cose
e ti sottrae, così, vita, valore.

∗∗∗

Ho chiuso in tasca il temperino
come inchiodando la freccia del tempo.
Sono qui, nel presente ablativo,
mio

e mettendo già il piede sul suolo
mi fingo a me stesso più goffo
per darmi certezza del felice attrito
col mondo, con la materia
che mi accoglie e accarezza.
Che dolcemente mi azzera.

Maurizio Cucchi

da “Vite pulviscolari”, Lo Specchio Mondadori, 2009

La traversata: vi ricorrono, per confronto o coincidenza, elementi del celebre racconto di E.A. Poe Una discesa nel Maelström e da suggestioni tratti da testi di astrofisica come Buchi neri evanescenti, Stephen Hawking e la scommessa perduta (Nottetempo, Roma 2005) di Monica Colpi.
intonacata di luce: è di Attilio Bertolucci, in Verso le sorgenti del Cinghio.
Pierre: di Guerra e pace.