Non finirò di scrivere sul mare – Giuseppe Conte

Foto di Tina Fersino

1

Non finirò di scrivere sul mare.
Non finirò di cantare
quello che c’è in lui di estatico
quello che c’è in lui di abissale
la sua vastità disumana
senza pesantezza, senza un vero confine
la sua aridità senza sete, senza spine
le sue forme in perenne mutamento
sottomesse alle nuvole, al vento
e al cammino in cielo della luna.
Non ne conosco, non c’è nessuna
cosa più docile e più feroce
più silenziosa e più roca
più malleabile e turbolenta
di te, mare.
Ti piace contraddirti perché sei libero
e per i liberi. Ti piace ridere
sotto il bianco tiepido soffio del levante
ti piace saccheggiare con le libecciate
e piangere con nere palpebre tagliate.
Hai visto civiltà passare, quante?
Molto prima degli uomini e degli imperi
molto prima delle montagne e delle foreste
tu eri là.
Celebravi le tue solitarie feste.
Hai visto le triremi dei cartaginesi
le galee armate dai genovesi
numerose come stelle, alte come torri
le navi che portarono in Islanda
i vichinghi fuggiaschi che raccontò Snorri
Sturluson con le sue fisse metafore.
Hai visto come si nasce e come si muore,
hai visto i polipi scindersi e gemmare
meduse su meduse nei fondali,
i naufraghi invano cercare
tra ghiacci e gorghi la salvezza
e non hai mai mosso un dito per loro,
hai accolto nel tuo silenzio buio i relitti,
li hai incrostati, protetti,
sei un vecchio padrone cinico
una madre troppo carezzevole
sei un amante incestuoso
sei un onanista, un asceta.

E se ti contraddici, è perché sei libero
e per i liberi, non hai dato all’uomo
la possibilità di recintarti, di venderti
di fare di te lotti, proprietà
hai dato fiori di luce senza frutti
hai dato ricchezze, hai dato lutti
ma mai tutto te stesso.
Di te nessuno può dire: sei mio.
Sei di tutti e di un esiliato dio.
Non servi, non ti inchini
se non alla legge delle maree
che un metronomo cosmico ha definito.
Ti amano i solitari, i lussuriosi
che trovano in te tutte le sinuosità
tutte le vischiosità del piacere
ti amano gli increduli, i cercatori
d’oro e di niente,
gli esseri tenuti in scacco da un insano
desiderio di conoscere l’eterno grazie al presente
ti amano i visionari, gli avventurieri,
tu non sei per chi è statico e appagato
ti amano i disperati, prigionieri
di un sogno che non si è mai avverato.

2

Non finirò di scrivere sul mare.
Perché il mare è le Sirene la cui voce
calamitante d’amore oscura
voglio ascoltare senza paura
io che non ho dove tornare, non ho un’Itaca
né Penelope né Telemaco che valgano
più del canto e delle traversate.
Perché il mare è le balene, i cui corpi
vasti e grondanti, innocenti,
scaldano i desideri più smisurati
e danzano nel più lento
arduo accoppiamento
che si conosca sul pianeta.
Perché il mare è le onde, istantanee e frananti
che scalpitano e scavano dall’orizzonte
sino alla riva, è la spuma che riga
l’aria di salino
è sentirsi vicino
all’inizio di ogni lacerazione
al primo scoccare del tempo
alla prima decisione di una cellula
– o sogno che sia stato, dirompente e fatale –
di diventare mortale.

3

Sono esausto, sono ferito, ma
neppure così sarà finita, mare,
te lo assicuro, per quanto potrò
scriverò ancora su di una mattina
come quella che sul parabrezza
della mia auto, fuori da un parcheggio
dell’aeroporto di Nizza,
mi sei venuto immenso in corsa incontro
solcato da soffi di vento
simile a un mantello della Vergine
dipinto da Beato Angelico e gettato
su rami di meli e ciliegi fioriti.
E scriverò di quella notte
quando tu oleoso e nero, traccheggiante
tra gru e silos, pontoni e rimorchiatori
tu mare del porto, dei lavoratori
chiuso tra muraglie di container
sezionato dai moli
hai intonato da non so che punto
di te
una musica del tutto inattesa
che evoca rovine, ranuncoli e voli
crolli immani e sciami di api
rugiada ritrovata in fondo al baratro
del nulla
quella notte sul Golfo della Spezia.
E io ti dico grazie, grazie, grazie
vita, desiderio di vita,
redenzione d’amore
che dopo la distruzione
dell’universo attraverso il fuoco
fai rinascere una primula, un croco,
bisogno irrefrenabile di sempre
nuova resurrezione,
ancora vita.
Tu mare lo sai che è così.
Che non sarà finita.

4

Scriverò, mare, sulla tua anima
a pezzi nei sacchi di plastica
di chi ti avvelena e ti spopola
di chi ti snatura
e ti riscalda fuori misura
in modo che tu sciogli
monti di ghiaccio e sperdi
fuori dei confini a cui sono usi
pesci di tante famiglie
e fai proliferare le meduse.
Ci sono uomini schiavi che vorrebbero
ridurti a schiavo, profanarti
occuparti, violarti, dare un prezzo
anche a te, farti cimitero
di uccelli, delfini e migranti.
Ma non potranno. Per quanti
siano basta una tua onda a respingerli.
Non saranno mai chiuse
le porte del tuo tempio, mare,
così sante per chi ancora le sa vedere,
tu azzurro come le moschee di Isfahan,
tu dorato come la cattedrale di San-
tiago de Compostela
tu orizzontale come quella di Palma
de Maiorca, estesa, calma,
quasi fosse un tuo riemerso altare.
Non finirò di scrivere sul mare.

Da ragazzo volevo imparare a camminare
su di te, leggero come un ramo,
rispondendo a non so quale richiamo
di profezia, di eresia.
Lo voglio ancora, ne voglio ancora,
di mare, di poesia.
Per tutte le infelicità, le umiliazioni
per tutto quello che di male
mi fa la terraferma, tu sei medicina,
mare, spettacolo che appare
sempre crudo e dolcissimo ai miei occhi
come questo della tortora maschio
che sulla riva con assurdi tocchi
d’ala, planate, rincorse, svoli
insegue senza mai riuscire a prenderla
la tortora femmina.
Un coito impossibile, come il tuo
con la terra, come il mio con la vita.
Eppure sono qui, non è finita
ancora. E scriverò di te,
sempre di te, delle tue amare
verità di sale
della gioia che dai alle vele,
di te che sei ciurma e solitudine
di te che sei infinito e finitudine
padre o madre o fratello primogenito
spalancato come un abisso,
segreto come una conchiglia
sempre al di là di quello che possiamo conoscere –
e se ti contraddici è perché sei libero
e per i liberi – non finirò di scrivere
su di te mare, il sempre mare,
non finirò di cantare
di te.

Giuseppe Conte

da “Inediti”, inGiuseppe Conte, Poesie (1983-2015)”, Mondadori, 2015

Questa poesia in quattro sezioni e con andamento sinfonico è stata scritta appositamente per l’occasione del premio L’olio della poesia, organizzato dal Comune di Carpignano Salentino e dalla Provincia di Lecce. Il testo è stato pubblicato in un quaderno dall’editore Manni (2009, a cura di Massimo Melillo) e distribuito durante la serata del premio ai partecipanti all’incontro sulla piazza di Serrano di Carpignano Salentino. Qui viene riprodotto con alcune importanti variazioni. L’idea del testo è stata concepita a Palma de Maiorca, i primi versi sono stati scritti a Saint-Jean Cap Ferrat durante il locale Festival du livre de mer, e poi il lavoro è continuato tra La Spezia e Sanremo. Gli autori di cui ho maggiormente sentito gli echi scrivendo sono D.H. Lawrence, J.L. Borges e l’ultimo Mario Luzi. Quasi superfluo citare anche Mediterraneo dagli Ossi di seppia di Montale, uno dei testi di culto, per me, del poeta genovese. Alcune presenze hanno influito sul testo: quella di Paul Watson, tra i fondatori di Greenpeace, ascoltato a Cap Ferrat combattivo e piratesco in mezzo a giovani e bellissime aderenti di Seashepherd, e quella della navigatrice Catherine Chabaud, ascoltata nella stessa occasione. Gli amici che mi hanno incoraggiato e a cui devo un ringraziamento particolare sono Margarita Moragues e suo marito Olivier, di Palma de Maiorca, per i nostri discorsi sulla bellezza, Stefano Verdino, che mi ha ricordato la presenza di Wagner sul golfo della Spezia, Giuseppe Sertoli che mi ha fatto leggere alcune pagine terse come il diamante di Elizabeth Bishop. (Giuseppe Conte)

			

«Nessuno in questa famiglia» – Philip Schultz

 

Nessuno in questa famiglia sospetta mai di essere infelice;
anzi, più infelici siamo, meno lo sospettiamo.
Mio zio se ne va in giro con un rasoio legato a un laccio rosso
intorno al collo, urlando e pestando sulle cose.
Quando è infuriato, e lo è sempre, si accovaccia a terra
e urla finché ha le vene del collo gonfie come condotti di vapore.
Mamma si chiude in bagno con me e con nonna finché non si è sfogato.
Passiamo molto tempo in bagno senza mai sospettare niente.
Non avevano tutti a Cuba Place uno zio nascosto
in una stanzetta accanto alla cucina che urlava in una radio della polizia e scriveva
lettere ai presidenti morti mentre leggeva riviste sexy tutta la notte?
Non vivevano tutti in una casa dove tutti si sentivano fregati,
ignorati, e senza speranza di redenzione?

Philip Schultz

(Traduzione di Paola Splendore, con la collaborazione di Maria Baiocchi, Barbara Fiore e Sandro Triulzi)

da “Vivere nel passato”, in “Il dio della solitudine”, Donzelli Poesia, 2018

∗∗∗

«No one in this family»

No one in this family ever suspects they’re unhappy;
in fact, the less happy we are, the less we suspect it.
Uncle walks around with a straightedge razor tied round
his neck on a red string, screaming and pounding on things.
When he’s angry, and he’s always angry, he drops to a crouch
and screams until the veins in his neck bulge like steam pipes.
Mother locks herself, Grandma, and me in the toilet until he’s flat.
We spend a lot of time in the toilet never suspecting anything.
Didn’t everyone on Cuba Place have an uncle who hides
in a tiny room off the kitchen yelling at a police radio and writing
letters to dead presidents while reading girlie books all night?
Didn’t everyone live in a house where everyone feels cheated,
ignored, and unredeemed?

Philip Schultz

da “Living in the Past”, Harcourt, 2004

da «Ogni giorno, dal cielo alla notte» – Pierluigi Cappello

Foto di Maria Cecilia Camozzi

Cassacco, anno zero

Ci sono dei libri che prendono forma dalle circostanze. Caso, necessità, sfinimento, pigrizia o destino, sono alcune delle forze che ne sollevano i rilievi, scavano profonde valli, dispongono in alto le creste e in basso le foci, i profili delle coste. Però, non posso dire che sto scrivendo delle pagine per caso, così come non posso dire che le sto scrivendo per destino. Niente caso né destino, quindi, e nemmeno pigrizia: anche se nel sottosuolo se ne avvertono le fusa, è un modo faticoso per ravvivare i tempi lunghi del letto. Ma posso scrivere una cosa, sì: c’è come un’intercapedine di luce a separare la cinciallegra che ho appena visto spiccarsi dal ramo all’aria composta di questo giorno e la parola fresca di grafite che scrivo adesso: cinciallegra. Quell’intercapedine, forse, quell’inoltrarsi pieno di mistero tra le parole e le cose che sottolinea con ogni evidenza la nostra separatezza dal mondo, ma accende i nostri desideri, è il motore per il quale queste pagine si stanno riempiendo. Un polo magnetico come il buco di una serratura, cui si accosta l’occhio con curiosità e tremore, logorati nella tensione. Sì. Sto scrivendo per sfinimento.

[…]

Pierluigi Cappello

da “Ogni giorno, dal cielo alla notte”, in “Un prato in pendio”, Rizzoli, 2018

 La danza immobile – Alejandra Pizarnik

Alejandra Pizarnik, foto di Sara Facio

 

Messaggeri nella notte hanno annunciato ciò che non udimmo.
Si è cercato sotto l’ululato della luce.
Si è voluto fermare l’avanzare delle mani inguantate
che strangolavano l’innocenza.

E se si sono nascoste nella casa del mio sangue,
per quale motivo non mi trascino fino all’amato
che muore dietro la mia tenerezza?
Perché non fuggo
e mi inseguo con coltelli
e mi deliro?

Di morte si è intessuto ogni istante.
Io divoro la furia come un angelo idiota
invaso da erbacce
che gli impediscono di ricordare il colore del cielo.

Però io e loro sappiamo
che il cielo ha il colore dell’infanzia morta.

Alejandra Pizarnik

(Traduzione di Roberta Buffi)

da “Alejandra Pizarnik, Poesia completa”, Lietocolle, 2018

∗∗∗

La danza immóvil

Mensajeros en la noche anunciaron lo que no oímos.
Se buscó debajo del aullido de la luz.
Se quiso detener el avance de las manos enguantadas
que estrangulaban a la inocencia.
 
Y si se escondieron en la casa de mi sangre,
¿cómo no me arrastro hasta el amado
que muere detrás de mi ternura?
¿Por qué no huyo
y me persigo con cuchillos
y me deliro?
 
De muerte se ha tejido cada instante.
Yo devoro la furia como un ángel idiota
invadido de malezas
que le impiden recordar el color del cielo.
 
Pero ellos y yo sabemos
que el cielo tiene el color de la infancia muerta.

Alejandra Pizarnik

da “Las aventuras perdidas” (1958), in “Alejandra Pizarnik, Poesía Completa”, Lumen Barcellona, 2001

«Rollo una cicca» – Thomas Amadei

Foto di Imma Varandela

 

Rollo una cicca
come ogni sera
quando arriva la notte.

Rollo una cicca,
accendo un filo di quiete, ma
non aiuta a cancellare
il silenzio serpente
arrampicato sulle spalle.

Uno spettro di paura
spento e aggrovigliato,
divora interi oceani di occhi e
non so dove girare queste mani.

Rollo una cicca
in un cielo parallelo, guardando la costellazione delle tue labbra.

Non si addormenta
un sognatore, che
non smette di ribellarsi.

Thomas Amadei

16/03/21