Il capo del deserto – Yvan Goll

Foto di Anka Zhuravleva

 

Eressi per me il tuo capo sopra il deserto della morte quotidiana
Schiavi innumerevoli cossero i mattoni della tua statua
Col sangue del sole sorgente
Su scale di muratori salirono nei tuoi occhi
Intarsiarono le cupole con la polvere d’oro delle stelle
E le pupille con kohl e smeraldi
Esse oscillavano come l’eterna bilancia
Su cui si misurano il sole e la luna

Presto salí dal portale della tua bocca di granito
Che prediceva e vaneggiava
La dottrina del tuo antico popolo

Credevo il tuo cuore per sempre custodito
Nella piú profonda dimora del deserto
Il tuo occhio di veggente radiante oltre il tempo

Ma ahimè quanto presto divenisti cieca
Nel vento sabbioso e nella nebbia dei fantasmi
I mattoni marcirono piú in fretta di ogni carne
Le carovane accampate presso il lago salato dei tuoi occhi
Non riconobbero piú il tuo capo svanente
E il canto delle tue labbra sgretolate
Si spense nella volta azzurra della luna

Yvan Goll

(Traduzione di Lia Secci)

da “Erba di sogno”, Einaudi, Torino, 1970

∗∗∗

Das Wüstenhaupt

Ich baute mir dein Hauptüber der Wüste des taglichen Todes
Zahllose Sklaven brannten die Ziegel deiner Gestalt
Aus dem Blut des Sonnenaufgangs
Auf Regenleitern stiegen Maurer in deine Augen
Legten die Kuppeln aus mit dem Goldstaub der Sterne
Und die Pupillen mit Kohol und Smaragd
Diese schwebten wie die ewige Waage
Auf der sich Sonne und Mond messen

Bald stieg aus dem Tor deines granitenen Mundes
Der wahr- und irrsprach
Die Zauberlehre deines alten Volkes

Ich glaubte dein Herz für immer geborgen
In der tiefsten Wohnung der Wüste
Dein Seherinnenauge die Zeit überstrahlend

Doch ach wie bald erblindetest du
Im Sandwind und Nebel der Geister
Die Ziegel verwesten schneller als alles Fleisch
Die Karawanen die am Salzsee deiner Augen lagerten
Erkannten dein verwehendes Haupt nicht mehr
Und deiner bröckelnden Lippen Gesang
Verschallte im blauen Gewölbe des Mondes

Yvan Goll

da “Traumkraut”, Limes Vergal, Wiesbaden, 1951

Invocazione a Diotíma perduta – Friedrich Hölderlin

Foto di Anka Zhuravleva

 

4.

    Un diverso sentiero, in ciascun giorno,
io vo battendo. Per la verde selva;
verso la fonte, là, presso le rupi,
ove a cespi fioriscono le rose;
ora, dal poggio, la campagna guardo.
Ma non ritrovo te, mio dolce amore,
in alcun luogo, qui, sotto la luce:
e vaniscon, nell’ètere dissolte,
le pie parole che ascoltavo un giorno
dalle tue labbra…

    Tu sei scomparsa, immagine beata!
E smorzando si va la melodia
della tua vita, da che piú non l’odo.
Oh, dove siete, prodigiosi canti,
che nella pace degli Olimpii, un giorno,
mi placavate i turbini del cuore?
Come fuggito è il tempo! Ed invecchiava,
il giovine d’allora… Anche la terra,
che mi sorrise un dí, non è piú quella…
Salve, divina immagine ! Ché l’anima
si accomiata da te, ma ti ritorna
ad ogni sole. E va schiarendo il pianto
l’occhio mio sempre piú, perché piú limpido
si riaffisi alle superne sfere,
ove forse tu indugi, oltre la vita.

Friedrich Hölderlin

(Traduzione di Vincenzo Errante)

da “Liriche per Diotíma lontana”, in “Vincenzo Errante, La lirica di Hoelderlin”, Vol. I, Riduzione in versi italiani, Sansoni, 1943

***

Wohl geh ich täglich…

Wohl geh ich täglich andere Pfade, bald
Ins grüne Laub im Walde, zur Quelle bald,
Zum Felsen, wo die Rosen blühen,
Blicke vom Hügel ins Land, doch nirgend,

Du Holde, nirgend find ich im Lichte dich
Und in die Lüfte schwinden die Worte mir,
Die frommen, die bei dir ich ehmals
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ja, ferne bist du, seliges Angesicht!
Und deines Lebens Wohllaut verhallt, von mir
Nicht mehr belauscht, und ach! wo seid ihr
Zaubergesänge, die einst das Herz mir

Besänftiget mit Ruhe der Himmlischen?
Wie lang ists! o wie lange! der Jüngling ist
Gealtert, selbst die Erde, die mir
Damals gelächelt, ist anders worden.

Leb immer wohl! es scheidet und kehrt zu dir
Die Seele jeden Tag, und es weint um dich
Das Auge, daß es helle wieder
Dort wo du säumest, hinüberblicke.

Friedrich Hölderlin

da “Gedichte”, Stuttgart, J.G. Cotta, 1847

Mandorla – Paul Celan

 

Nella mandorla – cosa c’è nella mandorla?
Il Nulla.
C’è il Nulla nella mandorla.
Lì sta e ristà.

Nel Nulla – chi vi sta? Il Re.
Lì sta il Re, il Re.
Lì sta e ristà.

                  Ricciolo ebreo, tu grigio non diventi.

E il tuo occhio – dove sta il tuo occhio?
Il tuo occhio sta incontro alla mandorla.
Il tuo occhio, al Nulla sta incontro.
Sta per il Re.
Così sta e ristà.

                  Ricciolo d’uomo, tu grigio non diventi.
                  Vuota mandorla, blu regale.

Paul Celan

(Traduzione di Giuseppe Bevilacqua)

da “La rosa di nessuno”, in “Paul Celan, Poesie”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

∗∗∗

Mandorla

In der Mandel – was steht in der Mandel?
Das Nichts.
Es steht das Nichts in der Mandel.
Da steht es und steht.

Im Nichts – wer steht da? Der König.
Da steht der König, der König.
Da steht er und steht.

               Judenlocke, wirst nicht grau.

Und dein Aug – wohin steht dein Auge?
Dein Aug steht der Mandel entgegen.
Dein Aug, dem Nichts stehts entgegen.
Es steht zum König.
So steht es und steht.

                Menschenlocke, wirst nicht grau.
                Leere Mandel, königsblau.

Paul Celan

da “Die Niemandsrose”, S. Fischer Verlag, 1963

Corona – Paul Celan

 

L’autunno mi bruca dalla mano la sua foglia: siamo amici.
Noi sgusciamo il tempo dalle noci e gli apprendiamo a camminare:
lui ritorna nel guscio.

Nello specchio è domenica,
nel sogno si dorme,
la bocca fa profezia.

Il mio occhio scende al sesso dell’amata:
noi ci guardiamo,
noi ci diciamo cose oscure,
noi ci amiamo come papavero e memoria,
noi dormiamo come vino nelle conchiglie,
come il mare nel raggio sanguigno della luna.

Noi stiamo allacciati alla finestra, dalla strada ci guardano:
è tempo che si sappia!
È tempo che la pietra accetti di fiorire,
che l’affanno abbia un cuore che batte.
È tempo che sia tempo.

È tempo.

Paul Celan

1948

(Traduzione di Giuseppe Bevilacqua)

da “Paul Celan, Poesie”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

È da questa poesia che Celan desume il binomio Mohn und Gedächtnis. Corona è una lirica d’amore, scritta nel 1948, probabilmente già a Parigi, che si differenzia da quelle scritte precedentemente, a Bucarest: ora infatti la relazione amorosa sembra volersi proclamare ufficialmente. Gli amanti si fanno alla finestra, si mostrano: perché «è tempo che si sappia». Con apparente paradosso essi si amano come Mohn und Gedächtnis, ossia come possono amarsi due contrari: l’oblio e la memoria. L’amore si perfeziona e si esalta nella difficile conciliazione degli opposti. Assumendolo come titolo dell’intera raccolta, Celan ne ha esteso enormemente l’alone simbolico. Dobbiamo supporre che con esso il poeta abbia voluto indicare l’opposizione in cui si trovava a vivere e sentire in quei primi anni del dopoguerra; e la speranza di poterla conciliare nel cerchio magico di una relazione, che a differenza di quelle attestate in quasi tutte le restanti poesie amorose della raccolta, in Corona si presenta tanto poco occasionale e precaria da voler essere riconosciuta ufficialmente e quindi farsi supporto di una condizione duratura. L’opposizione, quasi non occorre precisarlo, è quella tra l’inevitabile e del resto voluto ricordo delle tragiche esperienze attraversate in patria e la legittima aspirazione a non farsene sopraffare, a lasciarsi aperta la strada per una nuova esistenza.
Nel contesto di Corona il termine Mohn indica bensì, nella sua prima accezione, il rosso fiore di campo, ma l’accoppiamento con Gedächtnis lo carica in modo evidente del significato traslato, che del resto è anche letterariamente attestato («Oh Mohn der Dichtung…», invoca il poeta Ludwig Uhland) come oblio, dolce rimedio alla pressione dei ricordi o di una realtà opprimente. Ed esplicitamente il Mohn des Vergessens (alla lettera: “papavero del dimenticare”) è nominato in Die Ewigkeit. Traducendo con papavero si rimane fedeli alla lettera, ma si perde il traslato; inoltre la forma italiana ha una connotazione vistosa, popolaresca, si tratta insomma dell’allegro rosolaccio che ravviva i prati e i campi estivi. Siamo, in tutti i sensi, molto lontani dal tedesco Mohn, che non a caso conosce anche la forma Klatschmohn, per indicare specificamente il fiore in quello che ha di più sgargiante (Klatsch). (Giuseppe Bevilacqua)

∗∗∗

Corona

Aus der Hand frißt der Herbst mir sein Blatt: wir sind Freunde.
Wir schälen die Zeit aus den Nüssen und lehren sie gehn:
die Zeit kehrt zurück in die Schale.

Im Spiegel ist Sonntag,
im Traum wird geschlafen,
der Mund redet wahr.

Mein Aug steigt hinab zum Geschlecht der Geliebten:
wir sehen uns an,
wir sagen uns Dunkles,
wir lieben einander wie Mohn und Gedächtnis,
wir schlafen wie Wein in den Muscheln,
wie das Meer im Blutstrahl des Mondes.

Wir stehen umschlungen im Fenster, sie sehen uns zu von der Straße:
es ist Zeit, daß man weiß!
Es ist Zeit, daß der Stein sich zu blühen bequemt,
daß der Unrast ein Herz schlägt.
Es ist Zeit, daß es Zeit wird.

Es ist Zeit.

Paul Celan

da “Mohn und Gedächtnis”, Deutsche Verlags–Anstalt GmbH, Stuttgart, 1952

In-cantonante – Paul Celan

 

IN-CANTONANTE: Rembrandt, a tu per tu
con la luce arrotante,
deriflessa dalla stella
come ricciolo di barba,
sulla tempia,

linee come d’una mano traversano
la fronte, fra desertici detriti, sulle
rupi del tavolo
ti manda un bagliore attorno
all’angolo destro della bocca il
sedicesimo salmo.

Paul Celan

(Traduzione di Giuseppe Bevilacqua)

da “Parte di neve IV”, in “Paul Celan, Poesie”, “I Meridiani” Mondadori, 1998

Il lemma che funge da titolo è quasi sicuramente un neologismo, di senso alquanto astruso; per conseguenza la traduzione è semplicemente un calco. Il sedicesimo salmo, attribuito a Davide, esprime la speranza che il Signore non abbandoni l’anima del suo fedele alla totale distruzione (Sheol), e non ne permetta la putrefazione. Celan, solo un paio di settimane prima del suicidio, avrebbe dichiarato che in quel momento Einkanter era la poesia cui si sentiva più vicino (cfr. Weber 1970, p. 202). Forse anche per avere avuto presenti i fondamentali e ben noti studi su Rembrandt di Georg Simmel, si può supporre che Celan nella tarda ritrattistica del grande artista abbia letto la consapevolezza di un incombente destino di morte, unita però – quanto meno all’angolo destro della bocca – a un raggio di speranza quale è proclamata dal salmista, un’attesa di perennità oltre la distruzione fisica. Non poche poesie dell’ultimo Celan possono essere lette come autoritratti, scandagli in profondità; e non è da escludere che con Einkanter il poeta abbia anche inteso sovrapporre la propria immagine a quella dell’artista. La vasta ricerca di Reuß 1989 (50 pagine e quasi 200 note) nonostante l’impegno e l’utile messa a punto di vari dettagli non approda a perspicui risultati interpretativi. (Giuseppe Bevilacqua)

∗∗∗

Einkanter

EINKANTER: Rembrandt,
auf du und du mit dem Lichtschliff,
abgesonnen dem Stern
als Bartlocke, schläfig,

Handlinien queren die Stirn,
im Wüstengeschiebe, auf
den Tischfelsen
schimmert dir um den
rechten Mundwinkel der
sechzehnte Psalm.

Paul Celan

da “Schneepart”, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1971